di Diego Castagno
I
giovani in Italia? Sono un po’ bamboccioni, o meglio sono “Choosy”. Elsa
Fornero, la lady di ferro della riforma delle pensioni in Italia, liquidava
senza troppi indugi e senza troppi giri di parole il problema dell'occupazione
giovanile e dei NEET, ovvero di quei giovani che non studiano e non lavorano.
Choosy, nel senso che, a fronte di un mercato del lavoro sempre alla ricerca di
risorse, molti "giovani" non accettavano i lavori offerti, preferendo
restare senza fare nulla. Ovviamente la polemica mediatica e politica fu
feroce, ma almeno mise in luce in maniera “ufficiale” e definitivo un problema
che in pochi allora riuscivano a focalizzare nel nostro paese, vale a dire
l’imbarazzante tasso di disoccupazione giovanile, e la questione NEET. Che non
riguarda solo le giovani generazioni, e le cui cause sono per lo più dovute
alla carenza di politiche strutturali ed efficaci nel medio periodo.
Un
recente rapporto dell'ILO, il report sul Global Employment Trend For
Youth 2015, mette in luce come i giovani high-qualified non accettino
volentieri lavori “dequalificanti”. E racconta di come in molti paesi del mondo
la sfida dell'occupazione giovanile sia stata affrontata con l'ottica
sbagliata. Non sono state infatti attuate politiche che tenessero conto del sistema
del mercato del lavoro nel suo complesso, ma solamente interventi puntuali,
limitati nel tempo e con obiettivi circoscritti, spesso non coordinati fra
loro. Tra gli effetti di questa incapacità di ragionare in termini complessivi
negli anni è aumentata la lontananza fra le competenze acquisite nel
periodo dell'istruzione e quelle richieste effettivamente nell'ambito
lavorativo.
Tra
le possibili soluzioni, il rapporto dell’ILO ne suggerisce alcune che sembrano
fatte apposta per il nostro paese. Innanzitutto servirebbe un maggiore
coordinamento fra i vari livelli istituzionali, quello nazionale, regionale e
globale, in modo da adottare politiche comuni, o almeno compatibili fra loro.
Sarebbe inoltre necessario sostenere con risorse adeguate le politiche attive
per il lavoro, con programmazioni a medio termine, senza limitarsi alle
politiche passive di contrasto alla disoccupazione da espulsione del mercato
del lavoro.
Inoltre
dovrebbe essere facilitato l'inserimento dei giovani nelle aziende tramite sgravi
fiscali, azione parzialmente operata in Italia grazie al JobAct, con esiti non
sempre e non dovunque positivi. Secondo l’ILO, occorre facilitare la
transizione scuola-lavoro per le fasce più svantaggiate della popolazione, ma
allo stesso tempo bisogna tutelare anche i profili più alti, offrendo loro
opportunità lavorative di qualità. Le politiche attive per il lavoro vanno
inserite in un quadro di welfare che preveda le garanzie sociali, economiche e
legali, per non polarizzare ulteriormente un mercato del lavoro già fortemente
“segmentato” tra garantiti, ipergarantiti e non garantiti affatto. Insomma,
volendo sintetizzare, i giovani non sono un problema, ma una risorsa, la cui
valorizzazione passa attraverso un lavoro che consenta una partecipazione attiva
alla società in cui sono inseriti. La disoccupazione giovanile e il mismatch
sono due aspetti della stesso “problema”, ovvero la difficoltà di immaginare e
sostenere modelli e politiche ambiziose di sviluppo di ampia portata.