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mercoledì, novembre 19, 2014

Jobs Act, ok al controllo a distanza: e la privacy del lavoratore?


La riforma del mercato del lavoro introduce una norma che ammorbidisce il divieto di controllare i lavoratori a distanza e permette di sorvegliare con telecamere e altre apparecchiature quanto avviene ai macchinari e nei reparti, senza riprendere direttamente il singolo dipendente. Considerate le evoluzioni tecnologiche, non è comunque un rischio per la riservatezza di chi lavora?

Il divieto di sorvegliare a distanza una persona che lavora era sancito già nello Statuto dei lavoratori (legge 300 del 1970). L’articolo è il 4: «È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». L’unica eccezione prevista riguardava gli impianti «richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». L’azienda poteva sì installarli ma soltanto dopo aver stretto un accordo con le rappresentanze sindacali.

In altre parole, la privacy del lavoratore sul posto di lavoro è sacra. E per quanto possa avanzare la tecnologia, non ci deve essere strumento che vada a indagare, in assenza di un supervisore, l’operato di un dipendente.  Ma quello che fino a ieri sembrava un principio intoccabile, oggi è messo in discussione al pari degli altri tabù in materia di lavoro, come l’articolo 18, infranti dagli ultimi esecutivi.

Il governo Renzi, nell’ambito del Jobs Act, intende infatti introdurre dei meccanismi utili a verificare l’operatività e la produttività in azienda dei dipendenti. Per questo, ha in programma di rivedere la disciplina dei controlli a distanza dei lavoratori attraverso strumenti telematici, telecamere e altre apparecchiature.

Il testo iniziale, approvato in Senato il 9 ottobre, conteneva una non meglio specificata «revisione della disciplina dei controlli a distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore».

Per maggiore chiarezza, l’ala del Partito democratico più critica sul Jobs Act ha richiesto di specificare nel prossimo testo che i controlli, in assenza di un accordo sindacale, non possono riguardare i singoli lavoratori ma solo i reparti, gli impianti e i macchinari.

Anche con una formulazione del genere, alcuni dubbi però restano. Un’apparecchiatura audiovisiva in grado di controllare un macchinario non è altrettanto capace di supervisionare, indirettamente, l’attività del dipendente che con quel macchinario ci lavora? La privacy di chi lavora non rischierebbe di essere comunque compromessa?

La disposizione, inoltre, fa riferimento ai reparti. Si potrebbe quindi ipotizzare la presenza di telecamere che riprendono dall’alto l’attività di un’area produttiva. Per quanto l’impianto di videoregistrazione sia posizionato in alto e a distanza dal singolo lavoratore, non è possibile che sia in grado comunque di filmare tutto ciò che un dipendente fa sul posto di lavoro?

martedì, ottobre 28, 2014

TFR in busta paga: quali sono gli effetti sulle imprese? Intervista a Tiziana Vettor (Università Milano-Bicocca)



La manovra di stabilità varata dall’esecutivo Renzi prevede la possibilità, per i lavoratori che ne faranno richiesta, di avere nel cedolino mensile i soldi accantonati per la liquidazione. Che incidenza può avere questo intervento – qualora diventasse legge – sulle aziende? Lo abbiamo chiesto a Tiziana Vettor, docente di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano-Bicocca

La legge di stabilità varata dal governo Renzi prevede che i lavoratori dipendenti del settore privato possano chiedere l’anticipo del Tfr in busta paga. A partire dal primo marzo 2015, su richiesta, il denaro destinato a essere accantonato per la liquidazione potrà finire nel cedolino mensile.

A patto che venga effettivamente approvata dal Parlamento, la misura andrebbe ad aumentare il reddito dei lavoratori che richiedessero l’anticipo e garantirebbe un gettito extra per le casse dello Stato in quanto le somme versate sarebbero tassate.

Ma quale sarebbe l’effetto di questo intervento per le imprese? Le aziende con meno di 50 dipendenti, che gestiscono autonomamente il Tfr dei propri lavoratori, andrebbero incontro a problemi di liquidità: le imprese italiane, soprattutto piccole, che dispongono delle risorse per anticipare le quote. Secondo una stima di Unimpresa, con il passaggio del 50% del trattamento di fine rapporto nella busta paga sono a rischio 5,5 miliardi di euro di liquidità delle Pmi.

Per compensare la liquidità in meno, il governo pensa alla creazione di un fondo, in cui sarebbero coinvolte la Cassa depositi e prestiti e le banche, a cui gli imprenditori possono attingere per anticipare le somme ai dipendenti. E il tasso di interesse a cui questo prestito verrebbe erogato dagli istituti di credito alle imprese sarebbe uguale a quello a cui si rivalutano annualmente le quote della liquidazione.

Ma è tutto così lineare? Lo abbiamo chiesto a Tiziana Vettor, professore di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Che effetti può avere sulle imprese l’anticipo in busta paga del Tfr?
L’anticipo del Tfr in busta paga crea un problema di liquidità per le imprese. E questo potrebbe tradursi in un rischio dal punto di vista della loro stabilità finanziaria.

Il fatto di poter fare affidamento su finanziamenti ad hoc del canale bancario risolve il problema di anticipare le somme? I 5,5 miliardi di liquidità che – secondo alcune stime – sarebbero a rischio non verrebbero compensati da questo strumento?
Per rispondere a questa domanda, intanto occorrerà verificare quanti lavoratori, una volta entrata in vigore la legge di stabilità per l’anno 2015, decideranno di usufruire della possibilità dell’anticipo in busta paga del Tfr. A meno di pensarli tutti interessati a realizzare un maggior incremento retributivo, chi lavora potrebbe avere invece interesse a mantenere una retribuzione indiretta a fine rapporto di lavoro quale forma di risparmio. Quanto alle imprese, il fatto di poter contare su finanziamenti ad hoc del canale bancario costituisce, a oggi, una mera enunciazione. Occorrerà vedere che accordi saranno fatti con le rappresentanze degli istituti bancari e capire che disposizioni ci saranno in merito alle risorse a disposizione: i 100 milioni di euro di cui si parla. Quello che sembra probabile è che le imprese potranno accedere a un prestito a condizioni di favore. Ma per quanto “favorito”, sempre di prestito si tratta. In altre parole, se oggi l’impresa poteva gestire una liquidità decidendo in proprio, domani, su questi aspetti, interverrà un soggetto terzo – le banche – secondo modalità e condizioni al momento tutte da definire.

E se le aziende che chiedono i prestiti versassero in condizioni difficili? Il fondo speciale di garanzia che sarebbe istituito presso la Cassa depositi e prestiti e le banche sarebbe sufficiente?
Sarebbe meglio che le risorse della Cdp fossero stanziate per fare quegli investimenti strutturali che potrebbero rendere dinamica la nostra economia. Invece, in via generale, in queste nuove disposizioni sembra di intravvedere un cambio di prospettiva, che mi sembra il vero elemento di novità: se prima si chiedeva, o si auspicava, l’accesso al credito per realizzare investimenti utili alla crescita, oggi la richiesta di liquidità sembra finalizzata soltanto a compensare situazioni di crisi. 

Nella legge sarebbe previsto che le aziende con meno di 50 dipendenti debbano versare all’Inps comunque un “contributo mensile pari allo 0,2% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali nella stessa percentuale della quota maturanda” che viene liquidata ai dipendenti. Cosa significa? Cosa cambierebbe rispetto alla situazione attuale?
Rispetto a prima, sembrerebbe che le imprese debbano versare all’Inps lo 0,2% della retribuzione imponibile nel caso in cui non intendano corrispondere con risorse proprie la quota maturanda del Tfr ma decidano di accedere a un finanziamento. Tale disposizione parrebbe quindi finalizzata a garantire le risorse economiche in caso di finanziamento assistito. Insomma, il datore di lavoro paga una quota a garanzia per l’anticipo del Tfr in busta paga. Salvo modifiche che potranno intervenire nella discussione parlamentare, è, questo, un punto che apre a dei costi, benché motivati dalla necessità del prestito.

mercoledì, ottobre 15, 2014

Contratto unico a tutele crescenti: come funzionerà


Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è diventato il pilastro del Jobs Act. In attesa che la legge delega venga approvata in Parlamento e che i decreti delegati ne definiscano i dettagli, alcuni tratti fondamentali della nuova formula sembrano aver trovato un accordo unanime. Il “contratto unico” si applicherà ai neoassunti, darà garanzie che aumentano con il passare del tempo e cancellerà, almeno per i primi tre anni, le tutele previste dall’articolo 18 per i licenziamenti dovuti a motivi economici.

Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è diventato il pilastro della riforma del mercato del lavoro che approderà nel Jobs Act. L’idea alla base è quella di modificare il contratto a tempo indeterminato facendo in modo che le garanzie per chi lavora aumentino in base all’anzianità di servizio.

Ma come funzionerà? Nella legge delega all’esame del Parlamento non ci sono ancora i dettagli, ma alcuni aspetti sembrano mettere d’accordo tutti. La nuova formula si applicherà ai neoassunti e sarà un contratto a tempo indeterminato che permetterà al datore di lavoro, nei primi trentasei mesi, di licenziare il lavoratore in ogni momento per motivi di carattere economico. 

Se l’imprenditore decide di interrompere il rapporto di lavoro durante i primi tre anni ha l’obbligo di corrispondere al lavoratore un’indennità in denaro che aumenta con il passare del tempo. Licenziare un dipendente costerà progressivamente sempre di più. Starà poi alla legge stabilire a quanto debba ammontare la compensazione per il dipendente. Si andrebbe da due a sei mesi di retribuzione. Ma per ora è soltanto un’ipotesi.

Nella fase di inserimento dei primi tre anni, quindi, l’unica tutela è l’indennizzo monetario (a meno che non si tratti di licenziamenti disciplinari e discriminatori). Se invece l’interruzione del rapporto di lavoro è per giusta causa, la compensazione monetaria non va riconosciuta.

Nel periodo di inserimento, il lavoratore viene tutelato dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio  e il licenziamento disciplinare considerato illegittimo (solo in alcuni casi gravi, che verranno definiti dai decreti delegati). In caso di licenziamento per motivi economici, invece, varrebbe soltanto la protezione dell’indennizzo. Al lavoratore verrebbero cioè riconosciuti da due a sei mesi di salario, a seconda del tempo passato in azienda, e non il reintegro sul posto di lavoro.

Ma cosa succederebbe dopo i primi tre anni? Su questo punto non c’è ancora accordo. Le ipotesi in campo però sono sostanzialmente tre. C’è chi vorrebbe fare in modo che, superata la fase di inserimento, anche il contratto unico venga regolato dalla stessa disciplina dei licenziamenti che vige oggi.

In altre parole, passati i tre anni, il lavoratore sarebbe di nuovo tutelato pienamente dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: nelle aziende con più di quindici dipendenti, un licenziamento riconosciuto dal giudice come illegittimo darebbe quindi diritto alla cosiddetta “tutela reale”, ovvero la reintegrazione in azienda.

L’ipotesi “hard” invece è quella che prevede l’abolizione della protezione dell’articolo 18: in caso di licenziamento (tranne quello discriminatorio  e quello disciplinare in alcune forme gravi), il dipendente avrebbe diritto soltanto a un indennizzo che cresce proporzionalmente all’anzianità di servizio. 
La terza possibilità in ballo - una via di mezzo tra le prime due - sarebbe quella di far valere la protezione dell’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (si parla di sei, dodici o quindici) oppure quando il dipendente raggiunge una certa età.

A differenza di altre tipologie contrattuali come l’apprendistato, il contratto unico potrebbe essere applicato a tutti e non solo agli under 30. In questo modo, il reinserimento per categorie come le donne dopo il periodo di maternità o gli over 50 sarebbe più semplice.

giovedì, ottobre 09, 2014

Massagli (Adapt) «La concertazione? Renzi l’ha archiviata definitivamente. Non vuole che i sindacati facciano politica»


Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione degli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi, commenta la scelta del premier di aprire un confronto con le organizzazioni sindacali prima del voto al Senato sul Jobs Act. «Ascoltare per un’ora i sindacati non significa riaprire l’era della concertazione ma semplicemente fare un atto di garbo istituzionale. Il presidente del Consiglio non ha interesse nei sindacati e fa in modo di relegarli alla loro funzione primaria: occuparsi delle questioni di lavoro tra aziende e lavoratori come la contrattazione di secondo livello, su cui il governo punta molto»

Tra Matteo Renzi e i sindacati la scintilla non è mai scoccata. Fin dai primi giorni a Palazzo Chigi, il premier non ha risparmiato frecciate alle organizzazioni sindacali. Le ha accusate di non essere in contatto con la realtà e – peggio ancora – di aver contribuito a creare un vero e proprio apartheid tra lavoratori tutelati e precari. Eppure, il giorno prima della fiducia in Senato sul Jobs Act, il disegno di legge delega che riforma il mercato del lavoro, il presidente del Consiglio ha convocato i sindacati per  un confronto.

Un gesto che equivale a reintrodurre la concertazione all’interno dello scenario politico? Secondo Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione per gli studi sul lavoro Adapt, non è così: l’epoca dei sindacati che fanno politica è finita. Il gesto del capo del governo sarebbe più che altro dovuto all’eleganza istituzionale e alla voglia di mettere tra le priorità il tema della contrattazione di secondo livello.

Il giorno prima della fiducia sul Jobs Act, Renzi ha riaperto la Sala Verde di Palazzo Chigi convocando i sindacati a discutere della riforma del mercato del lavoro. È ripartita la concertazione?
No, non è ripartita. Ed è molto probabile che la concertazione così come l’abbiamo conosciuta, ovvero quel concetto diffuso negli anni ’80 e ’90 in base al quale i sindacati sono legittimati a fare politica, sia definitivamente superato e archiviato. Il premier ha incontrato i sindacati per un’ora e le aziende per meno di un’ora: il tempo era poco. Più che un momento di confronto, è stato un momento informativo doveroso vista la portata degli interventi in approvazione sul lavoro. Ritengo che sia stato un passaggio voluto anche per eleganza istituzionale. E tra l’altro non mi sembra che le parti sociali al momento siano in grado di condizionare l’attività del governo.

Sembra però che nel testo in esame al Parlamento, alcuni temi spinosi come il superamento dell’articolo 18 e la riforma della disciplina dei licenziamenti siano stati “rinviati” ai decreti attuativi. Non sarà che qualche effetto l’incontro con Cgil, Cisl e Uil l’ha avuto?

Su questo tema c’è stata probabilmente confusione. È stato detto che nel maxiemendamento del governo non si parla di licenziamenti. Ma nella delega, di fatto, si fa riferimento all’introduzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e già in principio non era previsto esplicitamente il superamento dell’articolo 18. Le norme sui licenziamenti, nel dettaglio, saranno stabilite con i decreti attuativi. 

Qual è la sua previsione riguardo ai futuri rapporti tra il governo e le organizzazioni sindacali: come si evolveranno?
Francamente credo che il rapporto rimarrà scarso, se non nullo, anche nei prossimi mesi e durante la redazione dei decreti attuativi che concretizzeranno il Jobs Act. Matteo Renzi non ha interesse nei sindacati, non crede al loro impatto, non teme la piazza. Al massimo, teme la sua minoranza in Parlamento. Se non altro perché vota e il Jobs Act deve necessariamente essere approvato nelle due Camere.

Tra i temi all’ordine del giorno c’è stato anche “l’ampliamento della contrattazione decentrata e aziendale”. Perché tanta attenzione sul tema? Quanto è vantaggioso, per le imprese e i lavoratori, potenziare la contrattazione di secondo livello?
Come Adapt abbiamo un’osservatorio sulla contrattazione di secondo livello. A marzo pubblicheremo primo rapporto, in cui intendiamo dimostrare, contratti alla mano, che in Italia di contrattazione aziendale se ne fa già tanta di buona qualità e che è uno strumento che permette di affrontare meglio la crisi. Le aziende che hanno attivato una contrattazione di secondo livello reale sono più capaci di fronteggiare la recessione senza ledere i diritti di nessuno e con modalità intelligenti.

Come si spiega il sostegno che Renzi continua a dare al tema?
Probabilmente deriva dall’intenzione di “relegare” il sindacato nel suo ambito originario: la gestione deille questioni di lavoro. Partendo dalla concezione per cui è tanto più facile rispondere ai bisogni quanto più si è vicini ai bisogni, Renzi non sopporta politicamente che il sindacato parli per tutti e voglia dire la sua sulla politica economica a livello nazionale. L’idea di sostenere il livello aziendale è coerente con questa sua logica. E allo stesso modo lo è il sostegno a una legge sulla rappresentanza e al salario minimo: contribuisce a spostare il sindacato verso una dimensione tecnica, subordinata alla politica, in cui queste organizzazioni diventano fondamentali soltanto per interagire con le aziende e per affrontare le questioni lavorative che si pongono di volta in volta.