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lunedì, giugno 01, 2015

Garanzia Giovani un anno dopo, il bilancio dei primi 12 mesi

Il piano europeo per combattere la disoccupazione giovanile e il fenomeno dei Neet non ha ancora prodotto i risultati sperati: il numero delle registrazioni (circa 600 mila) è ancora distante dalla platea potenziale (2,2 milioni), molti ragazzi non hanno ancora sostenuto il primo colloquio e le offerte di lavoro o tirocinio concrete sono ancora poche. Il ministro Poletti si ritiene comunque soddisfatto per i numeri raggiunti, ma le opinioni degli under 30 raccolte attraverso il monitoraggio informale realizzato da Repubblica degli Stagisti e Adapt non sono sulla stessa lunghezza donda

Garanzia Giovani ha compiuto il suo primo compleanno l’1 maggio. A un anno (e qualche settimana) dal suo esordio, quale bilancio si può trarre del programma finanziato dall’Unione europea per combattere la disoccupazione giovanile e il fenomeno dei Neet?

Al 28 maggio 2015, le registrazioni al programma erano 595 mila (517 mila al netto delle cancellazioni e degli annullamenti da parte dei candidati). Si tratta di una cifra ancora distante da quei 2,2 milioni di ragazzi che, stando a quanto riportato dal governo nel piano di attuazione della Youth Guarantee, ricadono nel bacino dei Neet.

Le prese in carico da parte dei servizi per l’impiego sono circa la metà, 322 mila, e 101 mila sono gli under 30 a cui è stata proposta almeno una misura.


Dal report settimanale pubblicato dal Ministero del Lavoro sappiamo anche che i registrati sono per metà uomini (51%) e per metà donne (49%) e che più della metà dei ragazzi iscritti alla Youth Guarantee appartengono alla fascia d’età 19-24 anni.

Quanto alle opportunità di lavoro, i numeri sono molto meno ampi. Dall’inizio del progetto a oggi sono 56 mila, per un totale di circa 80 mila posti disponibili, di cui risultano attive attualmente 8.801 vacancy (12.147 posti a disposizione).

Dati alla mano, non sembrerebbe finora un successo, soprattutto se si guarda alla sproporzione tra il numero dei registrati e le poche effettive chance lavorative proposte nonostante per le aziende siano previsti bonus occupazionali per le nuove assunzioni e incentivi per l’attivazione di tirocini.

Secondo il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, un anno dopo l’inizio del programma il bilancio non è negativo. “Ci sono ampi margini di miglioramento ma posso ritenermi soddisfatto degli obiettivi raggiunti: avere 550 mila giovani che si sono registrati (il numero al primo maggio 2015, ndr) è un risultato non banale. E il fatto che dopo dodici mesi continuino a registrarsi 10/15 mila giovani al mese è per me una grande soddisfazione”, ha detto.

Tuttavia, a sentire i diretti protagonisti, i punti di vista sono ben diversi. Gli umori dei circa 3 mila ragazzi tra i 15 e i 29 anni che hanno risposto al monitoraggio informale online realizzato, tra l'ottobre 2014 e il marzo 2015, dalla testata giornalistica Repubblicadeglistagisti.it e il centro studi Adapt, non sempre sono positivi. Anzi.

La metà di questo campione (non statisticamente rilevante ma pur sempre rappresentativo delle esperienze e delle opinioni dei ragazzi in merito alla Garanzia Giovani), quando ha compilato il questionario, non era stata contattata per il colloquio da parte dei centri per l’impiego.

Se la risposta delle istituzioni è lenta rischia di generare una doppia frustrazione in quei ragazzi che hanno visto nel programma un motivo di speranza ma verificano sulla loro pelle che non risponde alle loro aspettative.

Tra quelli che hanno effettuato il primo colloquio conoscitivo, solo uno su quattro (il 24%) è stato richiamato per valutare insieme agli operatori dei servizi per l’impiego le proposte concrete a disposizione.

In più, la maggioranza degli under 30 (il 44%) che hanno sostenuto il primo colloquio afferma di aver ricevuto una proposta generica di lavoro o di uno stage futuro mentre il 39% riferisce di non aver ricevuto nessuna proposta concreta.

Se ci si distacca per un attimo dai dati e si passa ad ascoltare le esperienze, emergono alcuni casi poco incoraggianti. Dal ragazzo che racconta che durante il colloquio si è limitato a “inserire i dati del proprio cv allinterno di un computer” alla giovane che afferma che il personale del centro per l’impiego “non ha voluto ascoltare le mie esperienze o chiedermi il campo in cui avrei voluto fare lo stage”.

In base a quanto emerge dai dati e dalle risposte del monitoraggio informale, finora il progetto non ha ancora avuto un coordinamento allaltezza degli obiettivi iniziali. Ogni regione decide autonomamente se affidare le prime fasi del piano a strutture pubbliche o ad agenzie per il lavoro.

Chi è riuscito a ottenere una proposta concreta si è trovato spesso davanti a offerte di stage, con rimborsi di 400 euro mensili, che in alcuni casi non sono stati ancora erogati dall’INPS (l’ente che ha il compito di erogarli) anche dopo la fine del periodo di tirocinio. E, come ha messo in evidenza il programma tv Piazza Pulita, capita di frequente che i ragazzi presi per effettuare stage finiscano a fare mansioni lavorative normali.

Se poi si prende come punto di riferimento la galassia dei Neet, la categoria per cui è stato ideato il piano, allora lesito è ancora meno confortante perché, secondo il monitoraggio Rds-Adapt, solo il 17% di loro si è iscritto al programma.

giovedì, dicembre 04, 2014

Jobs Act e Garanzia Giovani: quali saranno i veri cambiamenti


La riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi convince, ma non del tutto. La Youth Guarantee è un’opportunità ancora da sfruttare. Sono questi i temi di cui si è discusso il 28 novembre a Milano durante il convegno “Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani?”, organizzato da Synergie Italia e Adapt. Tra i relatori Giuseppe Garesio (ad di Synergie Italia), Oscar Giannino ed Emmanuele Massagli (presidente Adapt)

La riforma del mercato del lavoro targata Renzi riuscirà ad avere un impatto positivo sull’occupazione? Il governo e le Regioni saranno capaci di non sprecare l’opportunità della Youth Guarantee? Se ne è discusso il 28 novembre nella sede di Assolombarda a Milano durante il convegno “Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani?”, organizzato da Synergie Italia e Adapt, associazione di studi sul lavoro fondata da Marco Biagi. L’iniziativa faceva parte dei progetti per celebrare i 15 anni di attività di Synergie Italia.

«Il Jobs Act? Luci e ombre», ha commentato Oscar Giannino, giornalista ed ex leader del movimento Fare per fermare il declino. «È il quinto intervento sul mercato del lavoro in cinque anni: così le imprese non ci capiscono nulla. Ma i pregi ci sono, a cominciare dall’abolizione della compresenza tra reintegro e indennizzo in caso di licenziamento economico».

Ma la riforma sarà in grado di risolvere i problemi del mercato del lavoro? Secondo il giornalista, che aveva il compito di moderare il dibattito, molto dipenderà dai decreti attuativi. «Bisognerà capire come verranno tipizzati i licenziamenti disciplinari riguardo al reintegro e cosa si stabilirà sul calcolo degli indennizzi. Inoltre, se l’introduzione del contratto a tutele crescenti è apparentemente molto ragionevole sarà necessario capire come sarà effettuato lo sfoltimento degli altri contratti a termine: i call center, per esempio, già temono che l’abolizione del contratto a progetto potrebbe equivalere per loro alla disoccupazione».

Anche Giannino, poi, si unisce al coro delle critiche – provenute da varie parti, sia politiche che sociali – secondo cui il Jobs Act ha posto poca attenzione all’apprendistato («che invece andrebbe rafforzato») e al lavoro autonomo. «In questo momento – ha concluso – è difficile quindi elaborare l’effetto sull’occupabilità».

Per fare analisi è necessario partire da dati condivisi. Invece, proprio il 28 si è assistito alla “guerra di numeri” tra il Ministero del Lavoro (più di 400 mila nuovi “posti fissi” in base alle comunicazioni obbligatorie relative al lavoro dipendente e parasubordinato nel terzo trimestre del 2014) e l’Istat (disoccupati a quota 3,41 milioni in base alle rilevazioni mensili e trimestrali).

A ridare un senso alle cifre ci ha pensato Emmanuele Massagli, presidente di Adapt. «Osservando le comunicazioni obbligatorie, notiamo che gli avviamenti di rapporti di lavoro sono stati nel terzo trimestre 2,47 milioni, il 2,4% in più rispetto allo stesso periodo 2013», ha detto Massagli. «Allo stesso tempo, le cessazioni sono state 2,41 milioni. La maggior parte dei rapporti di lavoro sono quelli a tempo determinato, visto che il Ministero comunica che sono il 70% circa dei nuovi contratti. Questa prevalenza è anche una conseguenza della riforma Fornero, che aveva irrigidito più o meno tutte le altre forme contrattuali tranne il tempo determinato».

Un elemento rilevante, secondo il presidente Adapt, riguarda l’apprendistato. «Dalle comunicazioni obbligatorie emerge che è cresciuto del 3%: è poco, ma è un dato interessante». Sezionando invece i numeri dell’Istat, Massagli ha evidenziato che il numero dei disoccupati in Italia (3 milioni e 410 mila) è aumentato, così come il tasso di disoccupazione (arrivato a 13,2%). «Ma le statistiche ci dicono anche che la quantità di over 50 al lavoro è aumentato: è un dato in controtendenza, che segnala la voglia di tornare a lavorare».

Per Massagli, alcune delle misure previste dal Jobs Act, come il contratto a tutele crescenti e la decontribuzione, sono in grado di incidere positivamente sul lavoro degli adulti. «Le imprese si trovano così a pagare di meno per avere personale preparato. Ma per i giovani, come ha dimostrato la bassa efficacia degli interventi degli ultimi governi, la decontribuzione non funziona». Una novità del Jobs Act è definire il contratto a tempo indeterminato come la forma “comune” di rapporto di lavoro. «È in grado questo contratto di leggere il mercato del lavoro del futuro? Ho i miei dubbi».

Un’altra incognita è rappresentata dall’abolizione del contratto a progetto. «Attenzione – ha avvertito lo studioso –. Se questa misura non sarà realizzata in modo graduale, centinaia di migliaia di lavoratori rischierebbero di rimanere senza impiego». Infine, una nota sull’introduzione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione. «A parte l’infelice scelta dell’acronimo, mi chiedo: a che serve un’agenzia del genere se poi non si è capaci di far conoscere uno strumento importante come la Garanzia Giovani?».


I più chiamati in causa sono naturalmente i politici. E il parlamentare presente, Stefano Lepri, senatore Pd componente della commissione Lavoro, ha difeso gli intenti della riforma approvata alla Camera (e in via di approvazione al Senato) sottolineando i potenziali punti di forza. «Il contratto unico, assimilando in termini di flessibilità in uscita le imprese sotto i quindici dipendenti con quelle che ne hanno di più, è una misura potente per centinaia di migliaia di imprese: il fatto che ci siano pochissime aziende tra i 15 e i 20 dipendenti è la prova che al momento la legislazione è troppo rigida».

Quanto alle politiche attive per il lavoro, l’auspicio di Lepri è che si arrivi a una situazione in cui le agenzie private si occupano del matching tra domanda e offerta di lavoro mentre i centri per l’impiego supervisionano altre questioni di carattere organizzativo e burocratico.

Un no secco al Jobs Act, eccetto qualche eccezione, arriva da Valentina Aprea, assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro della Regione Lombardia. «È una delega in bianco al governo, a spesa pubblica sostanzialmente invariata, che difficilmente creerà nuova occupazione e che crea carrozzoni pubblici come l’Agenzia nazionale per l’occupazione», tuona l’assessore. «La strada giusta per creare posti di lavoro è la detassazione del lavoro per le imprese».

Come amministratrice, Aprea si concentra sull’applicazione di Garanzia Giovani che in Lombardia, caso raro, sta producendo risultati piuttosto soddisfacenti. «Il governo non ha lavorato bene su questo strumento. Ma è troppo presto per dire che la Youth Guarantee è fallita. Se sta cominciando a funzionare da noi in Lombardia, può succedere anche altrove».

Non si tirano fuori dal dibattito anche le imprese, che per bocca di Alessandro Maggioni, presidente dei Giovani imprenditori Confindustria Monza e Brianza, dicono: «Gli incentivi della Garanzia Giovani e dei bonus occupazionali sono poco chiari: ci abbiamo capito poco. In ogni caso, per quanto le riforme possano costituire un buon terreno per creare più occupazione, i “contadini” che assumono sono gli imprenditori e possono farlo solo se ci sono le condizioni giuste nell’economia. Ecco perché prima ancora del Jobs Act, serve una politica industriale efficace». Il Jobs Act può funzionare, spiega l’imprenditore. Ma è importante che, riguardo alla nuova disciplina dei licenziamenti economici, sia ben chiaro l’indennizzo da corrispondere al lavoratore.

Se il parere dei sindacati è generalmente contrario alla riforma made in Renzi, la Cisl è la voce fuori dal coro. Roberto Benaglia, segretario confederale Cisl Lombardia con delega al mercato del lavoro, fa notare che il suo sindacato non partecipa allo sciopero generale indetto dalla Cgil il 12 dicembre e approva le linee di fondo del Jobs Act. «Riduce il dualismo tra i lavoratori con contratto a tempo indeterminato o che lavorano in imprese con più di 15 dipendenti e chi lavora senza un rapporto a tempo indeterminato e in piccole aziende».

Un elemento determinante, per il sindacalista, è l’attenzione che la riforma del mercato del lavoro pone sulla tutela dei periodi di disoccupazione. «Puntare più risorse sugli ammortizzatori per la disoccupazione è positivo. Fa in modo che la cassa integrazione torni a essere uno strumento per fronteggiare brevi periodi di crisi».

Un soggetto che, in questo contesto, può svolgere un ruolo determinante sono le agenzie per il lavoro. Come ha spiegato Giuseppe Garesio, amministratore delegato di Synergie Italia. «Come Synergie Italia, festeggiamo i 15 anni di attività. Siamo partiti nel 1999, quando la legge Treu ha introdotto, con trent’anni di ritardo rispetto al resto d’Europa, il lavoro interinale. E ora, nel 2014, così come tutte le agenzie per il lavoro, possiamo essere protagonisti di questo cambiamento che il Jobs Act può generare, in quanto siamo una porta di ingresso gratuita per il lavoro permanente: non a caso, moltissimi lavoratori trovano un impiego stabile dopo una missione svolta attraverso un’agenzia per il lavoro. Questo ruolo delle agenzie va riconosciuto. E si può davvero fare in modo che pubblico e privato progettino insieme le politiche attive per il lavoro. Questa riforma ha molti tratti positivi, tra cui il passaggio verso processi “europei” di flexicurity. È una grandissima occasione di voltare pagina e non dobbiamo perderla».

L’incontro è stato chiuso da un’altra voce imprenditoriale: Michele Angelo Verna, direttore generale di Assolombarda. «Il Jobs Act? Sembra una riforma buona. È positivo per esempio che il tempo indeterminato venga definito la forma normale per i rapporti di lavoro. Il testo di legge, inoltre, sottolinea che i contratti devono essere “più convenienti” per le imprese: è un buon segno. Sono previsti sgravi per i primi tre anni: bene, vediamo se diventa una misura strutturale. O ancora, il demansionamento: può essere un’alternativa al licenziamento che prima non era prevista».

Semaforo verde, quindi. Ma purché al momento dei decreti, quando si deciderà concretamente come far funzionare la riforma, il governo non si muova in solitaria. «Il ministro Poletti ha parlato volutamente di “delega alta”. Al momento buono bisognerà discutere e confrontarsi con tutti: imprese, sindacati, esperti e media».

lunedì, novembre 10, 2014

Tiraboschi (Adapt): «Il disallineamento tra domanda e offerta? Crea una situazione in cui le aziende non hanno personale che le aiuti a generare nuovo lavoro»


Lo skill mismatch, ovvero lo squilibrio tra domanda e offerta di lavoro, riguarda tra il 25 e il 45% della forza lavoro in Europa. Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione per gli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi Adapt, spiega perché è un problema anche in Italia e cosa si dovrebbe fare per colmarlo

Lo chiamano skill mismatch. In italiano, disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Si verifica quando un lavoratore è sovra o sotto qualificato rispetto al lavoro che svolge. Stando a una ricerca dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, in Europa tra il 25 e il 45% della forza lavoro ha troppe o troppo poche competenze rispetto a quelle richieste dai datori di lavoro.

Secondo Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione per gli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi Adapt, il disallineamento tra domanda e offerta è una delle cause dell’alta disoccupazione, soprattutto giovanile, in Italia. Gli abbiamo chiesto perché.

Professore, si parla spesso di disallineamento tra domanda e offerta di lavoro: qual è lo scenario in Italia?
Manca un sistema di incontro. Le nostre università costruiscono percorsi non allineati ai fabbisogni del mercato e non in funzione dell’evoluzione delle tecnologie. Così, i giovani, anche se prendono bei voti, non riescono a trovare un’occupazione. Il mercato continua chiedere figure professionali scientifiche e tecniche, mentre il nostro sistema di orientamento, comprese le famiglie, spinge i nostri ragazzi verso i licei e verso i percorsi umanistici come se fossero l’unica strada per realizzarsi.

Lei ha affermato che, in un contesto dove la disoccupazione giovanile è al di sopra del 40%, chi fa percorsi tecnici e professionali il lavoro lo trova. C’è un problema di sovraqualificazione?
Studi internazionali recentissimi evidenziano che in Europa tra il 25 e il 50% della forza lavoro è sovraqualificata, ovvero ha titoli che non corrispondono a ciò che si fa. È appunto l’effetto del mismatch. Se il sistema crea professionisti di cui il mercato non ha bisogno poi è normale che i giovani siano obbligati a fare lavori diversi da quelle che erano le loro aspettative al momento dell’iscrizione all’università.

Ma non sarà che, al di là di tutto, le aziende non assumono perché non c’è abbastanza lavoro e non perché la forza lavoro non è formata adeguatamente?
È vero che le aziende oggi non hanno grandi prospettive di crescita e occupazionali. Ma è un circolo vizioso. Se le imprese potessero avvalersi di forza lavoro adeguata sarebbero più produttive e quindi avrebbero più spazio per assumere. Pensiamo alla Germania: l’occupaizone di giovani continua a crescere perché sono dotati di diversi strumenti che funzionano: alternanza scuola-lavoro, sistema duale, apprendistato. Lì le imprese sono competitive perché collaborano con il sistema scolastico, hanno una forza lavoro professionalizzata e creano sviluppo e lavoro: è un percorso virtuoso. Qui c’è poco spazio per assumere perché le aziende sono poco creative, non dotate di forza lavoro attrezzata per dare loro linfa vitale e creare nuove opportunità.

Realisticamente, come se ne esce?
Noi stiamo discutendo la riforma del lavoro ma stiamo dimenticando la questione dei tirocini, che sono tra gli strumenti più importanti per combattere il disallineamento. Bisogna aumentare le esperienze di tirocinio curriculari. Se sono sganciati da un percorso formativo, diventano contratti di inserimento. Occorre pensare a un’alternanza scuola-lavoro con tirocini più intensi, strutturati, duraturi. E poi, alla fine del percorso di studio-lavoro, puntare sull’apprendistato. Inoltre, per correggere gli errori di sistema, uno strumento utile potrebbe essere la messa a regime di Garanzia Giovani. Insomma, è necessario poter disporre di canali solidi di accompagnamento dalla scuola al mercato del lavoro.

È anche importante l’orientamento?
Orientamento è la parola chiave: è fondamentale aiutare a fare la giusta scelta dopo le scuole superiori. Università o lavoro? Occorre invitare i ragazzi a intraprendere dei percorsi coerenti alle loro attitudini e ai loro ma tenendo conto delle possibilità reali. C’è chi ha davvero la vocazione per discipline non tecniche e va giustamente guidato verso un percorso universitario adeguato. Ma ci sono altri ragazzi che, pur avendo potenzialmente l’inclinazione verso un lavoro manuale, non vengono incoraggiati. Si bloccano perché non c’è nessuno che spiega loro come muoversi.

Perché in Italia non funziona?
Non funziona per vari motivi di tipo organizzativo, legati al modo in cui funzionano le istituzioni pubbliche. Ma è un problema anche di tipo valoriale, culturale. Scontiamo ancora un pregiudizio, da parte delle famiglie e dei giovani, verso il lavoro manuale, tecnico. Mentre è facile vedere che nel Nord Europa a 16 anni si cominciano già percorsi tecnici professionali, man mano che si scende c’è la rincorsa al pezzo di carta. Gli stessi ragazzi che vanno agli ITIS purtroppo qui si considerano di serie B perché è cosi che la società li dipinge.

La riabilitazione dell’immagine dell’artigianato e del lavoro manuale non è ancora riuscita del tutto?
C’è un po’ meno pregiudizio verso questi settori. Se ne parla, ma il genitore continua a sperare per il figlio una carriera universitaria. Lo prova il fatto che gli artigiani e i commercianti cercano forza lavoro che sappiano fare cose manuali ma non la trovano. Se non ci fosse forza lavoro extracomunitaria difficilmente troverebbero personale.

venerdì, ottobre 31, 2014

Garanzia Giovani, ecco il sondaggio per capire come sta procedendo davvero il programma Ue contro la disoccupazione giovanile


La testata online Repubblica degli Stagisti e l’associazione Adapt hanno lanciato il “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”, una rilevazione aperta in cui gli iscritti alla Youth Guarantee possono raccontare in forma anonima la propria esperienza. Eleonora Voltolina, la direttrice del portale dedicato al lavoro e ai giovani, ci racconta come è nata l’iniziativa e quali sono i primi riscontri arrivati dai ragazzi

Per capire a che punto siamo con la Garanzia Giovani non bastano né i report del Ministero del Lavoro né le statistiche fornite dalle Regioni. I numeri non sono sufficienti a spiegare i dubbi, le frustrazioni e – perché no – le esperienze positive che gli iscritti al programma stanno vivendo. Senza ascoltare le testimonianze dirette è difficile avere un quadro completo della situazione.

Ecco perché la Repubblica degli Stagisti, testata giornalistica online che si concentra su giovani e lavoro, e Adapt, l’associazione per gli studi e le ricerche sul lavoro fondata da Marco Biagi, hanno lanciato online l’iniziativa del “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”.

Si tratta di un sondaggio in cui i ragazzi che partecipano al programma co-finanziato dall’Ue per combattere la disoccupazione giovanile possono riportare in forma anonima attraverso un questionario la propria esperienza e mettere in risalto i pro e i contro del progetto. I link al monitoraggio si trovano su entrambi i siti: Repubblica degli Stagisti (http://www.repubblicadeglistagisti.it/pages/monitoraggio-informale-garanzia-giovani/ ) e Adapt (http://www.bollettinoadapt.it/monitoraggio-informale-garanzia-giovani/). Abbiamo chiesto a Eleonora Voltolina, direttrice di Repubblica degli Stagisti, di spiegarci l’iniziativa e di raccontarci cosa emerge dalle prime risposte arrivate dagli iscritti.

Voltolina, come è nato il progetto del “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”?
È nato dal fatto che noi, come Repubblica degli Stagisti, e Adapt, con professionalità e punti di vista diversi, siamo due tra i soggetti più attenti a monitorare la Garanzia Giovani. Stiamo seguendo da più di un anno le tappe e gli intoppi dell’iter di questo progetto. Entrambi stavamo svolgendo una ricognizione e abbiamo sentito, quasi contemporaneamente, l’esigenza di unire le forze. L’idea è di andare al di là dei report ministeriali, importanti ma asettici, e di farci raccontare direttamente dai ragazzi come stanno vivendo quest’esperienza.

Che riscontri avete avuto finora?
Siamo partiti giovedì 16 ottobre e in dieci giorni abbiamo ricevuto oltre 600 questionari compilati: un buon risultato per un progetto senza pubblicità. Stiamo costruendo intorno a noi una rete di partnership e facciamo appello a tutte le realtà che hanno un contatto diretto con i giovani: sindacati, associazioni giovanili, università, siti internet con mailing list. Ci diano supporto per mandare il giro il link del sondaggio e farlo conoscere. Il primo ente che ci ha voluto dare una mano è l’Università di Catania: ha parlato del monitoraggio nella newsletter inviata ai suoi laureati. Tra l’altro, è anche un modo per promuovere la Garanzia Giovani: alcuni ragazzi non sanno neanche cosa sia.



Come avete impostato il monitoraggio?
Innanzitutto abbiamo pensato che un sondaggio limitato nel tempo non è uno strumento indicativo. Perciò abbiamo deciso di ricontattare tutti quelli che fanno il sondaggio dopo due mesi e una terza volta dopo altri due mesi, in modo di coprire i quattro mesi che rappresentano il tempo entro il quale il sistema della Garanzia Giovani si impegna a offrire un’opportunità a chi si registra. Alla fine, entro marzo-aprile del prossimo anno potremo delineare un quadro molto dettagliato.


Che tipo di domande contiene il questionario?
Segue un percorso logico. Si parte dalla domanda d’obbligo – chi sei? – in cui ognuno scrive la propria età, il titolo di studio e la condizione lavorativa. Poi chiediamo agli iscritti se stanno cercando attivamente lavoro e se si sentono dei Neet (Not in education, employment or training, le persone che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione, ndr). Quindi, c’è una parte specifica sull’iniziativa. Ci sono domande del tipo: come hai conosciuto la Garanzia Giovani? Quando ti sei iscritto? Quanto tempo è passato dall’iscrizione al momento in cui sei stato contattato? Ti è stato fissato un incontro di persona? Cosa ti è successo quando ti sei presentato al primo colloquio? Cosa ti è stato spiegato al centro per l’impiego? Cosa ti hanno proposto? Infine, c’è anche la domanda aperta: raccontaci a parole tue come è andata.


Quali sono le risposte più frequenti?
La maggior parte dei ragazzi, finora, restano neutrali, anche se non nascondono un po’ di delusione per il fatto che i primi incontri con il personale dei centri per l’impiego sono stati spesso superficiali. Sono in pochi finora a raccontare di essere stati davvero contenti dell’esperienza.


Quali sono gli aspetti più negativi che i ragazzi hanno raccontato finora nei questionari?
Ce ne sono vari. Alcuni raccontano di colloqui di gruppo. In pratica, convocano nello stesso giorno un certo numero di iscritti tutti insieme. A quel punto, l’addetto spiega la parte generale a tutti e poi intrattiene un contatto a tu per tu con i singoli che dura pochissimo: si limita allo scambio di documenti e alla presa in carico del singolo iscritto. Un altro elemento negativo ricorrente è che spesso i ragazzi percepiscono la persone che hanno di fronte come non abbastanza preparate. Ci sono alcuni che dicono agli iscritti: se vuoi saperne di più, vai sul sito. Infine, molti sono preoccupati, ovviamente, della scarsa adesione delle aziende.


Ma ci sono cose che funzionano? I ragazzi raccontano anche aspetti positivi?
In alcune testimonianze non manca chi afferma di apprezzare le situazioni in cui si trovano di fronte un interlocutore preparato che non li illude. In pratica, sono più contenti quando incontrano addetti competenti che non promettono la luna: vogliono verità, non realtà abbellite.

Voltolina, ma lei che impressione ha della Garanzia Giovani? Cosa non sta funzionando bene?
Il primo limite di questa iniziativa è la scarsità di opportunità in tutti i campi, soprattutto quello aziendale. Pare che i fondi non facciano abbastanza gola alle imprese. E c’è il problema che in alcune regioni le agevolazioni si cannibalizzano l’una con l’altra. Ci sono cioè regioni che hanno lanciato progetti per l’occupazione giovanile che prevedono incentivi più convenienti per le aziende. E ovviamente non si tratta di incentivi cumulabili. Alle poche offerte si aggiunge l’inadeguatezza del canale di erogazione, e in particolare dei centri per l’impiego. Tanti ragazzi ci raccontano che quando sono andati al colloquio hanno trovato sistemi bloccati, attese lunghe e personale poco preparata. I centri per l’impiego sono subissati dalla burocrazia, non hanno abbastanza personale, hanno talvolta addetti poco competenti e non riescono a gestire una rete efficace di rapporti con il territorio. Parliamoci chiaro: manca l’infrastruttura umana per gestire questo fiume di persone. Basta pensare che gli iscritti sono più di 250 mila, ma solo 60 mila sono stati presi in carico.

Cosa si potrebbe fare in concreto per migliorare la situazione?
Occorre agire il prima possibile sui due problemi che ho appena focalizzato: la mancanza di offerte e l’inadeguatezza dei canali di erogazione del servizio. Per risolvere, almeno in parte, questo secondo punto si può pensare di dotare queste strutture, per l’anno 2015, di esperti di recruiting assunti a progetto che si concentrino solo su Garanzia Giovani.  Un reclutamento eccezionale, per un anno, per fare in modo che questo miliardo e mezzo di euro a disposizione non vada sprecato.

giovedì, ottobre 09, 2014

Massagli (Adapt) «La concertazione? Renzi l’ha archiviata definitivamente. Non vuole che i sindacati facciano politica»


Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione degli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi, commenta la scelta del premier di aprire un confronto con le organizzazioni sindacali prima del voto al Senato sul Jobs Act. «Ascoltare per un’ora i sindacati non significa riaprire l’era della concertazione ma semplicemente fare un atto di garbo istituzionale. Il presidente del Consiglio non ha interesse nei sindacati e fa in modo di relegarli alla loro funzione primaria: occuparsi delle questioni di lavoro tra aziende e lavoratori come la contrattazione di secondo livello, su cui il governo punta molto»

Tra Matteo Renzi e i sindacati la scintilla non è mai scoccata. Fin dai primi giorni a Palazzo Chigi, il premier non ha risparmiato frecciate alle organizzazioni sindacali. Le ha accusate di non essere in contatto con la realtà e – peggio ancora – di aver contribuito a creare un vero e proprio apartheid tra lavoratori tutelati e precari. Eppure, il giorno prima della fiducia in Senato sul Jobs Act, il disegno di legge delega che riforma il mercato del lavoro, il presidente del Consiglio ha convocato i sindacati per  un confronto.

Un gesto che equivale a reintrodurre la concertazione all’interno dello scenario politico? Secondo Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione per gli studi sul lavoro Adapt, non è così: l’epoca dei sindacati che fanno politica è finita. Il gesto del capo del governo sarebbe più che altro dovuto all’eleganza istituzionale e alla voglia di mettere tra le priorità il tema della contrattazione di secondo livello.

Il giorno prima della fiducia sul Jobs Act, Renzi ha riaperto la Sala Verde di Palazzo Chigi convocando i sindacati a discutere della riforma del mercato del lavoro. È ripartita la concertazione?
No, non è ripartita. Ed è molto probabile che la concertazione così come l’abbiamo conosciuta, ovvero quel concetto diffuso negli anni ’80 e ’90 in base al quale i sindacati sono legittimati a fare politica, sia definitivamente superato e archiviato. Il premier ha incontrato i sindacati per un’ora e le aziende per meno di un’ora: il tempo era poco. Più che un momento di confronto, è stato un momento informativo doveroso vista la portata degli interventi in approvazione sul lavoro. Ritengo che sia stato un passaggio voluto anche per eleganza istituzionale. E tra l’altro non mi sembra che le parti sociali al momento siano in grado di condizionare l’attività del governo.

Sembra però che nel testo in esame al Parlamento, alcuni temi spinosi come il superamento dell’articolo 18 e la riforma della disciplina dei licenziamenti siano stati “rinviati” ai decreti attuativi. Non sarà che qualche effetto l’incontro con Cgil, Cisl e Uil l’ha avuto?

Su questo tema c’è stata probabilmente confusione. È stato detto che nel maxiemendamento del governo non si parla di licenziamenti. Ma nella delega, di fatto, si fa riferimento all’introduzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e già in principio non era previsto esplicitamente il superamento dell’articolo 18. Le norme sui licenziamenti, nel dettaglio, saranno stabilite con i decreti attuativi. 

Qual è la sua previsione riguardo ai futuri rapporti tra il governo e le organizzazioni sindacali: come si evolveranno?
Francamente credo che il rapporto rimarrà scarso, se non nullo, anche nei prossimi mesi e durante la redazione dei decreti attuativi che concretizzeranno il Jobs Act. Matteo Renzi non ha interesse nei sindacati, non crede al loro impatto, non teme la piazza. Al massimo, teme la sua minoranza in Parlamento. Se non altro perché vota e il Jobs Act deve necessariamente essere approvato nelle due Camere.

Tra i temi all’ordine del giorno c’è stato anche “l’ampliamento della contrattazione decentrata e aziendale”. Perché tanta attenzione sul tema? Quanto è vantaggioso, per le imprese e i lavoratori, potenziare la contrattazione di secondo livello?
Come Adapt abbiamo un’osservatorio sulla contrattazione di secondo livello. A marzo pubblicheremo primo rapporto, in cui intendiamo dimostrare, contratti alla mano, che in Italia di contrattazione aziendale se ne fa già tanta di buona qualità e che è uno strumento che permette di affrontare meglio la crisi. Le aziende che hanno attivato una contrattazione di secondo livello reale sono più capaci di fronteggiare la recessione senza ledere i diritti di nessuno e con modalità intelligenti.

Come si spiega il sostegno che Renzi continua a dare al tema?
Probabilmente deriva dall’intenzione di “relegare” il sindacato nel suo ambito originario: la gestione deille questioni di lavoro. Partendo dalla concezione per cui è tanto più facile rispondere ai bisogni quanto più si è vicini ai bisogni, Renzi non sopporta politicamente che il sindacato parli per tutti e voglia dire la sua sulla politica economica a livello nazionale. L’idea di sostenere il livello aziendale è coerente con questa sua logica. E allo stesso modo lo è il sostegno a una legge sulla rappresentanza e al salario minimo: contribuisce a spostare il sindacato verso una dimensione tecnica, subordinata alla politica, in cui queste organizzazioni diventano fondamentali soltanto per interagire con le aziende e per affrontare le questioni lavorative che si pongono di volta in volta.