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lunedì, novembre 17, 2014

Dall’infermiere che picchia il paziente al lavoratore che mostra i genitali Quando il reintegro in base all’articolo 18 è un paradosso



L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevede, stando così le cose, la possibilità di essere reintegrati sul posto del lavoro in caso di licenziamenti considerati illegittimi per motivi discriminatori, disciplinari ed economici. Da forma di tutela per il lavoratore, questo strumento si trasforma in taluni casi in trappola per il datore di lavoro. A dimostrarlo sono alcune storie di reintegrazioni paradossali e controverse ordinate da giudici forse un po’ troppo benevoli verso chi lavora. All’interno del saggio collettivo “Art. 18: la reintegrazione al lavoro”,  il giuslavorista Andrea Del Re ne ha raccolte di particolarmente “gustose”: il lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini, l’ubriaco cronico, il vigile del fuoco rapinatore. Tutti riammessi sul posto del lavoro in nome di un diritto che, in queste circostanze, confligge con un principio altrettanto sano: il dovere di lavorare onestamente


L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è uno dei nodi principali intorno al quale convergono i conflitti tra governo, sindacati e minoranza parlamentare. Il Jobs act targato Renzi, se sarà approvato in entrambe le Camere, dovrebbe abolire la parte che prevede il reintegro dei lavoratori in caso di licenziamenti per motivi economici considerati illegittimi. La possibilità di essere riammessi in azienda resterebbe invece per i licenziamenti discriminatori e quelli legati a determinate questioni disciplinari gravi.

Ma l’istituto del reintegro ha ancora senso nel nostro mercato del lavoro, dove solo 6,5 milioni di lavoratori su 22 sono tutelati dall’articolo 18? La risposta a questo quesito non può che essere diversa a seconda dei punti di vista. Un aspetto che però merita di essere preso in considerazione riguarda la casistica dei reintegri ordinati dai giudici da quando questo strumento esiste. Accanto a quelli sacrosanti, imposti laddove il datore di lavoro aveva licenziato senza giusta causa (o senza giustificato motivo) un dipendente, ce ne sono altri quantomeno discutibili.

Alcuni esempi di reintegri difficili da digerire sono stati raccolti dal giuslavorista Andrea Del Re nel saggio collettivo Art. 18: la reintegrazione al lavoro, curato da Massimo Bornengo e Antonio Orazi (Esculapio, 2012, 120 pagine, 20 euro). Del Re le definisce le “perle” dell’applicazione dell’articolo 18.

A partire dalla vicenda di un infermiere che picchiò un paziente affetto da ritardo mentale ma il giudice (Tribunale di Roma, ottobre 2001) impose alla clinica di riammetterlo nel posto del lavoro perché si era trattato di «un fatto isolato ed eccezionale in relazione a un paziente particolare». La giustificazione diventa ancora più particolare quando il tribunale afferma che «l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni non può giustificare quella che rimane un’estrema ratio». Lo choc della casa di cura, soprattutto in relazione all’immagine presso gli altri pazienti, fu tanto che acconsentì a dare un risarcimento salatissimo all’infermiere pur di non riaverlo alle sue dipendenze.

In Toscana, nel 2003, un tribunale arrivò a giustificare un tentativo di rapina in banca operato da un vigile del fuoco. Secondo il magistrato, evidentemente esperto di cinema, le circostanze in cui era avvenuto il fatto non erano tali da «ricondurre il delitto alla tipologia di quello ideato in Rapina a mano armata, di Stanley Kubrick, risalente al lontano 1956». Nella sentenza si legge poi che è importante «richiamare l’attenzione sulla concreta, differenziata, pericolosità sociale che un delitto, al di là del suo nome, si presta a rivelare, e spesso insufficiente, senza conoscere la storia della persona». Cioè, il tentato furto non era sufficiente per rilevare la complessità della persona che lo ha complesso e comunque non così grave da fargli perdere il posto di lavoro.



Neanche gli atti a sfondo sessuale sono sempre considerati abbastanza gravi da far pendere la bilancia da parte del datore di lavoro. Il pretore di Bolzano nel 1982 ha reintegrato sul posto di lavoro un lavoratore che aveva mostrato due volte i genitali ai colleghi, con l’attenuante che l’atto non era dettato da istinti sessuali e che non era rivolto a persone di sesso femminile.

La discriminante, quindi, è il genere? No, perché un altro esibizionista che si è reso colpevole dello stesso tipo di molestia davanti a una collega è stato “graziato” e reintegrato da un magistrato di Milano nel 1995, che ha ritenuto il fatto sicuramente degno di condanna ma il provvedimento disciplinare connesso – il licenziamento, appunto – sproporzionato alla gravità dell’illecito.

Un caso che ha fatto storia è quello dell’alcolista cronico reintegrato. Il grande giurista Giuseppe Pera la definì la «sentenza dell’ubriaco fisso». La Cassazione – si legge nel saggio di Del Re – arrivò a dire che «nel rapporto di lavoro subordinato, l’assenza dal servizio e l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione della medesima non possono costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento quando son dovute, non già a stati di ubriachezza, bensì ad un danno cerebrale, costituente l’esito  della prolungata assunzione dell’alcol e dei suoi effetti» (Cass. n.1314/1997). Per sintetizzare il paradosso, l’autore esclama: «Insomma, se ti ubriachi una volta e sei assente, puoi rischiare; se di contro ormai sei “ubriaco fisso” (come dice il Pera) sei giustificato».

Di reintegri così controversi il saggio è pieno: dal lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini corti all’uomo che picchia il collega con un tubo di ferro, dal dipendente che affigge sul muro manifesti contro la sua azienda (giustificati in quanto stampati dal partito politico al quale il lavoratore aderisce) all’impiegato burlone che fa arrivare merce non richiesta a casa del direttore generale della sua azienda mettendo firme false (uno «scherzo goliardico» non punibile con il licenziamento).

Il colmo forse si raggiunge con quello che negli ambienti di lavoro è un malcostume piuttosto diffuso. Cioè, il lavoratore che si assenta per malattia e poi svolge un secondo lavoro. Il pretore di Viareggio reintegrò sul posto di lavoro un uomo che aveva svolto attività lavorativa durante il periodo di malattia perché – recita la sentenza – «nessun danno ha arrecato al datore di lavoro». Il secondo lavoro era anzi perfino necessario «in quanto la suddetta malattia richiedeva oltre che le cure anche la necessità del lavoratore di vivere con familiari e amici e di trovare interesse nell’ambiente esterno, cosicché l’attività svolta era compatibile con lo stato di malattia la cui guarigione non solo non è stata ritardata, ma è stata anche accelerata». Insomma – chiosa ironicamente Del Re – «ammalatevi, lavorate altrove, guarirete prima!».

lunedì, novembre 10, 2014

Tiraboschi (Adapt): «Il disallineamento tra domanda e offerta? Crea una situazione in cui le aziende non hanno personale che le aiuti a generare nuovo lavoro»


Lo skill mismatch, ovvero lo squilibrio tra domanda e offerta di lavoro, riguarda tra il 25 e il 45% della forza lavoro in Europa. Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione per gli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi Adapt, spiega perché è un problema anche in Italia e cosa si dovrebbe fare per colmarlo

Lo chiamano skill mismatch. In italiano, disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Si verifica quando un lavoratore è sovra o sotto qualificato rispetto al lavoro che svolge. Stando a una ricerca dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, in Europa tra il 25 e il 45% della forza lavoro ha troppe o troppo poche competenze rispetto a quelle richieste dai datori di lavoro.

Secondo Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione per gli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi Adapt, il disallineamento tra domanda e offerta è una delle cause dell’alta disoccupazione, soprattutto giovanile, in Italia. Gli abbiamo chiesto perché.

Professore, si parla spesso di disallineamento tra domanda e offerta di lavoro: qual è lo scenario in Italia?
Manca un sistema di incontro. Le nostre università costruiscono percorsi non allineati ai fabbisogni del mercato e non in funzione dell’evoluzione delle tecnologie. Così, i giovani, anche se prendono bei voti, non riescono a trovare un’occupazione. Il mercato continua chiedere figure professionali scientifiche e tecniche, mentre il nostro sistema di orientamento, comprese le famiglie, spinge i nostri ragazzi verso i licei e verso i percorsi umanistici come se fossero l’unica strada per realizzarsi.

Lei ha affermato che, in un contesto dove la disoccupazione giovanile è al di sopra del 40%, chi fa percorsi tecnici e professionali il lavoro lo trova. C’è un problema di sovraqualificazione?
Studi internazionali recentissimi evidenziano che in Europa tra il 25 e il 50% della forza lavoro è sovraqualificata, ovvero ha titoli che non corrispondono a ciò che si fa. È appunto l’effetto del mismatch. Se il sistema crea professionisti di cui il mercato non ha bisogno poi è normale che i giovani siano obbligati a fare lavori diversi da quelle che erano le loro aspettative al momento dell’iscrizione all’università.

Ma non sarà che, al di là di tutto, le aziende non assumono perché non c’è abbastanza lavoro e non perché la forza lavoro non è formata adeguatamente?
È vero che le aziende oggi non hanno grandi prospettive di crescita e occupazionali. Ma è un circolo vizioso. Se le imprese potessero avvalersi di forza lavoro adeguata sarebbero più produttive e quindi avrebbero più spazio per assumere. Pensiamo alla Germania: l’occupaizone di giovani continua a crescere perché sono dotati di diversi strumenti che funzionano: alternanza scuola-lavoro, sistema duale, apprendistato. Lì le imprese sono competitive perché collaborano con il sistema scolastico, hanno una forza lavoro professionalizzata e creano sviluppo e lavoro: è un percorso virtuoso. Qui c’è poco spazio per assumere perché le aziende sono poco creative, non dotate di forza lavoro attrezzata per dare loro linfa vitale e creare nuove opportunità.

Realisticamente, come se ne esce?
Noi stiamo discutendo la riforma del lavoro ma stiamo dimenticando la questione dei tirocini, che sono tra gli strumenti più importanti per combattere il disallineamento. Bisogna aumentare le esperienze di tirocinio curriculari. Se sono sganciati da un percorso formativo, diventano contratti di inserimento. Occorre pensare a un’alternanza scuola-lavoro con tirocini più intensi, strutturati, duraturi. E poi, alla fine del percorso di studio-lavoro, puntare sull’apprendistato. Inoltre, per correggere gli errori di sistema, uno strumento utile potrebbe essere la messa a regime di Garanzia Giovani. Insomma, è necessario poter disporre di canali solidi di accompagnamento dalla scuola al mercato del lavoro.

È anche importante l’orientamento?
Orientamento è la parola chiave: è fondamentale aiutare a fare la giusta scelta dopo le scuole superiori. Università o lavoro? Occorre invitare i ragazzi a intraprendere dei percorsi coerenti alle loro attitudini e ai loro ma tenendo conto delle possibilità reali. C’è chi ha davvero la vocazione per discipline non tecniche e va giustamente guidato verso un percorso universitario adeguato. Ma ci sono altri ragazzi che, pur avendo potenzialmente l’inclinazione verso un lavoro manuale, non vengono incoraggiati. Si bloccano perché non c’è nessuno che spiega loro come muoversi.

Perché in Italia non funziona?
Non funziona per vari motivi di tipo organizzativo, legati al modo in cui funzionano le istituzioni pubbliche. Ma è un problema anche di tipo valoriale, culturale. Scontiamo ancora un pregiudizio, da parte delle famiglie e dei giovani, verso il lavoro manuale, tecnico. Mentre è facile vedere che nel Nord Europa a 16 anni si cominciano già percorsi tecnici professionali, man mano che si scende c’è la rincorsa al pezzo di carta. Gli stessi ragazzi che vanno agli ITIS purtroppo qui si considerano di serie B perché è cosi che la società li dipinge.

La riabilitazione dell’immagine dell’artigianato e del lavoro manuale non è ancora riuscita del tutto?
C’è un po’ meno pregiudizio verso questi settori. Se ne parla, ma il genitore continua a sperare per il figlio una carriera universitaria. Lo prova il fatto che gli artigiani e i commercianti cercano forza lavoro che sappiano fare cose manuali ma non la trovano. Se non ci fosse forza lavoro extracomunitaria difficilmente troverebbero personale.

giovedì, novembre 06, 2014

Somministrazione, le tutele per i lavoratori tramite agenzia

Quelli che una volta erano chiamati “interinali” godono di una serie di protezioni e di diritti che li avvicinano ai lavoratori subordinati. Dalla parità di trattamento rispetto ai pari ruolo assunti “direttamente” in azienda alle opportunità di formazione gratuita. Intanto, le imprese cercano sempre più somministrati: nei primi sei mesi del 2014, gli occupati sono stati oltre 282mila in media ogni mese, con un aumento dell’8,7 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente
 
Una volta li chiamavano “interinali”. Era una definizione che, nel sentire comune, faceva sempre pensare a lavoratori precari e condizionati più di altri dalla temporaneità del loro impiego. Poi, la riforma Biagi (decreto 276/2003) ha introdotto una formula simile ma diversa, il contratto di somministrazione di lavoro, mandando il lavoro interinale in pensione. E con il tempo, anche l’idea che i lavoratori somministrati fossero dei precari è andata in soffitta, sostituita dalla convinzione che si tratta sì di atipici ma con una serie di diritti e di tutele che li avvicina ai lavoratori subordinati “tradizionali”.

Sì perché il “
lavoro tramite agenzia” gode di numerose garanzie, a partire dalla parità di trattamento economico e normativo rispetto ai dipendenti di pari livello. In altre parole, un lavoratore in somministrazione non può percepire, a parità di mansioni svolte, un compenso inferiore a chi è assunto “direttamente” dall’azienda utilizzatrice del servizio. In più, non può sottostare a regole diverse.

Al pari dei rapporti di lavoro subordinati, il contratto dei lavoratori in somministrazione prevede il riconoscimento dei
contributi previdenziali, della maternità, dei congedi parentali.

Il sistema di welfare approntato per i lavoratori somministrati prevede che l’ente bilaterale
Ebitemp (costituito attraverso un accordo tra le organizzazioni sindacali Alai Cisl, Nidil Cgil e Uil Cpo e l'associazione delle agenzie per il lavoro in somministrazione Assolavoro) eroghi una serie di prestazioni a sostegno del reddito: indennità di infortunio, tutela sanitaria, piccoli prestiti personali, sostegno alla maternità e contributo per asili nido, mobilità territoriale.

Uno dei diritti più importanti di cui gode il lavoratore tramite agenzia è quello alla
formazione. Dal momento che le imprese che richiedono personale in somministrazione alle agenzie hanno bisogno di persone già formate e pronte a rispondere alle esigenze, i lavoratori possono accedere a corsi di formazione gratuiti sia durante le “missioni” (i contratti di lavoro stipulati tra le agenzie per il lavoro e i dipendenti) che al di fuori.
Lo strumento per gestire la formazione professionale è
Forma.Temp, anch’esso costituito da sindacati e associazione di categoria.

Sempre nell’ambito dei soggetti bilaterali, c’è anche un
fondo pensione complementare negoziale, Fontemp, che eroga trattamenti pensionistici complementari al sistema previdenziale obbligatorio.

Un aspetto che ha contribuito a percepire il lavoro tramite agenzia come non precario è stato anche la fine dell’equazione somministrazione = impiego temporaneo. Dal 2009 infatti è stato reintrodotto nell’ordinamento la
somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, anche definito staff leasing.

Si tratta però di una
formula che si può applicare solo ad alcune attività: le costruzioni, i servizi di cura e assistenza alla persona, i servizi di pulizia, le analisi di mercato, la gestione di call center, i servizi di consulenza nel settore informatico, i servizi di sostegno alla famiglia.
Le protezioni per i somministrati non sono soltanto quelle previste dai contratti ma anche quelle suggerite dalla realtà. Un’importante arriva proprio dal fatto che la somministrazione, anche in tempi di crisi, è stata una
risorsa preziosa per trovare occupazione e ridurre il lavoro nero.

Basta osservare gli ultimi dati a disposizione: nei primi sei mesi del 2014
, i lavoratori in somministrazione occupati in un mese sono stati oltre 282 mila in media, con un aumento dell’8,7 per cento sullo stesso periodo dell’anno precedente.

Le
ore lavorate complessivamente sono oltre 162 milioni, con un incremento dell’8,9 per cento. Nel secondo trimestre, i lavoratori tramite agenzia sono stati 297 mila, contro i 267 mila dello stesso periodo 2013. Numeri in continua crescita. Segno di un dinamismo che non può essere sottovalutato.

venerdì, ottobre 31, 2014

Garanzia Giovani, ecco il sondaggio per capire come sta procedendo davvero il programma Ue contro la disoccupazione giovanile


La testata online Repubblica degli Stagisti e l’associazione Adapt hanno lanciato il “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”, una rilevazione aperta in cui gli iscritti alla Youth Guarantee possono raccontare in forma anonima la propria esperienza. Eleonora Voltolina, la direttrice del portale dedicato al lavoro e ai giovani, ci racconta come è nata l’iniziativa e quali sono i primi riscontri arrivati dai ragazzi

Per capire a che punto siamo con la Garanzia Giovani non bastano né i report del Ministero del Lavoro né le statistiche fornite dalle Regioni. I numeri non sono sufficienti a spiegare i dubbi, le frustrazioni e – perché no – le esperienze positive che gli iscritti al programma stanno vivendo. Senza ascoltare le testimonianze dirette è difficile avere un quadro completo della situazione.

Ecco perché la Repubblica degli Stagisti, testata giornalistica online che si concentra su giovani e lavoro, e Adapt, l’associazione per gli studi e le ricerche sul lavoro fondata da Marco Biagi, hanno lanciato online l’iniziativa del “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”.

Si tratta di un sondaggio in cui i ragazzi che partecipano al programma co-finanziato dall’Ue per combattere la disoccupazione giovanile possono riportare in forma anonima attraverso un questionario la propria esperienza e mettere in risalto i pro e i contro del progetto. I link al monitoraggio si trovano su entrambi i siti: Repubblica degli Stagisti (http://www.repubblicadeglistagisti.it/pages/monitoraggio-informale-garanzia-giovani/ ) e Adapt (http://www.bollettinoadapt.it/monitoraggio-informale-garanzia-giovani/). Abbiamo chiesto a Eleonora Voltolina, direttrice di Repubblica degli Stagisti, di spiegarci l’iniziativa e di raccontarci cosa emerge dalle prime risposte arrivate dagli iscritti.

Voltolina, come è nato il progetto del “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”?
È nato dal fatto che noi, come Repubblica degli Stagisti, e Adapt, con professionalità e punti di vista diversi, siamo due tra i soggetti più attenti a monitorare la Garanzia Giovani. Stiamo seguendo da più di un anno le tappe e gli intoppi dell’iter di questo progetto. Entrambi stavamo svolgendo una ricognizione e abbiamo sentito, quasi contemporaneamente, l’esigenza di unire le forze. L’idea è di andare al di là dei report ministeriali, importanti ma asettici, e di farci raccontare direttamente dai ragazzi come stanno vivendo quest’esperienza.

Che riscontri avete avuto finora?
Siamo partiti giovedì 16 ottobre e in dieci giorni abbiamo ricevuto oltre 600 questionari compilati: un buon risultato per un progetto senza pubblicità. Stiamo costruendo intorno a noi una rete di partnership e facciamo appello a tutte le realtà che hanno un contatto diretto con i giovani: sindacati, associazioni giovanili, università, siti internet con mailing list. Ci diano supporto per mandare il giro il link del sondaggio e farlo conoscere. Il primo ente che ci ha voluto dare una mano è l’Università di Catania: ha parlato del monitoraggio nella newsletter inviata ai suoi laureati. Tra l’altro, è anche un modo per promuovere la Garanzia Giovani: alcuni ragazzi non sanno neanche cosa sia.



Come avete impostato il monitoraggio?
Innanzitutto abbiamo pensato che un sondaggio limitato nel tempo non è uno strumento indicativo. Perciò abbiamo deciso di ricontattare tutti quelli che fanno il sondaggio dopo due mesi e una terza volta dopo altri due mesi, in modo di coprire i quattro mesi che rappresentano il tempo entro il quale il sistema della Garanzia Giovani si impegna a offrire un’opportunità a chi si registra. Alla fine, entro marzo-aprile del prossimo anno potremo delineare un quadro molto dettagliato.


Che tipo di domande contiene il questionario?
Segue un percorso logico. Si parte dalla domanda d’obbligo – chi sei? – in cui ognuno scrive la propria età, il titolo di studio e la condizione lavorativa. Poi chiediamo agli iscritti se stanno cercando attivamente lavoro e se si sentono dei Neet (Not in education, employment or training, le persone che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione, ndr). Quindi, c’è una parte specifica sull’iniziativa. Ci sono domande del tipo: come hai conosciuto la Garanzia Giovani? Quando ti sei iscritto? Quanto tempo è passato dall’iscrizione al momento in cui sei stato contattato? Ti è stato fissato un incontro di persona? Cosa ti è successo quando ti sei presentato al primo colloquio? Cosa ti è stato spiegato al centro per l’impiego? Cosa ti hanno proposto? Infine, c’è anche la domanda aperta: raccontaci a parole tue come è andata.


Quali sono le risposte più frequenti?
La maggior parte dei ragazzi, finora, restano neutrali, anche se non nascondono un po’ di delusione per il fatto che i primi incontri con il personale dei centri per l’impiego sono stati spesso superficiali. Sono in pochi finora a raccontare di essere stati davvero contenti dell’esperienza.


Quali sono gli aspetti più negativi che i ragazzi hanno raccontato finora nei questionari?
Ce ne sono vari. Alcuni raccontano di colloqui di gruppo. In pratica, convocano nello stesso giorno un certo numero di iscritti tutti insieme. A quel punto, l’addetto spiega la parte generale a tutti e poi intrattiene un contatto a tu per tu con i singoli che dura pochissimo: si limita allo scambio di documenti e alla presa in carico del singolo iscritto. Un altro elemento negativo ricorrente è che spesso i ragazzi percepiscono la persone che hanno di fronte come non abbastanza preparate. Ci sono alcuni che dicono agli iscritti: se vuoi saperne di più, vai sul sito. Infine, molti sono preoccupati, ovviamente, della scarsa adesione delle aziende.


Ma ci sono cose che funzionano? I ragazzi raccontano anche aspetti positivi?
In alcune testimonianze non manca chi afferma di apprezzare le situazioni in cui si trovano di fronte un interlocutore preparato che non li illude. In pratica, sono più contenti quando incontrano addetti competenti che non promettono la luna: vogliono verità, non realtà abbellite.

Voltolina, ma lei che impressione ha della Garanzia Giovani? Cosa non sta funzionando bene?
Il primo limite di questa iniziativa è la scarsità di opportunità in tutti i campi, soprattutto quello aziendale. Pare che i fondi non facciano abbastanza gola alle imprese. E c’è il problema che in alcune regioni le agevolazioni si cannibalizzano l’una con l’altra. Ci sono cioè regioni che hanno lanciato progetti per l’occupazione giovanile che prevedono incentivi più convenienti per le aziende. E ovviamente non si tratta di incentivi cumulabili. Alle poche offerte si aggiunge l’inadeguatezza del canale di erogazione, e in particolare dei centri per l’impiego. Tanti ragazzi ci raccontano che quando sono andati al colloquio hanno trovato sistemi bloccati, attese lunghe e personale poco preparata. I centri per l’impiego sono subissati dalla burocrazia, non hanno abbastanza personale, hanno talvolta addetti poco competenti e non riescono a gestire una rete efficace di rapporti con il territorio. Parliamoci chiaro: manca l’infrastruttura umana per gestire questo fiume di persone. Basta pensare che gli iscritti sono più di 250 mila, ma solo 60 mila sono stati presi in carico.

Cosa si potrebbe fare in concreto per migliorare la situazione?
Occorre agire il prima possibile sui due problemi che ho appena focalizzato: la mancanza di offerte e l’inadeguatezza dei canali di erogazione del servizio. Per risolvere, almeno in parte, questo secondo punto si può pensare di dotare queste strutture, per l’anno 2015, di esperti di recruiting assunti a progetto che si concentrino solo su Garanzia Giovani.  Un reclutamento eccezionale, per un anno, per fare in modo che questo miliardo e mezzo di euro a disposizione non vada sprecato.

martedì, ottobre 28, 2014

TFR in busta paga: quali sono gli effetti sulle imprese? Intervista a Tiziana Vettor (Università Milano-Bicocca)



La manovra di stabilità varata dall’esecutivo Renzi prevede la possibilità, per i lavoratori che ne faranno richiesta, di avere nel cedolino mensile i soldi accantonati per la liquidazione. Che incidenza può avere questo intervento – qualora diventasse legge – sulle aziende? Lo abbiamo chiesto a Tiziana Vettor, docente di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano-Bicocca

La legge di stabilità varata dal governo Renzi prevede che i lavoratori dipendenti del settore privato possano chiedere l’anticipo del Tfr in busta paga. A partire dal primo marzo 2015, su richiesta, il denaro destinato a essere accantonato per la liquidazione potrà finire nel cedolino mensile.

A patto che venga effettivamente approvata dal Parlamento, la misura andrebbe ad aumentare il reddito dei lavoratori che richiedessero l’anticipo e garantirebbe un gettito extra per le casse dello Stato in quanto le somme versate sarebbero tassate.

Ma quale sarebbe l’effetto di questo intervento per le imprese? Le aziende con meno di 50 dipendenti, che gestiscono autonomamente il Tfr dei propri lavoratori, andrebbero incontro a problemi di liquidità: le imprese italiane, soprattutto piccole, che dispongono delle risorse per anticipare le quote. Secondo una stima di Unimpresa, con il passaggio del 50% del trattamento di fine rapporto nella busta paga sono a rischio 5,5 miliardi di euro di liquidità delle Pmi.

Per compensare la liquidità in meno, il governo pensa alla creazione di un fondo, in cui sarebbero coinvolte la Cassa depositi e prestiti e le banche, a cui gli imprenditori possono attingere per anticipare le somme ai dipendenti. E il tasso di interesse a cui questo prestito verrebbe erogato dagli istituti di credito alle imprese sarebbe uguale a quello a cui si rivalutano annualmente le quote della liquidazione.

Ma è tutto così lineare? Lo abbiamo chiesto a Tiziana Vettor, professore di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Che effetti può avere sulle imprese l’anticipo in busta paga del Tfr?
L’anticipo del Tfr in busta paga crea un problema di liquidità per le imprese. E questo potrebbe tradursi in un rischio dal punto di vista della loro stabilità finanziaria.

Il fatto di poter fare affidamento su finanziamenti ad hoc del canale bancario risolve il problema di anticipare le somme? I 5,5 miliardi di liquidità che – secondo alcune stime – sarebbero a rischio non verrebbero compensati da questo strumento?
Per rispondere a questa domanda, intanto occorrerà verificare quanti lavoratori, una volta entrata in vigore la legge di stabilità per l’anno 2015, decideranno di usufruire della possibilità dell’anticipo in busta paga del Tfr. A meno di pensarli tutti interessati a realizzare un maggior incremento retributivo, chi lavora potrebbe avere invece interesse a mantenere una retribuzione indiretta a fine rapporto di lavoro quale forma di risparmio. Quanto alle imprese, il fatto di poter contare su finanziamenti ad hoc del canale bancario costituisce, a oggi, una mera enunciazione. Occorrerà vedere che accordi saranno fatti con le rappresentanze degli istituti bancari e capire che disposizioni ci saranno in merito alle risorse a disposizione: i 100 milioni di euro di cui si parla. Quello che sembra probabile è che le imprese potranno accedere a un prestito a condizioni di favore. Ma per quanto “favorito”, sempre di prestito si tratta. In altre parole, se oggi l’impresa poteva gestire una liquidità decidendo in proprio, domani, su questi aspetti, interverrà un soggetto terzo – le banche – secondo modalità e condizioni al momento tutte da definire.

E se le aziende che chiedono i prestiti versassero in condizioni difficili? Il fondo speciale di garanzia che sarebbe istituito presso la Cassa depositi e prestiti e le banche sarebbe sufficiente?
Sarebbe meglio che le risorse della Cdp fossero stanziate per fare quegli investimenti strutturali che potrebbero rendere dinamica la nostra economia. Invece, in via generale, in queste nuove disposizioni sembra di intravvedere un cambio di prospettiva, che mi sembra il vero elemento di novità: se prima si chiedeva, o si auspicava, l’accesso al credito per realizzare investimenti utili alla crescita, oggi la richiesta di liquidità sembra finalizzata soltanto a compensare situazioni di crisi. 

Nella legge sarebbe previsto che le aziende con meno di 50 dipendenti debbano versare all’Inps comunque un “contributo mensile pari allo 0,2% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali nella stessa percentuale della quota maturanda” che viene liquidata ai dipendenti. Cosa significa? Cosa cambierebbe rispetto alla situazione attuale?
Rispetto a prima, sembrerebbe che le imprese debbano versare all’Inps lo 0,2% della retribuzione imponibile nel caso in cui non intendano corrispondere con risorse proprie la quota maturanda del Tfr ma decidano di accedere a un finanziamento. Tale disposizione parrebbe quindi finalizzata a garantire le risorse economiche in caso di finanziamento assistito. Insomma, il datore di lavoro paga una quota a garanzia per l’anticipo del Tfr in busta paga. Salvo modifiche che potranno intervenire nella discussione parlamentare, è, questo, un punto che apre a dei costi, benché motivati dalla necessità del prestito.