Intervista al giornalista di Radio24 e de Il Messaggero sulla riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi e approvata, finora, alla Camera. «Mi piace l’energia del premier nel prevedere verifiche nel tempo e nello sfidare i sindacati. Ma l’abolizione del reintegro giudiziale nei licenziamenti economici potrebbe essere depotenziato dalle fattispecie dei disciplinari. E ci sono tematiche assenti o a cui si è prestata poca attenzione: le politiche attive per il lavoro, l’apprendistato, il Sud e il lavoro autonomo»
Giannino, cosa trova convincente del Jobs Act?
Mi è piaciuta l’energia con cui il presidente del Consiglio
ha dichiarato che la riforma del mercato del lavoro è un cantiere che andrà
avanti con puntuali verifiche nel tempo delle novità introdotte. E il controllo
comincerà con la definizione dei decreti. D’altronde, a mio parere è sempre
mancata una strumentazione pubblica che permettesse di verificare gli effetti
dei pur frequentissimi interventi di innovazione legislativa. È necessario per permettere
a tutti, e soprattutto alla politica, di capire che cosa ha determinato che
cos’altro, che cosa ha fallito e che cosa si può cambiare senza fare
innovazioni legislative. Se si arriva davvero a un codice unico semplificato
del lavoro, allora questa riforma sarà davvero un’occasione colta.
Su LeoniBlog, parla però di “bicchiere mezzo vuoto”. Su quali aspetti ha i maggiori dubbi?
Su LeoniBlog, parla però di “bicchiere mezzo vuoto”. Su quali aspetti ha i maggiori dubbi?
La mia non è una critica pregiudiziale: mi rendo conto delle
difficoltà e do atto al premier di aver operato una sana rottura politica su
diversi aspetti. Tuttavia, nel merito, ciò che vedo mi lascia motivatamente aperto
alla necessità di giudizi successivi. Partiamo per esempio dall’intervento
sull’articolo 18. Non ho mai pensato che fosse la leva per l’occupabilità. Non
mi sfugge la dimensione mitico-politica e capisco l’energia del governo nel
mettervi mano. Ma potrò capire che efficacia avrà quando ci sarà una determinazione
specifica delle fattispecie del licenziamento discriminatorio. Maggiore è il
dettaglio, più elevato è il rischio che un consulente dica “è discriminatorio:
andiamo dal giudice”. Il passo avanti rispetto alla riforma Fornero di
prevedere il solo indennizzo per il licenziamento economico individuale
verrebbe in qualche modo depotenziato. Si rischia di far rientrare dalla
finestra ciò che è uscito dalla porta. Anche riguardo all’indennizzo ho delle
riserve: finché non si vede come si calcola, sopra e sotto i 15 dipendenti, non
sono in grado di capire fino a che punto è una misura utile.
Sono sufficienti le risorse messe sul tavolo?
La questione delle risorse è uno dei principali punti aperti. Per esempio, un aspetto molto importante è il superamento della cassa integrazione attraverso l’Aspi. Ma finché l’Aspi continuerà ad avere meno risorse della cassa, imprese e sindacati continueranno a tenersi quella. Si parlava di risorse aggiuntive per questo ammortizzatore ma al momento, nel passaggio parlamentare, sembrano sparite.
E i tre miliardi di decontribuzione previsti per i primi tre anni per chi assume con il contratto unico a tutele crescenti?
Io ho sempre pensato che per ottenere una maggiore
occupabilità in tempi brevi-medi le risorse vanno concentrate su occupazione
aggiuntiva e non vanno date a tutti i nuovi contratti, compresi quelli che
sostituiscono il tempo determinato con l’indeterminato. In genere, gli
incentivi hanno più effetto se non dati a pioggia. Questi tre miliardi, quindi,
li avrei visti meglio se fossero stati previsti solo per le nuove assunzioni.
Anche dal punto di vista fiscale, sarebbe più sostenibile concentrare le
risorse sull’occupazione aggiuntiva.
Come agisce a suo parere la riforma sulle politiche attive per il lavoro?
La questione delle politiche attive è fondamentale per l’occupabilità. È necessario passare da troppe politiche passive a più politiche attive. Ma in questa riforma ci sono grandi punti interrogativi. Per esempio, questa Agenzia nazionale per l’occupazione, rischia di essere null’altro che la somma degli uffici provinciali per il lavoro. Se resta tutto nelle mani del pubblico, si tratterà di un fallimento conclamato. Bisognerebbe fare qualcosa di analogo a ciò che si è fatto in Germania. L’agenzia centrale dovrebbe limitarsi a gestire l’accreditamento dei privati, soprattutto grandi soggetti e multinazionali, più bravi nell’intermediare la domanda e l’offerta di lavoro. D’altronde, l’esperienza finora fallimentare di Garanzia Giovani è una colossale riprova dell’impossibilita della macchina pubblica di gestire le politiche attive. Inoltre, servirebbe anche che il Jobs Act sia accompagnato da una riforma della scuola, secondaria e terziaria, e con un’accelerazione sull’apprendistato. Il contratto di inserimento triennale funzionerà solo con un sistema scolastico più professionalizzante e lasciando intatti un cospicuo numero di contratti a termine: è un paradosso che i dipendenti dei call center invochino il mantenimento del contratto a progetto per poter conservare il proprio lavoro.
Ci sono dei grandi assenti in questa riforma?
Oltre agli aspetti che ho già descritto – politiche attive,
apprendistato – ce ne sono diversi. Io, che pure sono stato molto critico sulle
politiche differenziate per il Sud, vista la disparità pazzesca in ambito
lavorativo - 600 mila posti di lavoro persi al Mezzogiorno su un milione, circa
37% di disoccupati nelle costruzioni… - avrei sperimentato cose diverse,
proponendo per esempio incentivi diversificati per il Mezzogiorno. Poi, poteva
essere un’occasione per parificare lavoro privato e pubblico e – cosa
importantissima – per aprirsi alla possibilità di estendere i dirititi di una
parte dei lavoratori autonomi verso cui regna una totale indifferenza. Penso
agli iscritti alla gestione separata Inps, che versano contributi altissimi
senza avere nessuna ombra di tutela.
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