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martedì, febbraio 10, 2015

Lo stress sul lavoro aumenta: la precarietà è la prima causa di tensione per gli italiani



Un’indagine condotta da Regus su 22 mila manager e professionisti in oltre 100 Paesi del mondo ha evidenziato che per più della metà dei lavoratori (oltre il 53%) il livello di stress sul lavoro sia aumentato rispetto a cinque anni fa. Per gli italiani, i motivi sono soprattutto l’instabilità del posto di lavoro, le tecnologie obsolete con cui si lavora, la carenza di collaboratori e la scarsa flessibilità. La maggior parte degli intervistati ritiene che le varie forme di smart working possano contribuire ad attenuare lo stress
Sto lontano dallo stress. Anzi no. I lavoratori sono sempre più stressati. Lo conferma una ricerca condotta da Regus, l’azienda fornitrice di spazi di lavoro flessibili, su un campione di 22 mila manager e professionisti in più di 100 Paesi.

Più della metà degli intervistati a livello globale (oltre il 53%) ritiene che il livello di stress sia aumentato significativamente rispetto a cinque anni fa.

Per gli italiani, a generare stress sono soprattutto l’instabilità del posto di lavoro (30% contro il 15% della media globale), le tecnologie obsolete con cui si lavora (30%), la carenza di personale e collaboratori (27%) e la bassa flessibilità degli orari e dei luoghi di lavoro (15%).

Oltre alle condizioni lavorative e al continuo senso di precarietà, ciò che sembra creare più logorio è il ritardo in termini di innovazione. Lavorare con le stesse modalità routinarie del passato (scrivania fissa, orario fisso, scarso ricorso al telelavoro e alle forme di smart working) non piace ed è un elemento che incrina l’equilibrio tra vita privata e attività lavorativa.

Non a caso, tre quarti degli intervistati (media globale 74%, dato Italia 73%) sono convinti che cambiare lo scenario di lavoro, come ad esempio lavorare in un ambiente diverso da quello solito, possa essere un elemento che attenua lo stress.

Sei italiani su dieci (61%, contro la media globale del 59%) ritengono inoltre che svolgere il proprio lavoro con più flessibilità permetta di arrivare a un work life balance migliore e più soddisfacente.

Infatti, le esperienze di chi lavora già in modo flessibile, come chi opera in part time, lo confermano: il 61% (58% a livello globale) si dice più soddisfatto e meno stressato e anche il 43% (55% media globale) dei lavoratori autonomi e i free lance, grazie alla libertà di gestire il tempo in autonomia, ritiene di godere di un buon equilibrio tra attività lavorativa e tempo libero.

Ma non ci sono solo la scarsa flessibilità e le preoccupazioni relative al futuro a creare tensioni. A livello globale la prima causa di stress è infatti la mancanza di esercizio fisico e di cibi salutari (21%). I nostri connazionali invece indicano questa come la quarta causa di stress, nonostante la percentuale di risposte sia più alta rispetto alla media internazionale: 26%.

"Mentre si registra un aumento dello stress sul posto di lavoro - ha commentato il country manager di Regus per l’Italia, Mauro Mordini -, il mondo del lavoro concorda sul fatto che poter svolgere la propria attività in modo agile e flessibile possa rappresentare una soluzione per migliorare la qualità della vita".

venerdì, gennaio 16, 2015

Disoccupazione giovanile al 43,9%, mai così alta. Più di un giovane su dieci è senza lavoro



Gli ultimi dati provvisori Istat restituiscono un quadro sempre più allarmante per quanto riguarda la situazione dell’occupazione in Italia. A novembre 2014, il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni è arrivato al 43,9%, il livello più elevato da quando esistono le serie storiche (1997). Il tasso di disoccupazione generale ha raggiunto il 13,4%: i senza lavoro sono 3 milioni e 457 mila. Cala il numero di occupati (22 milioni e 310 mila, - 48 mila rispetto al mese precedente) e il tasso di occupazione, pari al 55,5%.
Sale, sale, sale. E sembra che non ci sia nulla in grado di fermarlo. Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è aumentato ancora. A novembre 2014 ha raggiunto il 43,9%, 0,6 punti percentuali in più rispetto al mese precedente e 2,4 punti in più rispetto al novembre 2013.  A rilevarlo è l’Istat nelle stime provvisorie. Si tratta della percentuale di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni più alta dall’inizio delle serie storiche, cioè dal 1977, e da quello delle serie mensili (2004).
È un contesto in cui anche la disoccupazione generale fa registrare dati allarmanti. Il numero di disoccupati è pari a 3 milioni e 457 mila, l'1,2% rispetto al mese precedente (40 mila unità in più) e l’8,3% in più rispetto al novembre 2013 (264 mila in più). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,4% (+0,2% rispetto a ottobre e +0,9% su base annua).

In questo quadro, gli under 25 che non riescono a trovare lavoro sono 729 mila, con un’incidenza del 12,2% rispetto alla loro fascia d’età, in lieve aumento rispetto al mese precedente (+0,3%) e in crescita di 1,1 punti percentuali sui dodici mesi.

Un giovane su dieci è disoccupato, quindi. Come precisa l’Istat, il tasso di disoccupazione giovanile è calcolato come la quota di giovani senza lavoro sul totale di chi lavora o è in cerca (gli attivi). Non è corretto pertanto dire, come spesso accade, che due under 25 su cinque sono disoccupati.
Il numero di giovani inattivi è pari a 4 milioni 304 mila, in calo dello 0,5% rispetto al mese precedente (-22 mila) e del 2,1% nei dodici mesi (-93 mila). Il tasso di inattività della fascia 15-24 anni è pari al 72,1%, diminuisce di 0,3 punti percentuali nell’ultimo mese e di 1,1 punti rispetto al 2013.

Se invece si fa riferimento agli inattivi tra i 15 e i 64 anni, il numero cala dello 0,1 rispetto a ottobre e del 2,2% rispetto a dodici mesi prima. Il tasso di inattività, pari al 35,7%, rimane invariato rispetto al mese precedente e scende di 0,7 punti su base annua.
La situazione non è serena neanche per quanto riguarda il tasso di occupazione, che è pari al 55,5%, scende di 0,1% rispetto al mese precedente e resta invariato rispetto a dodici mesi prima. A novembre gli occupati erano 22 milioni 310 mila, 48 mila in meno rispetto a ottobre (-0,2%) e 42 mila rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-0,2%).

Le cifre diventano sempre più marcate. Così nette che a volte rischiano di non fare neanche effetto su chi le osserva. Di mese in mese, salvo alcune eccezioni, il quadro peggiora anziché migliorare. A volte, per trovare delle statistiche incoraggianti, è necessario forzare la lettura dei numeri mettendo in evidenza solo i dati positivi. In questo caso, nessun gioco di prestigio. Nessuna illusione ottica. La situazione del lavoro in Italia sembra la più cupa degli ultimi anni.

lunedì, dicembre 01, 2014

Stage: cosa cambia in Europa tra un Paese e l’altro


Un rapporto curato dalla Commissione europea mette a confronto il quadro normativo su stage e tirocini (e, in alcuni casi, apprendistati) nei Paesi membri dell’Unione. I tratti comuni sono molti, a cominciare dal fatto che il numero di stage attivati cresce di continuo e che ci sono almeno cinque tipologie ricorrenti. Altri aspetti piuttosto uniformi sono il basso (o nullo) compenso riservato ai tirocinanti e le degenerazioni presenti in alcuni settori come le agenzie creative e i media. Ma al di là degli elementi negativi c’è ovunque la consapevolezza che si tratti di uno strumento prezioso per avvicinare scuola e lavoro

Stage, tirocini, internship. Come sono in Europa? Cosa cambia tra uno Stato e l’altro? Una possibile risposta a queste domande la fornisce una ricerca della Commissione europea  condotta in tutti i Paesi membri (manca solo la Croazia, ultima arrivata, ma lo studio risale a due anni fa).

L’indagine è stata realizzata dal centro di ricerca britannico Ies, dall’italiano Irs (Istituto per la ricerca sociale) e dal tedesco Bibb e mette a confronto gli ordinamenti sui tirocini dei 27 Stati Ue, dedicando a ciascuno di essi uno specifico approfondimento.

Dalla sintesi iniziale è possibile capire quali siano i trend comuni in Europa riguardo al tema stage, a cominciare dal fatto che l’informazione relativa all’argomento non è omogenea in tutti i Paesi: le fonti, quindi, sono di vario tipo.

Lo studio parte con il catalogare le varie forme di stage reperibili nel Vecchio Continente. Ne individua cinque: stage curriculari, ovvero legati al percorso formativo, universitario e non; tirocini post-laurea finalizzati all’ingresso nel mondo del lavoro; percorsi inseriti all’interno di programmi di politiche attive per il lavoro; quelli necessari per ottenere una qualifica; internship offerti da vari programmi internazionali, tra cui il Leonardo.
Alcuni aspetti valgono in tutti i Paesi membri. Il primo è proprio la proliferazione dei tirocini, a cui è seguita una serie di azioni per disciplinarli, orientarli e dotarli di regole più ferree.  Un altro elemento comune riguarda il compenso, spesso scarso o addirittura assente, per questa tipologia di formazione/lavoro.

Quando ci sono, i fondi a disposizione per finanziare queste forme di accesso al lavoro derivano quasi sempre da fondi europei, nazionali e regionali, borse di studio universitarie, bandi pubblici oppure iniziative di privati e aziende. Altrimenti, il tirocinante è costretto ad autofinanziarsi l’esperienza di stage

Grosse differenze si riscontrano riguardo alle definizioni di stage e di tirocinante. Nella maggior parte degli Stati membri c’è persino una definizione legale e di solito mette in relazione strettissima la formazione e il lavoro. Sintetizzando viene definito come un’esperienza che ha fini educativi/formativi, è legata all’apprendere un mestiere, una professione o una competenza e ha carattere temporaneo.

Così come non esiste una definizione omogenea e condivisa, non si può individuare neanche una normativa comune. E la discrepanza non è solo tra Stati ma anche tra varie forme di stage. Quelle più legate alla formazione o alle politiche attive per il lavoro tendono a essere le tipologie con il quadro normativo più solido. Mentre gli stage attivati liberamente sul mercato sono di solito meno regolati. Le norme relative agli stage si trovano in leggi e regolamenti che afferiscono tanto alla legislazione sul lavoro che a quella sull’istruzione.

Va notato – si sottolinea nell’indagine – che la presenza di leggi e regole non è una garanzia di qualità dello stage. È necessaria una corretta applicazione delle norme e un attento monitoraggio dell’intero processo. Anche se – precisa il rapporto – un dato positivo è costituito dal fatto che nelle varie normative nazionali tendano a essere approvate leggi che migliorano le condizioni degli stagisti.

 I settori in cui è più facile che vengano attivati degli stage sono: quelli in cui è necessario un periodo di tirocinio (o di apprendistato, a seconda dei casi) per accedere alla professione (medicina, legge, insegnamento, architettura), i media, il giornalismo, le agenzie creative, il settore pubblico, il terzo settore, l’ospitalità e i servizi finanziari.

In alcuni di questi comparti – soprattutto agenzie creative, media e giornalismo – gli stage sono generalmente associati a: bassi contenuti di apprendimento, condizioni di lavoro insoddisfacenti, rimborsi/compensi inadeguati, contratti di stage rinnovati di continuo senza un’offerta di lavoro permanente. Inoltre, in questi contesti, non è raro vedere stagisti che vengono “assunti” al posto del personale regolare.

Ma al di là degli elementi negativi e delle distorsioni, c’è una consapevolezza comune, in Europa, secondo cui stage, tirocini (e apprendistati, laddove queste forme vanno a coincidere) sono uno strumento importante per facilitare la transizione dalla scuola al mondo del lavoro.