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lunedì, giugno 01, 2015

Garanzia Giovani un anno dopo, il bilancio dei primi 12 mesi

Il piano europeo per combattere la disoccupazione giovanile e il fenomeno dei Neet non ha ancora prodotto i risultati sperati: il numero delle registrazioni (circa 600 mila) è ancora distante dalla platea potenziale (2,2 milioni), molti ragazzi non hanno ancora sostenuto il primo colloquio e le offerte di lavoro o tirocinio concrete sono ancora poche. Il ministro Poletti si ritiene comunque soddisfatto per i numeri raggiunti, ma le opinioni degli under 30 raccolte attraverso il monitoraggio informale realizzato da Repubblica degli Stagisti e Adapt non sono sulla stessa lunghezza donda

Garanzia Giovani ha compiuto il suo primo compleanno l’1 maggio. A un anno (e qualche settimana) dal suo esordio, quale bilancio si può trarre del programma finanziato dall’Unione europea per combattere la disoccupazione giovanile e il fenomeno dei Neet?

Al 28 maggio 2015, le registrazioni al programma erano 595 mila (517 mila al netto delle cancellazioni e degli annullamenti da parte dei candidati). Si tratta di una cifra ancora distante da quei 2,2 milioni di ragazzi che, stando a quanto riportato dal governo nel piano di attuazione della Youth Guarantee, ricadono nel bacino dei Neet.

Le prese in carico da parte dei servizi per l’impiego sono circa la metà, 322 mila, e 101 mila sono gli under 30 a cui è stata proposta almeno una misura.


Dal report settimanale pubblicato dal Ministero del Lavoro sappiamo anche che i registrati sono per metà uomini (51%) e per metà donne (49%) e che più della metà dei ragazzi iscritti alla Youth Guarantee appartengono alla fascia d’età 19-24 anni.

Quanto alle opportunità di lavoro, i numeri sono molto meno ampi. Dall’inizio del progetto a oggi sono 56 mila, per un totale di circa 80 mila posti disponibili, di cui risultano attive attualmente 8.801 vacancy (12.147 posti a disposizione).

Dati alla mano, non sembrerebbe finora un successo, soprattutto se si guarda alla sproporzione tra il numero dei registrati e le poche effettive chance lavorative proposte nonostante per le aziende siano previsti bonus occupazionali per le nuove assunzioni e incentivi per l’attivazione di tirocini.

Secondo il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, un anno dopo l’inizio del programma il bilancio non è negativo. “Ci sono ampi margini di miglioramento ma posso ritenermi soddisfatto degli obiettivi raggiunti: avere 550 mila giovani che si sono registrati (il numero al primo maggio 2015, ndr) è un risultato non banale. E il fatto che dopo dodici mesi continuino a registrarsi 10/15 mila giovani al mese è per me una grande soddisfazione”, ha detto.

Tuttavia, a sentire i diretti protagonisti, i punti di vista sono ben diversi. Gli umori dei circa 3 mila ragazzi tra i 15 e i 29 anni che hanno risposto al monitoraggio informale online realizzato, tra l'ottobre 2014 e il marzo 2015, dalla testata giornalistica Repubblicadeglistagisti.it e il centro studi Adapt, non sempre sono positivi. Anzi.

La metà di questo campione (non statisticamente rilevante ma pur sempre rappresentativo delle esperienze e delle opinioni dei ragazzi in merito alla Garanzia Giovani), quando ha compilato il questionario, non era stata contattata per il colloquio da parte dei centri per l’impiego.

Se la risposta delle istituzioni è lenta rischia di generare una doppia frustrazione in quei ragazzi che hanno visto nel programma un motivo di speranza ma verificano sulla loro pelle che non risponde alle loro aspettative.

Tra quelli che hanno effettuato il primo colloquio conoscitivo, solo uno su quattro (il 24%) è stato richiamato per valutare insieme agli operatori dei servizi per l’impiego le proposte concrete a disposizione.

In più, la maggioranza degli under 30 (il 44%) che hanno sostenuto il primo colloquio afferma di aver ricevuto una proposta generica di lavoro o di uno stage futuro mentre il 39% riferisce di non aver ricevuto nessuna proposta concreta.

Se ci si distacca per un attimo dai dati e si passa ad ascoltare le esperienze, emergono alcuni casi poco incoraggianti. Dal ragazzo che racconta che durante il colloquio si è limitato a “inserire i dati del proprio cv allinterno di un computer” alla giovane che afferma che il personale del centro per l’impiego “non ha voluto ascoltare le mie esperienze o chiedermi il campo in cui avrei voluto fare lo stage”.

In base a quanto emerge dai dati e dalle risposte del monitoraggio informale, finora il progetto non ha ancora avuto un coordinamento allaltezza degli obiettivi iniziali. Ogni regione decide autonomamente se affidare le prime fasi del piano a strutture pubbliche o ad agenzie per il lavoro.

Chi è riuscito a ottenere una proposta concreta si è trovato spesso davanti a offerte di stage, con rimborsi di 400 euro mensili, che in alcuni casi non sono stati ancora erogati dall’INPS (l’ente che ha il compito di erogarli) anche dopo la fine del periodo di tirocinio. E, come ha messo in evidenza il programma tv Piazza Pulita, capita di frequente che i ragazzi presi per effettuare stage finiscano a fare mansioni lavorative normali.

Se poi si prende come punto di riferimento la galassia dei Neet, la categoria per cui è stato ideato il piano, allora lesito è ancora meno confortante perché, secondo il monitoraggio Rds-Adapt, solo il 17% di loro si è iscritto al programma.

martedì, marzo 17, 2015

Jobs Act, quanto e come risparmiano le aziende



I primi dati sulloccupazione (+5% degli assunti a tempo indeterminato a febbraio 2015) confermano che le misure contenute nella Legge di Stabilità sono uno stimolo per le aziende ad ampliare il personale. Ma il contratto a tutele crescenti, la principale novità della riforma targata Renzi, conviene alle imprese? Secondo alcune simulazioni, sì. E parecchio: più della metà rispetto a quanto avrebbero speso in tasse nel 2013

Dei possibili effetti che il Jobs Act avrà sui lavoratori si è parlato a lungo e ancora si parlerà. Ma alle aziende, la riforma del mercato del lavoro targata Renzi, conviene? Riscontri concreti non ce ne sono ancora. Ma se si tiene conto di alcune stime e dei segnali positivi che arrivano dai numeri sulloccupazione, si può tentare di dare una risposta.

Di certo, Jobs Act o meno, la Legge di Stabilità ha previsto degli incentivi che incoraggeranno le assunzioni a tempo indeterminato nel 2015. Per le aziende che assumono personale con contratto permanente, la finanziaria ha stabilito una decontribuzione per tre anni consecutivi: il risparmio sarà in media di 8.070 euro allanno per ogni neo-assunto.

In questo modo, per esempio, il contratto a tempo indeterminato (che dallentrata in vigore della riforma è a tutele crescenti e dunque prevede il reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente solo per casi di discriminazione o per casi disciplinari che non sussistono) viene a costare di meno dellapprendistato inferiore a due anni e del contratto a tempo determinato.

Inoltre, è prevista una deducibilità ai fini Irap del costo del lavoro che avvantaggerà anche le aziende e non solo i lavoratori.

I primi effetti di queste misure si fanno sentire, dal momento che a febbraio 2015 c’è stata una consistente crescita dei contratti a tempo indeterminato. Secondo l'Osservatorio sul mercato del lavoro della CNA, che monitora le assunzioni su un campione di 20mila imprese, i nuovi contratti sono stati il 37,5% del totale, il 5% in più su febbraio 2014.

Tra le varie stime sui risparmi che avranno le aziende grazie al contratto a tutele crescenti, particolarmente significativa è quella fatta dal quotidiano online QuiFinanza, che ha analizzato diverse situazioni mettendo a confronto il costo sostenuto dalle imprese nel 2013 per unassunzione a tempo indeterminato e una effettuata nel 2015 in base alle nuove norme.


Un caso riguarda un neo-assunto con un inquadramento a tempo indeterminato da 24 mila euro lordi allanno con 13 mensilità e nessun figlio a carico. Due anni fa, questo contratto sarebbe costato allimpresa 2.633 euro, a cui sottrarre 1.325 euro di cuneo fiscale: il netto in busta paga sarebbe stato quindi di 1.308 euro al mese.

Nel 2015, il medesimo contratto costa all
azienda 1.983 euro, con un cuneo fiscale di 500 euro e un netto mensile di 1.483 euro. Il gap tra il cuneo fiscale del 2013 e quello del 2015 è del 64%. Un risparmio molto consistente.

Il secondo caso preso in esame è di un neo-assunto con un contratto a tempo indeterminato da 15 mila euro lordi. Anche in questo caso, le mensilità sono 13 e non ci sono figli a carico. Nel 2013, limpresa avrebbe pagato 1.641 euro al mese. Togliendo 754 euro di cuneo fiscale si sarebbe arrivati a un netto in busta di 887 euro.

Nel 2015 la situazione cambia e il costo, per limpresa, diminuisce fino a quota 1.239 euro. Cala anche il cuneo fiscale: 207 euro. Con il risultato che il lavoratore, in busta paga, si trova 1.032 euro e il risparmio sul cuneo sarebbe del 73%. Più che dimezzato anche in questo caso. Stando a queste simulazioni, quindi, al momento assumere nuovi lavoratori con un contratto a tempo indeterminato conviene.

venerdì, marzo 06, 2015

Jobs Act, ecco cosa cambierà nel mercato del lavoro



La riforma del mercato del lavoro varata dal governo Renzi trasformerà lo scenario in modo profondo. Dalladdio allarticolo 18 per i nuovi assunti alle nuove regole sul demansionamento, dallo stop ai co.co.pro. fino alle novità sul congedo parentale. Ecco quali sono, in sintesi, i cambiamenti introdotti dal Jobs Act

Il Jobs Act sta per trasformare radicalmente il mercato del lavoro. Dal contratto a tutele crescenti alladdio allarticolo 18 dello Statuto dei lavoratori per le nuove assunzioni, dalla fine dei contratti a progetto alle nuove norme sul demansionamento: le novità in arrivo sono molte e c’è chi ha già parlato, nel bene e nel male, di una rivoluzione. Ecco quali sono, in sintesi, i principali cambiamenti introdotti dalla riforma (per la quale il consiglio dei ministri ha appena varato alcuni dei decreti attuativi più importanti) che entreranno in vigore nei prossimi mesi.

Tutele crescenti e reintegro solo per licenziamenti discriminatori
I nuovi contratti a tempo indeterminato saranno a tutele crescenti. In altre parole, per i nuovi assunti, lindennizzo in caso di licenziamento ingiustificato aumenta a seconda dellanzianità di servizio (due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 mensilità e un massimo di 24). Con laddio allarticolo 18 dello Statuto dei lavoratori, si prevede che il reintegro nel posto di lavoro è possibile solo se il licenziamento è nullo o discriminatorio. Nei casi di licenziamento disciplinare, la reintegrazione sarà possibile se il giudice dovesse ritenere che il fatto materiale contestato al lavoratore per interrompere il rapporto di lavoro non sussista. Per le piccole imprese resteranno valide le regole in vigore attualmente.

Indennizzo anche per licenziamenti collettivi
Lindennizzo monetario varrà anche per i licenziamenti collettivi nel momento in cui lazienda dovesse violare le procedure e i criteri di scelta sui lavoratori da licenziare. Le mensilità da corrispondere, in questo caso, variano da 4 a 24.

Demansionamento
Una delle novità che ha fatto più discutere riguarda il demansionamento. Sarà possibile, in caso di ristrutturazione o di riorganizzazione aziendale oppure in altri casi previsti dai contratti, per le imprese variare le mansioni del lavoratore verso un livello più basso purché il trattamento economico resti lo stesso.

Fine dei contratti a progetto
A partire dal 2016 non potranno più essere stipulati contratti a progetto. Quelli in essere potranno continuare fino a scadenza. Ma dal primo gennaio del prossimo anno, a tutte le collaborazioni ''con contenuto ripetitivo ed etero-organizzate dal datore di lavoro saranno applicate le norme del lavoro subordinato. Niente più co.co.pro e co.co.co, insomma. Se un lavoratore farà effettivamente un lavoro subordinato non potrà avvalersi di forme atipiche. Le collaborazioni regolamentate da accordi collettivi restano comunque permesse.

Nuovo sussidio di disoccupazione.
La riforma Fornero aveva introdotto lAspi come sussidio per la disoccupazione. Ora arriva una nuova assicurazione contro la disoccupazione: la Naspi. Chi perde il proprio impiego e ha versato contributi almeno 13 settimane negli ultimi 4 anni ha diritto a un sussidio pari alla metà delle settimane per cui sono stati versati i contributi. La Naspi è commisurata alla retribuzione ma non può superare i 1.300 euro. Dopo i primi quattro mesi si riduce del 3% al mese. Può durare al massimo 24 mesi ma è soggetta a una condizione: il disoccupato ha lobbligo di partecipare a progetti di riqualificazione professionale, pena la perdita del beneficio. Una novità è lintroduzione di un sussidio di disoccupazione anche per chi ha contratti di collaborazione.

Part time
Il Jobs Act introduce più flessibilità anche per quanto riguarda gli orari di lavoro. Le parti possono infatti stabilire clausole elastiche (che permettono lo spostamento della collocazione dell'orario di lavoro allinterno della giornata) o flessibili (che permettono la variazione in aumento dell'orario di lavoro nel part time verticale o misto).

Il contratto a tempo determinato e gli altri contratti
Chi pensava che il contratto a tempo determinato potesse essere eliminato si sbagliava. Il contratto a termine resta e conserva la sua durata massima di 36 mesi. Per il contratto di somministrazione è invece prevista si prevede un'estensione del campo di applicazione. Anche il job on call, o lavoro a chiamata, è confermato. Capitolo voucher: il tetto dell'importo per il lavoratore viene alzato da 5 a 7 mila euro, facendolo rimanere nei limiti della no tax area.

Congedo parentale: c’è più tempo
Chi vuole prendere il congedo parentale facoltativo (sei mesi in tutto) avrà tempo fino ai dodici anni vita del figlio. Ci sono quindi quattro anni in più, dal momento che a oggi letà massima del bambino è di 8 anni. Per venire incontro alle famiglie, inoltre, aumenta da tre a sei anni l'età entro cui il congedo facoltativo è retribuito parzialmente, cioè al 30%.
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venerdì, gennaio 23, 2015

Assenteismo, perché è un guaio da debellare quanto prima



Lo sciopero “sospetto” degli 835 vigili su 1000 a Roma durante la notte di Capodanno ha riacceso la polemica sulla tendenza dei lavoratori del pubblico impiego ad assentarsi indebitamente. A rincarare la dose sono arrivati anche i dati di alcune associazioni imprenditoriali tra cui Confindustria, secondo cui si potrebbero risparmiare 3,7 miliardi di euro se il livello di assenze del settore pubblico raggiungesse quello, più basso, del privato. Ma il vero problema dell’assenteismo nella Pa non risiede tanto nello spreco di denaro quanto nel fatto che questa prassi contribuisce ad alimentare lo sprezzo delle regole tra i cittadini

Il casus belli è nato la notte di Capodanno. A Roma, 835 vigili urbani su 1000 si sono dati malati in massa. Hanno scelto di astenersi dal lavoro nonostante il turno del 31 dicembre fosse pagato quattro volte un turno. Poco prima di segnarsi in malattia, e/o in permesso per donare il sangue, gli agenti hanno tentato di convocare un’assemblea sindacale per questioni contrattuali. 

Che fosse o meno fondato il motivo della assenza-protesta, il risultato è che a vegliare sulla Capitale durante la notte del 31 dicembre 2014 c’erano solo 165 vigili su 1000. Vista così, a tutto si poteva pensare fuorché a un’alternativa allo sciopero. Questo almeno ha percepito l’opinione pubblica, a giudicare dai commenti infuocati che la notizia ha suscitato su online su vari siti di informazione.
Il caso, naturalmente, non è passato inosservato neanche ai rappresentanti delle istituzioni. Il premier Matteo Renzi ha subito annunciato un giro di vite sul settore pubblico: “Nel 2015 cambiamo le regole del pubblico impiego″, ha twittato. 

A ruota il ministro per la Pa, Marianna Madia, che ha sollecitato accertamenti e azioni disciplinari contro eventuali violazioni. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha dato avvio a un’inchiesta interna per verificare possibili “assenze ingiustificate”. Il Garante ha aperto un’indagine per sospetto sciopero selvaggio. L’Inps si è proposta per fare i controlli al posto delle Asl. 

I sindacati, con l’eccezione della Uil locale (“La maggior parte dei vigili ha donato il sangue: per questo erano esentati dal servizio”), hanno condannato l’accaduto, schierandosi, come la Cgil nazionale, “con chi è andato a lavorare”. 

Una storia isolata? Macché. Sempre a Roma, intorno alla mezzanotte, alcune linee metropolitane hanno avuto dei ritardi perché su 24 macchinisti necessari a coprire lo straordinario, solo 7 hanno comunicato la loro disponibilità. E come se l’assenteismo fosse un vero e proprio virus, anche a Napoli, nell’ultima notte dell’anno, 200 netturbini si sono messi in malattia.

A prescindere dalle ragioni che hanno spinto questi lavoratori ad assentarsi, gli episodi sono una conferma indiretta dei dati sull’assenteismo appena diffusi da diverse organizzazioni. Secondo il Centro studi di Confindustria, i lavoratori pubblici hanno fatto registrare 19 giorni di assenze in media all’anno, sei in più dei dipendenti delle aziende private associate all’organizzazione di Viale dell’Astronomia. 

Ma la stima che colpisce di più riguarda il risparmio che si potrebbe ottenere portando il livello dell’assenteismo della Pa al livello di quello del settore privato: oltre 3,7 miliardi di euro. Ci sarebbe minore necessità di personale e questo permetterebbe di spendere meno denaro dei contribuenti. Inoltre, a parità di costi, secondo il Centro studi di Confindustria, “un minore assenteismo aumenterebbe l’efficienza e la qualità dei servizi”.

Un po’ differenti sono i dati forniti dalla Cgia di Mestre negli stessi giorni. L’associazione imprenditoriale veneta è particolarmente abile nel diffondere con frequenza quasi quotidiana numeri sulla crisi che fanno il gioco dei media a caccia di titoli. Quindi, per quanto veritieri, vanno sempre presi con le pinze. 

Fatta questa premessa, passiamo ai dati: secondo la Cgia, i lavoratori del settore privato fanno in media più assenze di quelli del pubblico (18,3 contro 17,1 giorni all’anno, sia nel 2013 che nel 2012). Nel pubblico impiego però ci sono molte più assenze-lampo (quelle cioè che vengono indennizzate): una su quattro dura un giorno solo. Nel privato, invece, sono l’11,9% sul totale. C’è il sospetto che le assenze brevi, in quanto pagate, nascondano forme di assenteismo. Sul banco degli imputati, quindi, tornano i lavoratori del pubblico impiego.

Di riflessioni sull’assenteismo nel pubblico se ne fanno da sempre. C’è chi lo ritiene un prodotto quasi inevitabile delle tutele di cui godono i lavoratori della Pa. Siccome è più complicato licenziare chi lavora per la pubblica amministrazione, i dipendenti tendono ad approfittarne assentandosi con maggiore frequenza. Chi difende con più ostinazione la professionalità – certamente presente a tutti i livelli – di chi lavora per lo Stato e per gli enti pubblici tende a presentare la situazione come un mero cliché o, in ogni caso, come un problema non prioritario. I guai, insomma, sarebbero “ben altri”.

E invece il guaio dell’assenteismo nella Pubblica amministrazione è uno dei più gravi del Paese. Non tanto per i 3,7 miliardi che si possono risparmiare secondo Confindustria. Il motivo per cui andrebbe considerato una piaga da curare prima possibile, anche con le maniere forti, è probabilmente più sottile. Ha a che fare con il modo in cui i cittadini si autorappresentano e con le ragioni che li spingono a infrangere le regole. 

Non ci sono molti metodi per convincere un cittadino ad agire nel rispetto delle norme. Uno dei più efficaci è vedere che l’istituzione che ti chiede di ottemperare a delle leggi – lo Stato – è la prima a rispettarle. Viceversa, se chi introduce le norme non le segue, nei cittadini si innesca un meccanismo autoassolutorio per cui può capitare che anche la corruzione e l’evasione fiscale diventino prassi di cui non sentirsi più di tanto in colpa.

Estremizzando, basta un dipendente pubblico scoperto ad assentarsi in modo fraudolento per far sentire in pace con se stesso un italiano che decide di non pagare le tasse nella misura dovuta. E il circolo vizioso non si chiude mai.

lunedì, dicembre 22, 2014

Daverio (giuslavorista, studio legale Daverio&Florio): «Il demansionamento introdotto dal Jobs Act? Funziona solo se lascia margini di libertà all’impresa. Anche di proporre al dipendente un compenso più basso»



Nella legge delega sul mercato del lavoro approvata dal Parlamento è previsto che sia più facile per l’imprenditore cambiare le mansioni a un lavoratore in casi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Ma c’è il rischio di abusi? Può essere efficace se obbliga l’azienda a non modificare il compenso? Alle domande di Synforma risponde l’avvocato Fabrizio Daverio, esperto di diritto del lavoro: «Se il cambio di mansione serve solo a evitare un licenziamento, allora la giurisprudenza attuale è già sufficiente. Non servono modifiche»


Nel Jobs Act è prevista un modifica delle norme relative al demansionamento dei lavoratori. Il Parlamento ha delegato il governo a regolamentare in modo nuovo questa materia permettendo ai datori di lavoro, nei casi di «riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale», di “abbassare” le mansioni dei propri dipendenti nell’ottica di un «utile impiego del personale».

Allo stesso tempo, la modifica dell’inquadramento di chi lavora deve avvenire – si legge nel testo della delega – nell’«interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche».

In sostanza, la riforma del mercato del lavoro dell’esecutivo consente alle aziende di ricorrere con più facilità al demansionamento come alternativa al licenziamento. Ma al contempo la legge sembra stabilire che la decisione deve essere presa senza danno economico per il lavoratore, ovvero mantenendo inalterato il compenso.

In attesa di sapere come verrà attuata la norma attraverso i decreti delegati, questa modifica ha suscitato non pochi dubbi. Da una parte, c’è chi teme che le aziende possano abusare di questa opzione per ridimensionare il costo del personale. Dall’altra, c’è chi sostiene che un intervento del genere non ha senso se si impone al datore di lavoro di mantenere inalterato il trattamento economico del lavoratore. Anche perché già è possibile, in determinati casi, ricorrere a questa possibilità per scongiurare l’interruzione di un rapporto di lavoro.

Abbiamo chiesto un parere sull’argomento all’avvocato Fabrizio Daverio, giuslavorista e socio fondatore dello studio legale Daverio&Florio.

Avvocato, cosa cambia con le nuove norme sul demansionamento?
È importante fare una premessa: il Jobs Act è una legge delega che attribuisce al governo la possibilità di emanare norme dettagliate sulla base di principi generali. Quindi, ogni considerazione puntuale può essere fatta solo davanti ai decreti legislativi che saranno emanati. Detto ciò, l’indicazione che dà la legge delega è molto generica. L’idea è di consentire un più flessibile cambio di mansioni in presenza di motivazioni particolari. In Italia, la norma sulla dequalificazione – l’articolo 2103 del codice civile – è troppo rigida: non si può cambiare di mansione un lavoratore se non dandogli un’altra di pari valore. La delega va invece in un’altra direzione: quella di consentire, in casi di riorganizzazione aziendale o in altre situazioni delicate, la modifica delle mansioni per scongiurare l’ipotesi peggiore, ovvero la risoluzione del rapporto di lavoro.

Però anche prima di questa norma si poteva derogare al divieto di demansionamento.
La norma vigente è rigorosissima e non consente alcuna deroga. È stata la giurisprudenza ad ammettere la deroga solo nei casi in cui si trattava di salvare il posto di lavoro. E  a condizione che il lavoratore fosse d’accordo.

A suo parere c’è il rischio che questa norma generi abusi da parte delle imprese?
Molto dipenderà dalla norma dettagliata emanata dal governo. Senza dubbio la norma potrebbe dare maggiore elasticità e flessibilità al datore di lavoro. Potrebbe consentire un cambio di mansione anche al di là del limite dell’equivalenza.

Però pare che sarà a parità di stipendio. Nel testo si legge «tutela delle condizioni di vita ed economiche»…
Faccio un esempio volutamente estremo. Se per esempio la posizione lavorativa di un quadro non fosse più disponibile per necessità organizzative e fosse disponibile solo la posizione di operaio, non avrebbe senso un quadro retribuito con il compenso da quadro ,a con una posizione da operaia. Il rischio che la norma perda di efficacia c’è. Secondo me bisogna lasciare la possibilità di negoziare il compenso al libero accordo delle parti, magari davanti alla direzione del lavoro o in sede sindacale. 


In sintesi, sempre basandosi sul testo della legge delega, la trova una novità positiva?
Se verrà applicata solo ai casi in cui si tratta di salvare i posti di lavoro allora è gia sufficiente la giurisprudenza che abbiamo. L’elemento di novità sarebbe molto scarso. Se invece consentirà anche maggiore flessibilità, a prescindere dai casi in cui si evita il licenziamento, e darà ampia liberta alle parti di modulare le intese a seconda dei casi senza escludere la rivisitazione del trattamento economico, allora sarà un ulteriore contributo di ammodernamento della normativa vigente.