mercoledì, novembre 26, 2014
5 o 12 dicembre? Il caos scioperi, le mobilitazioni incrociate e la questione del “ponte”
La decisione della Cgil di convocare lo sciopero generale il 5 dicembre ha suscitato molte polemiche. «Il giorno è stato scelto per approfittare del ponte dell’Immacolata», è stata la critica più diffusa. In più, l’Autorità garante per gli scioperi ha definito «parzialmente illegittima» la mobilitazione in quella data. Anche per questi motivi, lo sciopero generale è stato rinviato al 12 dicembre. Ma anche in questo caso, ci sarebbero problemi e sovrapposizioni con altre manifestazioni
Di questo passo potrebbero chiamarlo Scioperogate. È tutta la bagarre di critiche che si è scatenata intorno alla decisione della Cgil – già abbandonata – di convocare per il 5 dicembre lo sciopero generale contro il Jobs Act e il governo Renzi.
La mobilitazione, che ora è stata fissata per il 12 dicembre, aveva scatenato polemiche da più parti per la scelta, giudicata infelice, del giorno. La prima data individuata – il 5 dicembre – poteva infatti dare ai lavoratori quattro giorni di astensione dal lavoro.
Infatti, come sintetizzato su Twitter dal responsabile innovazione e pubblica amministrazione del Partito democratico, Ernesto Carbone: «Il 5 dicembre è un venerdì poi sabato, domenica e lunedì 8 dicembre che è festivo… Il ponte è servito #Coincidence». L’accusa, neanche tanto velata, è di aver fatto cadere inizialmente la scelta sul 5 per approfittare del ponte dell’Immacolata.
La risposta della Cgil, sempre sul sito di microblogging, è stata piccata: «I lavoratori quando scioperano perdono una giornata di paga». E ancora: «Lavoratori, pensionati, disoccupati, precari sono in forti difficoltà economiche e di prospettive. Per questo scioperano», ha scritto il sindacato.
La confusione si è creata anche perché interrompere servizi e trasporti proprio prima di un periodo così lungo avrebbe potuto causare disagi prolungati. Non a caso, la scelta del sindacato guidato da Susanna Camusso è stata criticata anche dall’Autorità garante degli scioperi, secondo la quale la manifestazione sarebbe stata «parzialmente illegittima» in base alle leggi che regolano gli scioperi e le interruzioni dei servizi pubblici. Almeno l’intero settore ferroviario e il trasporto pubblico locale – aveva specificato il garante degli scioperi – avrebbero dovuto garantire il servizio.
Così, lo sciopero generale è stato convocato appunto per il 12 dicembre e ad esso ha aderito anche la Uil. Ma anche in questo caso, secondo quanto riferito da Huffington Post, l’Autorità degli scioperi avrebbe parlato di «parziale irregolarità», perché per il 13 e il 14 dicembre è stato già indetto uno sciopero dei trasporti ferroviari dal sindacato CAT (Coordinamento Autorganizzato Trasporti).
Non si possono, per legge, fare scioperi nello stesso settore a un intervallo inferiore ai dieci giorni: in questo caso, potrebbe quindi trattarsi di una violazione, alla quale potrebbero seguire delle sanzioni irrogate dallo stesso garante degli scioperi. Una piccola baraonda, insomma. Che è resa ancora più agitata dal fatto che l’Ugl, il sindacato ritenuto “di destra”, aveva già fissato uno sciopero generale per la fatidica data del 5 dicembre e ha dovuto anch’esso rinviare al 12.
E allo stesso tempo, la Cisl, pur non partecipando allo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 12 ha fatto sapere che i lavoratori pubblici della sua confederazione incroceranno le braccia l’1 dicembre e a questo sciopero generale del settore pubblico ha aderito anche la Uil. Se partecipasse anche la Cgil, farebbe due scioperi generali, uno del pubblico e uno di tutti i settori, a distanza di un paio di settimane. Più che un autunno caldo sembra un autunno, anzi un inverno, piuttosto caotico.
mercoledì, novembre 19, 2014
Jobs Act, ok al controllo a distanza: e la privacy del lavoratore?
La riforma del mercato del lavoro introduce una norma che ammorbidisce il divieto di controllare i lavoratori a distanza e permette di sorvegliare con telecamere e altre apparecchiature quanto avviene ai macchinari e nei reparti, senza riprendere direttamente il singolo dipendente. Considerate le evoluzioni tecnologiche, non è comunque un rischio per la riservatezza di chi lavora?
Il divieto di sorvegliare a distanza una persona che lavora
era sancito già nello Statuto dei lavoratori (legge 300 del 1970). L’articolo è
il 4: «È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per
finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». L’unica
eccezione prevista riguardava gli impianti «richiesti da esigenze organizzative
e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la
possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». L’azienda
poteva sì installarli ma soltanto dopo aver stretto un accordo con le
rappresentanze sindacali.
In altre parole, la privacy del lavoratore sul posto di lavoro è sacra. E per quanto possa avanzare la tecnologia, non ci deve essere strumento che vada a indagare, in assenza di un supervisore, l’operato di un dipendente. Ma quello che fino a ieri sembrava un principio intoccabile, oggi è messo in discussione al pari degli altri tabù in materia di lavoro, come l’articolo 18, infranti dagli ultimi esecutivi.
Il governo Renzi, nell’ambito del Jobs Act, intende infatti introdurre dei meccanismi utili a verificare l’operatività e la produttività in azienda dei dipendenti. Per questo, ha in programma di rivedere la disciplina dei controlli a distanza dei lavoratori attraverso strumenti telematici, telecamere e altre apparecchiature.
Il testo iniziale, approvato in Senato il 9 ottobre, conteneva una non meglio specificata «revisione della disciplina dei controlli a distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore».
Per maggiore chiarezza, l’ala del Partito democratico più critica sul Jobs Act ha richiesto di specificare nel prossimo testo che i controlli, in assenza di un accordo sindacale, non possono riguardare i singoli lavoratori ma solo i reparti, gli impianti e i macchinari.
Anche con una formulazione del genere, alcuni dubbi però restano. Un’apparecchiatura audiovisiva in grado di controllare un macchinario non è altrettanto capace di supervisionare, indirettamente, l’attività del dipendente che con quel macchinario ci lavora? La privacy di chi lavora non rischierebbe di essere comunque compromessa?
La disposizione, inoltre, fa riferimento ai reparti. Si potrebbe quindi ipotizzare la presenza di telecamere che riprendono dall’alto l’attività di un’area produttiva. Per quanto l’impianto di videoregistrazione sia posizionato in alto e a distanza dal singolo lavoratore, non è possibile che sia in grado comunque di filmare tutto ciò che un dipendente fa sul posto di lavoro?
In altre parole, la privacy del lavoratore sul posto di lavoro è sacra. E per quanto possa avanzare la tecnologia, non ci deve essere strumento che vada a indagare, in assenza di un supervisore, l’operato di un dipendente. Ma quello che fino a ieri sembrava un principio intoccabile, oggi è messo in discussione al pari degli altri tabù in materia di lavoro, come l’articolo 18, infranti dagli ultimi esecutivi.
Il governo Renzi, nell’ambito del Jobs Act, intende infatti introdurre dei meccanismi utili a verificare l’operatività e la produttività in azienda dei dipendenti. Per questo, ha in programma di rivedere la disciplina dei controlli a distanza dei lavoratori attraverso strumenti telematici, telecamere e altre apparecchiature.
Il testo iniziale, approvato in Senato il 9 ottobre, conteneva una non meglio specificata «revisione della disciplina dei controlli a distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore».
Per maggiore chiarezza, l’ala del Partito democratico più critica sul Jobs Act ha richiesto di specificare nel prossimo testo che i controlli, in assenza di un accordo sindacale, non possono riguardare i singoli lavoratori ma solo i reparti, gli impianti e i macchinari.
Anche con una formulazione del genere, alcuni dubbi però restano. Un’apparecchiatura audiovisiva in grado di controllare un macchinario non è altrettanto capace di supervisionare, indirettamente, l’attività del dipendente che con quel macchinario ci lavora? La privacy di chi lavora non rischierebbe di essere comunque compromessa?
La disposizione, inoltre, fa riferimento ai reparti. Si potrebbe quindi ipotizzare la presenza di telecamere che riprendono dall’alto l’attività di un’area produttiva. Per quanto l’impianto di videoregistrazione sia posizionato in alto e a distanza dal singolo lavoratore, non è possibile che sia in grado comunque di filmare tutto ciò che un dipendente fa sul posto di lavoro?
lunedì, novembre 17, 2014
Dall’infermiere che picchia il paziente al lavoratore che mostra i genitali Quando il reintegro in base all’articolo 18 è un paradosso
L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevede, stando così le cose, la possibilità di essere reintegrati sul posto del lavoro in caso di licenziamenti considerati illegittimi per motivi discriminatori, disciplinari ed economici. Da forma di tutela per il lavoratore, questo strumento si trasforma in taluni casi in trappola per il datore di lavoro. A dimostrarlo sono alcune storie di reintegrazioni paradossali e controverse ordinate da giudici forse un po’ troppo benevoli verso chi lavora. All’interno del saggio collettivo “Art. 18: la reintegrazione al lavoro”, il giuslavorista Andrea Del Re ne ha raccolte di particolarmente “gustose”: il lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini, l’ubriaco cronico, il vigile del fuoco rapinatore. Tutti riammessi sul posto del lavoro in nome di un diritto che, in queste circostanze, confligge con un principio altrettanto sano: il dovere di lavorare onestamente
L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è uno dei nodi principali intorno al quale convergono i conflitti tra governo, sindacati e minoranza parlamentare. Il Jobs act targato Renzi, se sarà approvato in entrambe le Camere, dovrebbe abolire la parte che prevede il reintegro dei lavoratori in caso di licenziamenti per motivi economici considerati illegittimi. La possibilità di essere riammessi in azienda resterebbe invece per i licenziamenti discriminatori e quelli legati a determinate questioni disciplinari gravi.
Ma l’istituto del reintegro ha ancora senso nel nostro mercato del lavoro, dove solo 6,5 milioni di lavoratori su 22 sono tutelati dall’articolo 18? La risposta a questo quesito non può che essere diversa a seconda dei punti di vista. Un aspetto che però merita di essere preso in considerazione riguarda la casistica dei reintegri ordinati dai giudici da quando questo strumento esiste. Accanto a quelli sacrosanti, imposti laddove il datore di lavoro aveva licenziato senza giusta causa (o senza giustificato motivo) un dipendente, ce ne sono altri quantomeno discutibili.
Alcuni esempi di reintegri difficili da digerire sono stati raccolti dal giuslavorista Andrea Del Re nel saggio collettivo Art. 18: la reintegrazione al lavoro, curato da Massimo Bornengo e Antonio Orazi (Esculapio, 2012, 120 pagine, 20 euro). Del Re le definisce le “perle” dell’applicazione dell’articolo 18.
A partire dalla vicenda di un infermiere che picchiò un paziente affetto da ritardo mentale ma il giudice (Tribunale di Roma, ottobre 2001) impose alla clinica di riammetterlo nel posto del lavoro perché si era trattato di «un fatto isolato ed eccezionale in relazione a un paziente particolare». La giustificazione diventa ancora più particolare quando il tribunale afferma che «l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni non può giustificare quella che rimane un’estrema ratio». Lo choc della casa di cura, soprattutto in relazione all’immagine presso gli altri pazienti, fu tanto che acconsentì a dare un risarcimento salatissimo all’infermiere pur di non riaverlo alle sue dipendenze.
In Toscana, nel 2003, un tribunale arrivò a giustificare un tentativo di rapina in banca operato da un vigile del fuoco. Secondo il magistrato, evidentemente esperto di cinema, le circostanze in cui era avvenuto il fatto non erano tali da «ricondurre il delitto alla tipologia di quello ideato in Rapina a mano armata, di Stanley Kubrick, risalente al lontano 1956». Nella sentenza si legge poi che è importante «richiamare l’attenzione sulla concreta, differenziata, pericolosità sociale che un delitto, al di là del suo nome, si presta a rivelare, e spesso insufficiente, senza conoscere la storia della persona». Cioè, il tentato furto non era sufficiente per rilevare la complessità della persona che lo ha complesso e comunque non così grave da fargli perdere il posto di lavoro.
Neanche gli atti a
sfondo sessuale sono sempre considerati abbastanza gravi da far pendere la
bilancia da parte del datore di lavoro. Il pretore di Bolzano nel 1982 ha reintegrato sul posto di lavoro un
lavoratore che aveva mostrato due volte i genitali ai colleghi, con
l’attenuante che l’atto non era dettato da istinti sessuali e che non era
rivolto a persone di sesso femminile.
La discriminante, quindi, è il genere? No, perché un altro esibizionista che si è reso colpevole dello stesso tipo di molestia davanti a una collega è stato “graziato” e reintegrato da un magistrato di Milano nel 1995, che ha ritenuto il fatto sicuramente degno di condanna ma il provvedimento disciplinare connesso – il licenziamento, appunto – sproporzionato alla gravità dell’illecito.
Un caso che ha fatto storia è quello dell’alcolista cronico reintegrato. Il grande giurista Giuseppe Pera la definì la «sentenza dell’ubriaco fisso». La Cassazione – si legge nel saggio di Del Re – arrivò a dire che «nel rapporto di lavoro subordinato, l’assenza dal servizio e l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione della medesima non possono costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento quando son dovute, non già a stati di ubriachezza, bensì ad un danno cerebrale, costituente l’esito della prolungata assunzione dell’alcol e dei suoi effetti» (Cass. n.1314/1997). Per sintetizzare il paradosso, l’autore esclama: «Insomma, se ti ubriachi una volta e sei assente, puoi rischiare; se di contro ormai sei “ubriaco fisso” (come dice il Pera) sei giustificato».
Di reintegri così controversi il saggio è pieno: dal lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini corti all’uomo che picchia il collega con un tubo di ferro, dal dipendente che affigge sul muro manifesti contro la sua azienda (giustificati in quanto stampati dal partito politico al quale il lavoratore aderisce) all’impiegato burlone che fa arrivare merce non richiesta a casa del direttore generale della sua azienda mettendo firme false (uno «scherzo goliardico» non punibile con il licenziamento).
Il colmo forse si raggiunge con quello che negli ambienti di lavoro è un malcostume piuttosto diffuso. Cioè, il lavoratore che si assenta per malattia e poi svolge un secondo lavoro. Il pretore di Viareggio reintegrò sul posto di lavoro un uomo che aveva svolto attività lavorativa durante il periodo di malattia perché – recita la sentenza – «nessun danno ha arrecato al datore di lavoro». Il secondo lavoro era anzi perfino necessario «in quanto la suddetta malattia richiedeva oltre che le cure anche la necessità del lavoratore di vivere con familiari e amici e di trovare interesse nell’ambiente esterno, cosicché l’attività svolta era compatibile con lo stato di malattia la cui guarigione non solo non è stata ritardata, ma è stata anche accelerata». Insomma – chiosa ironicamente Del Re – «ammalatevi, lavorate altrove, guarirete prima!».
La discriminante, quindi, è il genere? No, perché un altro esibizionista che si è reso colpevole dello stesso tipo di molestia davanti a una collega è stato “graziato” e reintegrato da un magistrato di Milano nel 1995, che ha ritenuto il fatto sicuramente degno di condanna ma il provvedimento disciplinare connesso – il licenziamento, appunto – sproporzionato alla gravità dell’illecito.
Un caso che ha fatto storia è quello dell’alcolista cronico reintegrato. Il grande giurista Giuseppe Pera la definì la «sentenza dell’ubriaco fisso». La Cassazione – si legge nel saggio di Del Re – arrivò a dire che «nel rapporto di lavoro subordinato, l’assenza dal servizio e l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione della medesima non possono costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento quando son dovute, non già a stati di ubriachezza, bensì ad un danno cerebrale, costituente l’esito della prolungata assunzione dell’alcol e dei suoi effetti» (Cass. n.1314/1997). Per sintetizzare il paradosso, l’autore esclama: «Insomma, se ti ubriachi una volta e sei assente, puoi rischiare; se di contro ormai sei “ubriaco fisso” (come dice il Pera) sei giustificato».
Di reintegri così controversi il saggio è pieno: dal lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini corti all’uomo che picchia il collega con un tubo di ferro, dal dipendente che affigge sul muro manifesti contro la sua azienda (giustificati in quanto stampati dal partito politico al quale il lavoratore aderisce) all’impiegato burlone che fa arrivare merce non richiesta a casa del direttore generale della sua azienda mettendo firme false (uno «scherzo goliardico» non punibile con il licenziamento).
Il colmo forse si raggiunge con quello che negli ambienti di lavoro è un malcostume piuttosto diffuso. Cioè, il lavoratore che si assenta per malattia e poi svolge un secondo lavoro. Il pretore di Viareggio reintegrò sul posto di lavoro un uomo che aveva svolto attività lavorativa durante il periodo di malattia perché – recita la sentenza – «nessun danno ha arrecato al datore di lavoro». Il secondo lavoro era anzi perfino necessario «in quanto la suddetta malattia richiedeva oltre che le cure anche la necessità del lavoratore di vivere con familiari e amici e di trovare interesse nell’ambiente esterno, cosicché l’attività svolta era compatibile con lo stato di malattia la cui guarigione non solo non è stata ritardata, ma è stata anche accelerata». Insomma – chiosa ironicamente Del Re – «ammalatevi, lavorate altrove, guarirete prima!».
lunedì, novembre 10, 2014
Tiraboschi (Adapt): «Il disallineamento tra domanda e offerta? Crea una situazione in cui le aziende non hanno personale che le aiuti a generare nuovo lavoro»
Lo skill mismatch, ovvero lo squilibrio tra domanda e offerta di lavoro, riguarda tra il 25 e il 45% della forza lavoro in Europa. Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione per gli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi Adapt, spiega perché è un problema anche in Italia e cosa si dovrebbe fare per colmarlo
Lo chiamano skill mismatch. In italiano, disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Si verifica quando un lavoratore è sovra o sotto qualificato rispetto al lavoro che svolge. Stando a una ricerca dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, in Europa tra il 25 e il 45% della forza lavoro ha troppe o troppo poche competenze rispetto a quelle richieste dai datori di lavoro.
Secondo Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione per gli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi Adapt, il disallineamento tra domanda e offerta è una delle cause dell’alta disoccupazione, soprattutto giovanile, in Italia. Gli abbiamo chiesto perché.
Professore,
si parla spesso di disallineamento tra domanda e offerta di lavoro: qual è lo
scenario in Italia?
Manca un sistema di incontro. Le nostre università costruiscono percorsi non allineati ai fabbisogni del mercato e non in funzione dell’evoluzione delle tecnologie. Così, i giovani, anche se prendono bei voti, non riescono a trovare un’occupazione. Il mercato continua chiedere figure professionali scientifiche e tecniche, mentre il nostro sistema di orientamento, comprese le famiglie, spinge i nostri ragazzi verso i licei e verso i percorsi umanistici come se fossero l’unica strada per realizzarsi.
Lei ha affermato che, in un contesto dove la disoccupazione giovanile è al di sopra del 40%, chi fa percorsi tecnici e professionali il lavoro lo trova. C’è un problema di sovraqualificazione?
Studi internazionali recentissimi evidenziano che in Europa tra il 25 e il 50% della forza lavoro è sovraqualificata, ovvero ha titoli che non corrispondono a ciò che si fa. È appunto l’effetto del mismatch. Se il sistema crea professionisti di cui il mercato non ha bisogno poi è normale che i giovani siano obbligati a fare lavori diversi da quelle che erano le loro aspettative al momento dell’iscrizione all’università.
Ma non sarà che, al di là di tutto, le aziende non assumono perché non c’è abbastanza lavoro e non perché la forza lavoro non è formata adeguatamente?
È vero che le aziende oggi non hanno grandi prospettive di crescita e occupazionali. Ma è un circolo vizioso. Se le imprese potessero avvalersi di forza lavoro adeguata sarebbero più produttive e quindi avrebbero più spazio per assumere. Pensiamo alla Germania: l’occupaizone di giovani continua a crescere perché sono dotati di diversi strumenti che funzionano: alternanza scuola-lavoro, sistema duale, apprendistato. Lì le imprese sono competitive perché collaborano con il sistema scolastico, hanno una forza lavoro professionalizzata e creano sviluppo e lavoro: è un percorso virtuoso. Qui c’è poco spazio per assumere perché le aziende sono poco creative, non dotate di forza lavoro attrezzata per dare loro linfa vitale e creare nuove opportunità.
Realisticamente, come se ne esce?
Noi stiamo discutendo la riforma del lavoro ma stiamo dimenticando la questione dei tirocini, che sono tra gli strumenti più importanti per combattere il disallineamento. Bisogna aumentare le esperienze di tirocinio curriculari. Se sono sganciati da un percorso formativo, diventano contratti di inserimento. Occorre pensare a un’alternanza scuola-lavoro con tirocini più intensi, strutturati, duraturi. E poi, alla fine del percorso di studio-lavoro, puntare sull’apprendistato. Inoltre, per correggere gli errori di sistema, uno strumento utile potrebbe essere la messa a regime di Garanzia Giovani. Insomma, è necessario poter disporre di canali solidi di accompagnamento dalla scuola al mercato del lavoro.
Manca un sistema di incontro. Le nostre università costruiscono percorsi non allineati ai fabbisogni del mercato e non in funzione dell’evoluzione delle tecnologie. Così, i giovani, anche se prendono bei voti, non riescono a trovare un’occupazione. Il mercato continua chiedere figure professionali scientifiche e tecniche, mentre il nostro sistema di orientamento, comprese le famiglie, spinge i nostri ragazzi verso i licei e verso i percorsi umanistici come se fossero l’unica strada per realizzarsi.
Lei ha affermato che, in un contesto dove la disoccupazione giovanile è al di sopra del 40%, chi fa percorsi tecnici e professionali il lavoro lo trova. C’è un problema di sovraqualificazione?
Studi internazionali recentissimi evidenziano che in Europa tra il 25 e il 50% della forza lavoro è sovraqualificata, ovvero ha titoli che non corrispondono a ciò che si fa. È appunto l’effetto del mismatch. Se il sistema crea professionisti di cui il mercato non ha bisogno poi è normale che i giovani siano obbligati a fare lavori diversi da quelle che erano le loro aspettative al momento dell’iscrizione all’università.
Ma non sarà che, al di là di tutto, le aziende non assumono perché non c’è abbastanza lavoro e non perché la forza lavoro non è formata adeguatamente?
È vero che le aziende oggi non hanno grandi prospettive di crescita e occupazionali. Ma è un circolo vizioso. Se le imprese potessero avvalersi di forza lavoro adeguata sarebbero più produttive e quindi avrebbero più spazio per assumere. Pensiamo alla Germania: l’occupaizone di giovani continua a crescere perché sono dotati di diversi strumenti che funzionano: alternanza scuola-lavoro, sistema duale, apprendistato. Lì le imprese sono competitive perché collaborano con il sistema scolastico, hanno una forza lavoro professionalizzata e creano sviluppo e lavoro: è un percorso virtuoso. Qui c’è poco spazio per assumere perché le aziende sono poco creative, non dotate di forza lavoro attrezzata per dare loro linfa vitale e creare nuove opportunità.
Realisticamente, come se ne esce?
Noi stiamo discutendo la riforma del lavoro ma stiamo dimenticando la questione dei tirocini, che sono tra gli strumenti più importanti per combattere il disallineamento. Bisogna aumentare le esperienze di tirocinio curriculari. Se sono sganciati da un percorso formativo, diventano contratti di inserimento. Occorre pensare a un’alternanza scuola-lavoro con tirocini più intensi, strutturati, duraturi. E poi, alla fine del percorso di studio-lavoro, puntare sull’apprendistato. Inoltre, per correggere gli errori di sistema, uno strumento utile potrebbe essere la messa a regime di Garanzia Giovani. Insomma, è necessario poter disporre di canali solidi di accompagnamento dalla scuola al mercato del lavoro.
È
anche importante l’orientamento?
Orientamento è la parola chiave: è fondamentale aiutare a fare la giusta scelta dopo le scuole superiori. Università o lavoro? Occorre invitare i ragazzi a intraprendere dei percorsi coerenti alle loro attitudini e ai loro ma tenendo conto delle possibilità reali. C’è chi ha davvero la vocazione per discipline non tecniche e va giustamente guidato verso un percorso universitario adeguato. Ma ci sono altri ragazzi che, pur avendo potenzialmente l’inclinazione verso un lavoro manuale, non vengono incoraggiati. Si bloccano perché non c’è nessuno che spiega loro come muoversi.
Perché in Italia non funziona?
Non funziona per vari motivi di tipo organizzativo, legati al modo in cui funzionano le istituzioni pubbliche. Ma è un problema anche di tipo valoriale, culturale. Scontiamo ancora un pregiudizio, da parte delle famiglie e dei giovani, verso il lavoro manuale, tecnico. Mentre è facile vedere che nel Nord Europa a 16 anni si cominciano già percorsi tecnici professionali, man mano che si scende c’è la rincorsa al pezzo di carta. Gli stessi ragazzi che vanno agli ITIS purtroppo qui si considerano di serie B perché è cosi che la società li dipinge.
Orientamento è la parola chiave: è fondamentale aiutare a fare la giusta scelta dopo le scuole superiori. Università o lavoro? Occorre invitare i ragazzi a intraprendere dei percorsi coerenti alle loro attitudini e ai loro ma tenendo conto delle possibilità reali. C’è chi ha davvero la vocazione per discipline non tecniche e va giustamente guidato verso un percorso universitario adeguato. Ma ci sono altri ragazzi che, pur avendo potenzialmente l’inclinazione verso un lavoro manuale, non vengono incoraggiati. Si bloccano perché non c’è nessuno che spiega loro come muoversi.
Perché in Italia non funziona?
Non funziona per vari motivi di tipo organizzativo, legati al modo in cui funzionano le istituzioni pubbliche. Ma è un problema anche di tipo valoriale, culturale. Scontiamo ancora un pregiudizio, da parte delle famiglie e dei giovani, verso il lavoro manuale, tecnico. Mentre è facile vedere che nel Nord Europa a 16 anni si cominciano già percorsi tecnici professionali, man mano che si scende c’è la rincorsa al pezzo di carta. Gli stessi ragazzi che vanno agli ITIS purtroppo qui si considerano di serie B perché è cosi che la società li dipinge.
La
riabilitazione dell’immagine dell’artigianato e del lavoro manuale non è ancora
riuscita del tutto?
C’è un po’ meno pregiudizio verso questi settori. Se ne parla, ma il genitore continua a sperare per il figlio una carriera universitaria. Lo prova il fatto che gli artigiani e i commercianti cercano forza lavoro che sappiano fare cose manuali ma non la trovano. Se non ci fosse forza lavoro extracomunitaria difficilmente troverebbero personale.
C’è un po’ meno pregiudizio verso questi settori. Se ne parla, ma il genitore continua a sperare per il figlio una carriera universitaria. Lo prova il fatto che gli artigiani e i commercianti cercano forza lavoro che sappiano fare cose manuali ma non la trovano. Se non ci fosse forza lavoro extracomunitaria difficilmente troverebbero personale.
Etichette:
ADAPT,
attualita,
disallineamento,
interviste,
Tiraboschi
giovedì, novembre 06, 2014
Somministrazione, le tutele per i lavoratori tramite agenzia
Quelli
che una volta erano chiamati “interinali” godono di una serie di
protezioni e di diritti che li avvicinano ai lavoratori subordinati.
Dalla parità di trattamento rispetto ai pari ruolo assunti
“direttamente” in azienda alle opportunità di formazione
gratuita. Intanto, le imprese cercano sempre più somministrati: nei
primi sei mesi del 2014, gli occupati sono stati oltre 282mila in
media ogni mese, con un aumento dell’8,7 per cento rispetto allo
stesso periodo dell’anno precedente
Una
volta li chiamavano “interinali”.
Era una definizione che, nel sentire comune, faceva sempre pensare a
lavoratori precari e condizionati più di altri dalla temporaneità
del loro impiego. Poi, la riforma Biagi (decreto 276/2003) ha
introdotto una formula simile ma diversa, il contratto
di somministrazione di lavoro,
mandando il lavoro interinale in pensione. E con il tempo, anche
l’idea che i lavoratori somministrati fossero dei precari è andata
in soffitta, sostituita dalla convinzione che si tratta sì di
atipici ma con una
serie di diritti e di tutele che li avvicina ai lavoratori
subordinati “tradizionali”.
Sì perché il “lavoro tramite agenzia” gode di numerose garanzie, a partire dalla parità di trattamento economico e normativo rispetto ai dipendenti di pari livello. In altre parole, un lavoratore in somministrazione non può percepire, a parità di mansioni svolte, un compenso inferiore a chi è assunto “direttamente” dall’azienda utilizzatrice del servizio. In più, non può sottostare a regole diverse.
Al pari dei rapporti di lavoro subordinati, il contratto dei lavoratori in somministrazione prevede il riconoscimento dei contributi previdenziali, della maternità, dei congedi parentali.
Il sistema di welfare approntato per i lavoratori somministrati prevede che l’ente bilaterale Ebitemp (costituito attraverso un accordo tra le organizzazioni sindacali Alai Cisl, Nidil Cgil e Uil Cpo e l'associazione delle agenzie per il lavoro in somministrazione Assolavoro) eroghi una serie di prestazioni a sostegno del reddito: indennità di infortunio, tutela sanitaria, piccoli prestiti personali, sostegno alla maternità e contributo per asili nido, mobilità territoriale.
Uno dei diritti più importanti di cui gode il lavoratore tramite agenzia è quello alla formazione. Dal momento che le imprese che richiedono personale in somministrazione alle agenzie hanno bisogno di persone già formate e pronte a rispondere alle esigenze, i lavoratori possono accedere a corsi di formazione gratuiti sia durante le “missioni” (i contratti di lavoro stipulati tra le agenzie per il lavoro e i dipendenti) che al di fuori.
Lo strumento per gestire la formazione professionale è Forma.Temp, anch’esso costituito da sindacati e associazione di categoria.
Sempre nell’ambito dei soggetti bilaterali, c’è anche un fondo pensione complementare negoziale, Fontemp, che eroga trattamenti pensionistici complementari al sistema previdenziale obbligatorio.
Un aspetto che ha contribuito a percepire il lavoro tramite agenzia come non precario è stato anche la fine dell’equazione somministrazione = impiego temporaneo. Dal 2009 infatti è stato reintrodotto nell’ordinamento la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, anche definito staff leasing.
Si tratta però di una formula che si può applicare solo ad alcune attività: le costruzioni, i servizi di cura e assistenza alla persona, i servizi di pulizia, le analisi di mercato, la gestione di call center, i servizi di consulenza nel settore informatico, i servizi di sostegno alla famiglia.
Le protezioni per i somministrati non sono soltanto quelle previste dai contratti ma anche quelle suggerite dalla realtà. Un’importante arriva proprio dal fatto che la somministrazione, anche in tempi di crisi, è stata una risorsa preziosa per trovare occupazione e ridurre il lavoro nero.
Basta osservare gli ultimi dati a disposizione: nei primi sei mesi del 2014, i lavoratori in somministrazione occupati in un mese sono stati oltre 282 mila in media, con un aumento dell’8,7 per cento sullo stesso periodo dell’anno precedente.
Le ore lavorate complessivamente sono oltre 162 milioni, con un incremento dell’8,9 per cento. Nel secondo trimestre, i lavoratori tramite agenzia sono stati 297 mila, contro i 267 mila dello stesso periodo 2013. Numeri in continua crescita. Segno di un dinamismo che non può essere sottovalutato.
Sì perché il “lavoro tramite agenzia” gode di numerose garanzie, a partire dalla parità di trattamento economico e normativo rispetto ai dipendenti di pari livello. In altre parole, un lavoratore in somministrazione non può percepire, a parità di mansioni svolte, un compenso inferiore a chi è assunto “direttamente” dall’azienda utilizzatrice del servizio. In più, non può sottostare a regole diverse.
Al pari dei rapporti di lavoro subordinati, il contratto dei lavoratori in somministrazione prevede il riconoscimento dei contributi previdenziali, della maternità, dei congedi parentali.
Il sistema di welfare approntato per i lavoratori somministrati prevede che l’ente bilaterale Ebitemp (costituito attraverso un accordo tra le organizzazioni sindacali Alai Cisl, Nidil Cgil e Uil Cpo e l'associazione delle agenzie per il lavoro in somministrazione Assolavoro) eroghi una serie di prestazioni a sostegno del reddito: indennità di infortunio, tutela sanitaria, piccoli prestiti personali, sostegno alla maternità e contributo per asili nido, mobilità territoriale.
Uno dei diritti più importanti di cui gode il lavoratore tramite agenzia è quello alla formazione. Dal momento che le imprese che richiedono personale in somministrazione alle agenzie hanno bisogno di persone già formate e pronte a rispondere alle esigenze, i lavoratori possono accedere a corsi di formazione gratuiti sia durante le “missioni” (i contratti di lavoro stipulati tra le agenzie per il lavoro e i dipendenti) che al di fuori.
Lo strumento per gestire la formazione professionale è Forma.Temp, anch’esso costituito da sindacati e associazione di categoria.
Sempre nell’ambito dei soggetti bilaterali, c’è anche un fondo pensione complementare negoziale, Fontemp, che eroga trattamenti pensionistici complementari al sistema previdenziale obbligatorio.
Un aspetto che ha contribuito a percepire il lavoro tramite agenzia come non precario è stato anche la fine dell’equazione somministrazione = impiego temporaneo. Dal 2009 infatti è stato reintrodotto nell’ordinamento la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, anche definito staff leasing.
Si tratta però di una formula che si può applicare solo ad alcune attività: le costruzioni, i servizi di cura e assistenza alla persona, i servizi di pulizia, le analisi di mercato, la gestione di call center, i servizi di consulenza nel settore informatico, i servizi di sostegno alla famiglia.
Le protezioni per i somministrati non sono soltanto quelle previste dai contratti ma anche quelle suggerite dalla realtà. Un’importante arriva proprio dal fatto che la somministrazione, anche in tempi di crisi, è stata una risorsa preziosa per trovare occupazione e ridurre il lavoro nero.
Basta osservare gli ultimi dati a disposizione: nei primi sei mesi del 2014, i lavoratori in somministrazione occupati in un mese sono stati oltre 282 mila in media, con un aumento dell’8,7 per cento sullo stesso periodo dell’anno precedente.
Le ore lavorate complessivamente sono oltre 162 milioni, con un incremento dell’8,9 per cento. Nel secondo trimestre, i lavoratori tramite agenzia sono stati 297 mila, contro i 267 mila dello stesso periodo 2013. Numeri in continua crescita. Segno di un dinamismo che non può essere sottovalutato.
Iscriviti a:
Post (Atom)