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giovedì, dicembre 18, 2014

Lavoro e maternità, la storia di Elena e di Periodofertile.it


Elena Crestanello, 38 anni, madre di due bambini, non riusciva a trovare un impiego stabile nonostante una laurea in biologia con 110 e lode. Durante i colloqui le dicevano: «Vuoi mettere su famiglia? Allora torni quando ha già dei figli». Così, il lavoro se l’è inventato. Proprio grazie al fatto di essere madre. Ha fondato Periodofertile.it, un sito dedicato ai temi della gravidanza e della maternità che totalizza 4,5 milioni di visite in media al mese.

«Ha in progetto di avere figli? Allora torni quando sarà diventata madre». Sono molte le donne che si sono sentite dire queste parole durante un colloquio di lavoro. Una di queste è Elena Crestanello, 38 anni di Thiene (Vicenza), che ora è mamma di due bambini.

Elena si è trovata in questa spiacevole situazione quando una decina di anni fa, da fresca laureata in scienze biologiche, ha sostenuto delle selezioni in alcune aziende farmaceutiche e non le ha passate non perché non fosse competente (sul suo curriculum c’era anche un brillante 110 e lode) ma perché voleva legittimamente avere dei figli.

Ma la discriminazione subita, alla lunga, è stata una delle molle che l’ha spinta a inventarsi un lavoro che le piace e le permette di mettere a frutto le sue conoscenze in campo scientifico: Elena infatti è la fondatrice di Periodofertile.it, un portale web sui temi della gravidanza e della maternità seguitissimo dalle mamme e dalle donne che vogliono avere figli. «Dal 2009 a oggi siamo passati da poche centinaia di visite a 4,5 milioni di visite al mese. In alcuni periodi dell’anno arriviamo anche a picchi di 5,5 milioni al mese», dice Elena.

Come è nato Periodofertile.it?
Una volta laureata, avevo davanti a me una scelta: intraprendere la carriera universitaria – avevo ricevuto anche qualche proposta – oppure sposarmi, mettere su famiglia e trovare lavoro in zona. Ho scelto la seconda ma nelle aziende non ho trovato niente, anche perché avevo in programma di diventare madre. Così ho iniziato a fare supplenze nelle scuole medie: insegnavo, tra le altre cose, informatica e già nove anni fa facevo fare ai ragazzi dei piccoli blog sulla piattaforma Wordpress dedicati alle loro passioni.  Tra una supplenza e l’altra ho cominciato un corso per diventare esperta in IT. Poi, in famiglia c’era mio marito, ingegnere delle telecomunicazioni, che aveva già capito vari anni fa che nel web c’erano tante opportunità di lavoro: io all’inizio non ne ero tanto convinta. Però, cominciai a creare i miei primi blog. E qualche anno dopo, quando ero incinta, decisi insieme a mio marito di creare Periodofertile.it: tuttora, lui si occupa della parte tecnica e io dei contenuti. È nato per passione: potevo sfruttare le mie competenze e restare in contatto con la ricerca.

Il sito è diventato subito la sua unica attività?
No, all’inizio insegnavo e gestivo il sito parallelamente. Nei primi periodi, tra l’altro, il portale non era così pieno di informazioni: c’erano il calcolatore dei periodi fertili e qualche articolo. Poi ho iniziato a informarmi sempre di più, e con la nascita del secondo bambino ho cominciato a scriverci di tutto. Quando mi sono accorta, con il tempo, che dedicavo al sito anche otto ore al giorno ho capito che dovevo fare una cosa o l’altra e monetizzare. Così, dal 2011 sono a tempo pieno su Periodofertile.it.


Quali sono i servizi più richiesti?

Il lavoro principale è rispondere alle domande poste dalle lettrici su problemi di fertilità, sulla gravidanza e sul primo periodo post parto. Molto forte, poi, è il lato community: ci sono molte mamme che si incontrano sul sito perché, come è giusto, non vogliono vivere la gravidanza in solitudine. E ancora, sono molto apprezzati i servizi di notifica sul cellulare per i vari momenti importanti: dai periodi fertili pre-gravidanza all’allattamento. In più, ci sono esperti – nutrizionisti, psicologi… – che rispondono gratuitamente alle domande delle lettrici. Non ci sostituiamo al medico ma forniamo un supporto prezioso.

Cosa rende diverso Periodofertile.it dai tanti siti e blog dedicati alle mamme?
Il taglio che ci differenzia è il fatto di aver creato un clima familiare, di rispondere personalmente alle domande, anche in privato nei forum, di moderare: il punto di forza è far sentire la presenza. Se una persona scrive deve avere una risposta. 

Come guadagna il blog?
Dalle entrate pubblicitarie. Collaboriamo con una concessionaria pubblicitaria, FattoreMamma, specializzata sull’ambito mamme e famiglia: sono loro a gestire la questione degli introiti pubblicitari. Ma ripeto, Periodofertile.it non è nato per fare soldi. Io mi porto a casa uno stipendio mensile ma non sono diventata ricca con questo sito. 

Intorno alle mamme è nato un grande business di siti sul web: perché? Quale bisogno hanno colmato?
Questi siti hanno colmato il bisogno che ogni donna ha di avere qualcuno che le ascolti. E allo stesso tempo, molte delle persone che li hanno creati, se non l’hanno fatto per passione come me, lo hanno fatto perché si è capito che nel mondo delle mamme ci sono aziende che investono. In ogni caso, serve competenza e trasparenza: non puoi parlare di questi temi come di un paio di scarpe o di una borsa. E se alcuni contenuti sono sponsorizzati dalle aziende e riguardano prodotti per l’infanzia, chi scrive deve metterlo in chiaro da subito.

Maternità e lavoro: da un osservatorio come Periodofertile.it cosa emerge?
Leggo spesso di donne che hanno paura di comunicare al proprio titolare la gravidanza. Altre vengono lasciate a casa oppure vengono sottoposte a cambi di mansione o a vero e proprio mobbing. Ancora, c’è chi torna a lavorare dopo tre mesi di vita del bambino non per questioni economiche ma semplicemente per conservare il lavoro. Tra i nostri esperti c’è un avvocato e sono molto frequenti le domande sui diritti connessi al lavoro. E non mi stupisco di vedere altre donne che fanno un percorso simile a quello che ho fatto io. Il lavoro scarseggia, si sa. E il fatto di non avere prospettive ti fa mettere in moto una serie di scelte.




venerdì, dicembre 05, 2014

L’intervista. Oscar Giannino: «Il Jobs Act contiene alcuni sforzi apprezzabili ma le risorse sul tavolo sono poche e molto dipende da come si concretizzerà nei decreti»


Intervista al giornalista di Radio24 e de Il Messaggero sulla riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi e approvata, finora, alla Camera. «Mi piace l’energia del premier nel prevedere verifiche nel tempo e nello sfidare i sindacati. Ma l’abolizione del reintegro giudiziale nei licenziamenti economici potrebbe essere depotenziato dalle fattispecie dei disciplinari. E ci sono tematiche assenti o a cui si è prestata poca attenzione: le politiche attive per il lavoro, l’apprendistato, il Sud e il lavoro autonomo»

Giannino, cosa trova convincente del Jobs Act?

Mi è piaciuta l’energia con cui il presidente del Consiglio ha dichiarato che la riforma del mercato del lavoro è un cantiere che andrà avanti con puntuali verifiche nel tempo delle novità introdotte. E il controllo comincerà con la definizione dei decreti. D’altronde, a mio parere è sempre mancata una strumentazione pubblica che permettesse di verificare gli effetti dei pur frequentissimi interventi di innovazione legislativa. È necessario per permettere a tutti, e soprattutto alla politica, di capire che cosa ha determinato che cos’altro, che cosa ha fallito e che cosa si può cambiare senza fare innovazioni legislative. Se si arriva davvero a un codice unico semplificato del lavoro, allora questa riforma sarà davvero un’occasione colta.

Su LeoniBlog, parla però di “bicchiere mezzo vuoto”. Su quali aspetti ha i maggiori dubbi?
La mia non è una critica pregiudiziale: mi rendo conto delle difficoltà e do atto al premier di aver operato una sana rottura politica su diversi aspetti. Tuttavia, nel merito, ciò che vedo mi lascia motivatamente aperto alla necessità di giudizi successivi. Partiamo per esempio dall’intervento sull’articolo 18. Non ho mai pensato che fosse la leva per l’occupabilità. Non mi sfugge la dimensione mitico-politica e capisco l’energia del governo nel mettervi mano. Ma potrò capire che efficacia avrà quando ci sarà una determinazione specifica delle fattispecie del licenziamento discriminatorio. Maggiore è il dettaglio, più elevato è il rischio che un consulente dica “è discriminatorio: andiamo dal giudice”. Il passo avanti rispetto alla riforma Fornero di prevedere il solo indennizzo per il licenziamento economico individuale verrebbe in qualche modo depotenziato. Si rischia di far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Anche riguardo all’indennizzo ho delle riserve: finché non si vede come si calcola, sopra e sotto i 15 dipendenti, non sono in grado di capire fino a che punto è una misura utile.

Sono sufficienti le risorse messe sul tavolo?   
La questione delle risorse è uno dei principali punti aperti. Per esempio, un aspetto molto importante è il superamento della cassa integrazione attraverso l’Aspi. Ma finché l’Aspi continuerà ad avere meno risorse della cassa, imprese e sindacati continueranno a tenersi quella. Si parlava di risorse aggiuntive per questo ammortizzatore ma al momento, nel passaggio parlamentare, sembrano sparite.

E i tre miliardi di decontribuzione previsti per i primi tre anni per chi assume con il contratto unico a tutele crescenti?
Io ho sempre pensato che per ottenere una maggiore occupabilità in tempi brevi-medi le risorse vanno concentrate su occupazione aggiuntiva e non vanno date a tutti i nuovi contratti, compresi quelli che sostituiscono il tempo determinato con l’indeterminato. In genere, gli incentivi hanno più effetto se non dati a pioggia. Questi tre miliardi, quindi, li avrei visti meglio se fossero stati previsti solo per le nuove assunzioni. Anche dal punto di vista fiscale, sarebbe più sostenibile concentrare le risorse sull’occupazione aggiuntiva.

Come agisce a suo parere la riforma sulle politiche attive per il lavoro?
La questione delle politiche attive è fondamentale per l’occupabilità. È necessario passare da troppe politiche passive a più politiche attive. Ma in questa riforma ci sono grandi punti interrogativi. Per esempio, questa Agenzia nazionale per l’occupazione, rischia di essere null’altro che la somma degli uffici provinciali per il lavoro. Se resta tutto nelle mani del pubblico, si tratterà di un fallimento conclamato. Bisognerebbe fare qualcosa di analogo a ciò che si è fatto in Germania. L’agenzia centrale dovrebbe limitarsi a gestire l’accreditamento dei privati, soprattutto grandi soggetti e multinazionali, più bravi nell’intermediare la domanda e l’offerta di lavoro. D’altronde, l’esperienza finora fallimentare di Garanzia Giovani è una colossale riprova dell’impossibilita della macchina pubblica di gestire le politiche attive.  Inoltre, servirebbe anche che il Jobs Act sia accompagnato da una riforma della scuola, secondaria e terziaria, e con un’accelerazione sull’apprendistato. Il contratto di inserimento triennale funzionerà solo con un sistema scolastico più professionalizzante e lasciando intatti un cospicuo numero di contratti a termine: è un paradosso che i dipendenti dei call center invochino il mantenimento del contratto a progetto per poter conservare il proprio lavoro.

Ci sono dei grandi assenti in questa riforma?
Oltre agli aspetti che ho già descritto – politiche attive, apprendistato – ce ne sono diversi. Io, che pure sono stato molto critico sulle politiche differenziate per il Sud, vista la disparità pazzesca in ambito lavorativo - 600 mila posti di lavoro persi al Mezzogiorno su un milione, circa 37% di disoccupati nelle costruzioni… - avrei sperimentato cose diverse, proponendo per esempio incentivi diversificati per il Mezzogiorno. Poi, poteva essere un’occasione per parificare lavoro privato e pubblico e – cosa importantissima – per aprirsi alla possibilità di estendere i dirititi di una parte dei lavoratori autonomi verso cui regna una totale indifferenza. Penso agli iscritti alla gestione separata Inps, che versano contributi altissimi senza avere nessuna ombra di tutela.

giovedì, dicembre 04, 2014

Jobs Act e Garanzia Giovani: quali saranno i veri cambiamenti


La riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi convince, ma non del tutto. La Youth Guarantee è un’opportunità ancora da sfruttare. Sono questi i temi di cui si è discusso il 28 novembre a Milano durante il convegno “Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani?”, organizzato da Synergie Italia e Adapt. Tra i relatori Giuseppe Garesio (ad di Synergie Italia), Oscar Giannino ed Emmanuele Massagli (presidente Adapt)

La riforma del mercato del lavoro targata Renzi riuscirà ad avere un impatto positivo sull’occupazione? Il governo e le Regioni saranno capaci di non sprecare l’opportunità della Youth Guarantee? Se ne è discusso il 28 novembre nella sede di Assolombarda a Milano durante il convegno “Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani?”, organizzato da Synergie Italia e Adapt, associazione di studi sul lavoro fondata da Marco Biagi. L’iniziativa faceva parte dei progetti per celebrare i 15 anni di attività di Synergie Italia.

«Il Jobs Act? Luci e ombre», ha commentato Oscar Giannino, giornalista ed ex leader del movimento Fare per fermare il declino. «È il quinto intervento sul mercato del lavoro in cinque anni: così le imprese non ci capiscono nulla. Ma i pregi ci sono, a cominciare dall’abolizione della compresenza tra reintegro e indennizzo in caso di licenziamento economico».

Ma la riforma sarà in grado di risolvere i problemi del mercato del lavoro? Secondo il giornalista, che aveva il compito di moderare il dibattito, molto dipenderà dai decreti attuativi. «Bisognerà capire come verranno tipizzati i licenziamenti disciplinari riguardo al reintegro e cosa si stabilirà sul calcolo degli indennizzi. Inoltre, se l’introduzione del contratto a tutele crescenti è apparentemente molto ragionevole sarà necessario capire come sarà effettuato lo sfoltimento degli altri contratti a termine: i call center, per esempio, già temono che l’abolizione del contratto a progetto potrebbe equivalere per loro alla disoccupazione».

Anche Giannino, poi, si unisce al coro delle critiche – provenute da varie parti, sia politiche che sociali – secondo cui il Jobs Act ha posto poca attenzione all’apprendistato («che invece andrebbe rafforzato») e al lavoro autonomo. «In questo momento – ha concluso – è difficile quindi elaborare l’effetto sull’occupabilità».

Per fare analisi è necessario partire da dati condivisi. Invece, proprio il 28 si è assistito alla “guerra di numeri” tra il Ministero del Lavoro (più di 400 mila nuovi “posti fissi” in base alle comunicazioni obbligatorie relative al lavoro dipendente e parasubordinato nel terzo trimestre del 2014) e l’Istat (disoccupati a quota 3,41 milioni in base alle rilevazioni mensili e trimestrali).

A ridare un senso alle cifre ci ha pensato Emmanuele Massagli, presidente di Adapt. «Osservando le comunicazioni obbligatorie, notiamo che gli avviamenti di rapporti di lavoro sono stati nel terzo trimestre 2,47 milioni, il 2,4% in più rispetto allo stesso periodo 2013», ha detto Massagli. «Allo stesso tempo, le cessazioni sono state 2,41 milioni. La maggior parte dei rapporti di lavoro sono quelli a tempo determinato, visto che il Ministero comunica che sono il 70% circa dei nuovi contratti. Questa prevalenza è anche una conseguenza della riforma Fornero, che aveva irrigidito più o meno tutte le altre forme contrattuali tranne il tempo determinato».

Un elemento rilevante, secondo il presidente Adapt, riguarda l’apprendistato. «Dalle comunicazioni obbligatorie emerge che è cresciuto del 3%: è poco, ma è un dato interessante». Sezionando invece i numeri dell’Istat, Massagli ha evidenziato che il numero dei disoccupati in Italia (3 milioni e 410 mila) è aumentato, così come il tasso di disoccupazione (arrivato a 13,2%). «Ma le statistiche ci dicono anche che la quantità di over 50 al lavoro è aumentato: è un dato in controtendenza, che segnala la voglia di tornare a lavorare».

Per Massagli, alcune delle misure previste dal Jobs Act, come il contratto a tutele crescenti e la decontribuzione, sono in grado di incidere positivamente sul lavoro degli adulti. «Le imprese si trovano così a pagare di meno per avere personale preparato. Ma per i giovani, come ha dimostrato la bassa efficacia degli interventi degli ultimi governi, la decontribuzione non funziona». Una novità del Jobs Act è definire il contratto a tempo indeterminato come la forma “comune” di rapporto di lavoro. «È in grado questo contratto di leggere il mercato del lavoro del futuro? Ho i miei dubbi».

Un’altra incognita è rappresentata dall’abolizione del contratto a progetto. «Attenzione – ha avvertito lo studioso –. Se questa misura non sarà realizzata in modo graduale, centinaia di migliaia di lavoratori rischierebbero di rimanere senza impiego». Infine, una nota sull’introduzione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione. «A parte l’infelice scelta dell’acronimo, mi chiedo: a che serve un’agenzia del genere se poi non si è capaci di far conoscere uno strumento importante come la Garanzia Giovani?».


I più chiamati in causa sono naturalmente i politici. E il parlamentare presente, Stefano Lepri, senatore Pd componente della commissione Lavoro, ha difeso gli intenti della riforma approvata alla Camera (e in via di approvazione al Senato) sottolineando i potenziali punti di forza. «Il contratto unico, assimilando in termini di flessibilità in uscita le imprese sotto i quindici dipendenti con quelle che ne hanno di più, è una misura potente per centinaia di migliaia di imprese: il fatto che ci siano pochissime aziende tra i 15 e i 20 dipendenti è la prova che al momento la legislazione è troppo rigida».

Quanto alle politiche attive per il lavoro, l’auspicio di Lepri è che si arrivi a una situazione in cui le agenzie private si occupano del matching tra domanda e offerta di lavoro mentre i centri per l’impiego supervisionano altre questioni di carattere organizzativo e burocratico.

Un no secco al Jobs Act, eccetto qualche eccezione, arriva da Valentina Aprea, assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro della Regione Lombardia. «È una delega in bianco al governo, a spesa pubblica sostanzialmente invariata, che difficilmente creerà nuova occupazione e che crea carrozzoni pubblici come l’Agenzia nazionale per l’occupazione», tuona l’assessore. «La strada giusta per creare posti di lavoro è la detassazione del lavoro per le imprese».

Come amministratrice, Aprea si concentra sull’applicazione di Garanzia Giovani che in Lombardia, caso raro, sta producendo risultati piuttosto soddisfacenti. «Il governo non ha lavorato bene su questo strumento. Ma è troppo presto per dire che la Youth Guarantee è fallita. Se sta cominciando a funzionare da noi in Lombardia, può succedere anche altrove».

Non si tirano fuori dal dibattito anche le imprese, che per bocca di Alessandro Maggioni, presidente dei Giovani imprenditori Confindustria Monza e Brianza, dicono: «Gli incentivi della Garanzia Giovani e dei bonus occupazionali sono poco chiari: ci abbiamo capito poco. In ogni caso, per quanto le riforme possano costituire un buon terreno per creare più occupazione, i “contadini” che assumono sono gli imprenditori e possono farlo solo se ci sono le condizioni giuste nell’economia. Ecco perché prima ancora del Jobs Act, serve una politica industriale efficace». Il Jobs Act può funzionare, spiega l’imprenditore. Ma è importante che, riguardo alla nuova disciplina dei licenziamenti economici, sia ben chiaro l’indennizzo da corrispondere al lavoratore.

Se il parere dei sindacati è generalmente contrario alla riforma made in Renzi, la Cisl è la voce fuori dal coro. Roberto Benaglia, segretario confederale Cisl Lombardia con delega al mercato del lavoro, fa notare che il suo sindacato non partecipa allo sciopero generale indetto dalla Cgil il 12 dicembre e approva le linee di fondo del Jobs Act. «Riduce il dualismo tra i lavoratori con contratto a tempo indeterminato o che lavorano in imprese con più di 15 dipendenti e chi lavora senza un rapporto a tempo indeterminato e in piccole aziende».

Un elemento determinante, per il sindacalista, è l’attenzione che la riforma del mercato del lavoro pone sulla tutela dei periodi di disoccupazione. «Puntare più risorse sugli ammortizzatori per la disoccupazione è positivo. Fa in modo che la cassa integrazione torni a essere uno strumento per fronteggiare brevi periodi di crisi».

Un soggetto che, in questo contesto, può svolgere un ruolo determinante sono le agenzie per il lavoro. Come ha spiegato Giuseppe Garesio, amministratore delegato di Synergie Italia. «Come Synergie Italia, festeggiamo i 15 anni di attività. Siamo partiti nel 1999, quando la legge Treu ha introdotto, con trent’anni di ritardo rispetto al resto d’Europa, il lavoro interinale. E ora, nel 2014, così come tutte le agenzie per il lavoro, possiamo essere protagonisti di questo cambiamento che il Jobs Act può generare, in quanto siamo una porta di ingresso gratuita per il lavoro permanente: non a caso, moltissimi lavoratori trovano un impiego stabile dopo una missione svolta attraverso un’agenzia per il lavoro. Questo ruolo delle agenzie va riconosciuto. E si può davvero fare in modo che pubblico e privato progettino insieme le politiche attive per il lavoro. Questa riforma ha molti tratti positivi, tra cui il passaggio verso processi “europei” di flexicurity. È una grandissima occasione di voltare pagina e non dobbiamo perderla».

L’incontro è stato chiuso da un’altra voce imprenditoriale: Michele Angelo Verna, direttore generale di Assolombarda. «Il Jobs Act? Sembra una riforma buona. È positivo per esempio che il tempo indeterminato venga definito la forma normale per i rapporti di lavoro. Il testo di legge, inoltre, sottolinea che i contratti devono essere “più convenienti” per le imprese: è un buon segno. Sono previsti sgravi per i primi tre anni: bene, vediamo se diventa una misura strutturale. O ancora, il demansionamento: può essere un’alternativa al licenziamento che prima non era prevista».

Semaforo verde, quindi. Ma purché al momento dei decreti, quando si deciderà concretamente come far funzionare la riforma, il governo non si muova in solitaria. «Il ministro Poletti ha parlato volutamente di “delega alta”. Al momento buono bisognerà discutere e confrontarsi con tutti: imprese, sindacati, esperti e media».

lunedì, dicembre 01, 2014

Stage: cosa cambia in Europa tra un Paese e l’altro


Un rapporto curato dalla Commissione europea mette a confronto il quadro normativo su stage e tirocini (e, in alcuni casi, apprendistati) nei Paesi membri dell’Unione. I tratti comuni sono molti, a cominciare dal fatto che il numero di stage attivati cresce di continuo e che ci sono almeno cinque tipologie ricorrenti. Altri aspetti piuttosto uniformi sono il basso (o nullo) compenso riservato ai tirocinanti e le degenerazioni presenti in alcuni settori come le agenzie creative e i media. Ma al di là degli elementi negativi c’è ovunque la consapevolezza che si tratti di uno strumento prezioso per avvicinare scuola e lavoro

Stage, tirocini, internship. Come sono in Europa? Cosa cambia tra uno Stato e l’altro? Una possibile risposta a queste domande la fornisce una ricerca della Commissione europea  condotta in tutti i Paesi membri (manca solo la Croazia, ultima arrivata, ma lo studio risale a due anni fa).

L’indagine è stata realizzata dal centro di ricerca britannico Ies, dall’italiano Irs (Istituto per la ricerca sociale) e dal tedesco Bibb e mette a confronto gli ordinamenti sui tirocini dei 27 Stati Ue, dedicando a ciascuno di essi uno specifico approfondimento.

Dalla sintesi iniziale è possibile capire quali siano i trend comuni in Europa riguardo al tema stage, a cominciare dal fatto che l’informazione relativa all’argomento non è omogenea in tutti i Paesi: le fonti, quindi, sono di vario tipo.

Lo studio parte con il catalogare le varie forme di stage reperibili nel Vecchio Continente. Ne individua cinque: stage curriculari, ovvero legati al percorso formativo, universitario e non; tirocini post-laurea finalizzati all’ingresso nel mondo del lavoro; percorsi inseriti all’interno di programmi di politiche attive per il lavoro; quelli necessari per ottenere una qualifica; internship offerti da vari programmi internazionali, tra cui il Leonardo.
Alcuni aspetti valgono in tutti i Paesi membri. Il primo è proprio la proliferazione dei tirocini, a cui è seguita una serie di azioni per disciplinarli, orientarli e dotarli di regole più ferree.  Un altro elemento comune riguarda il compenso, spesso scarso o addirittura assente, per questa tipologia di formazione/lavoro.

Quando ci sono, i fondi a disposizione per finanziare queste forme di accesso al lavoro derivano quasi sempre da fondi europei, nazionali e regionali, borse di studio universitarie, bandi pubblici oppure iniziative di privati e aziende. Altrimenti, il tirocinante è costretto ad autofinanziarsi l’esperienza di stage

Grosse differenze si riscontrano riguardo alle definizioni di stage e di tirocinante. Nella maggior parte degli Stati membri c’è persino una definizione legale e di solito mette in relazione strettissima la formazione e il lavoro. Sintetizzando viene definito come un’esperienza che ha fini educativi/formativi, è legata all’apprendere un mestiere, una professione o una competenza e ha carattere temporaneo.

Così come non esiste una definizione omogenea e condivisa, non si può individuare neanche una normativa comune. E la discrepanza non è solo tra Stati ma anche tra varie forme di stage. Quelle più legate alla formazione o alle politiche attive per il lavoro tendono a essere le tipologie con il quadro normativo più solido. Mentre gli stage attivati liberamente sul mercato sono di solito meno regolati. Le norme relative agli stage si trovano in leggi e regolamenti che afferiscono tanto alla legislazione sul lavoro che a quella sull’istruzione.

Va notato – si sottolinea nell’indagine – che la presenza di leggi e regole non è una garanzia di qualità dello stage. È necessaria una corretta applicazione delle norme e un attento monitoraggio dell’intero processo. Anche se – precisa il rapporto – un dato positivo è costituito dal fatto che nelle varie normative nazionali tendano a essere approvate leggi che migliorano le condizioni degli stagisti.

 I settori in cui è più facile che vengano attivati degli stage sono: quelli in cui è necessario un periodo di tirocinio (o di apprendistato, a seconda dei casi) per accedere alla professione (medicina, legge, insegnamento, architettura), i media, il giornalismo, le agenzie creative, il settore pubblico, il terzo settore, l’ospitalità e i servizi finanziari.

In alcuni di questi comparti – soprattutto agenzie creative, media e giornalismo – gli stage sono generalmente associati a: bassi contenuti di apprendimento, condizioni di lavoro insoddisfacenti, rimborsi/compensi inadeguati, contratti di stage rinnovati di continuo senza un’offerta di lavoro permanente. Inoltre, in questi contesti, non è raro vedere stagisti che vengono “assunti” al posto del personale regolare.

Ma al di là degli elementi negativi e delle distorsioni, c’è una consapevolezza comune, in Europa, secondo cui stage, tirocini (e apprendistati, laddove queste forme vanno a coincidere) sono uno strumento importante per facilitare la transizione dalla scuola al mondo del lavoro.