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venerdì, marzo 06, 2015

Jobs Act, ecco cosa cambierà nel mercato del lavoro



La riforma del mercato del lavoro varata dal governo Renzi trasformerà lo scenario in modo profondo. Dalladdio allarticolo 18 per i nuovi assunti alle nuove regole sul demansionamento, dallo stop ai co.co.pro. fino alle novità sul congedo parentale. Ecco quali sono, in sintesi, i cambiamenti introdotti dal Jobs Act

Il Jobs Act sta per trasformare radicalmente il mercato del lavoro. Dal contratto a tutele crescenti alladdio allarticolo 18 dello Statuto dei lavoratori per le nuove assunzioni, dalla fine dei contratti a progetto alle nuove norme sul demansionamento: le novità in arrivo sono molte e c’è chi ha già parlato, nel bene e nel male, di una rivoluzione. Ecco quali sono, in sintesi, i principali cambiamenti introdotti dalla riforma (per la quale il consiglio dei ministri ha appena varato alcuni dei decreti attuativi più importanti) che entreranno in vigore nei prossimi mesi.

Tutele crescenti e reintegro solo per licenziamenti discriminatori
I nuovi contratti a tempo indeterminato saranno a tutele crescenti. In altre parole, per i nuovi assunti, lindennizzo in caso di licenziamento ingiustificato aumenta a seconda dellanzianità di servizio (due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 mensilità e un massimo di 24). Con laddio allarticolo 18 dello Statuto dei lavoratori, si prevede che il reintegro nel posto di lavoro è possibile solo se il licenziamento è nullo o discriminatorio. Nei casi di licenziamento disciplinare, la reintegrazione sarà possibile se il giudice dovesse ritenere che il fatto materiale contestato al lavoratore per interrompere il rapporto di lavoro non sussista. Per le piccole imprese resteranno valide le regole in vigore attualmente.

Indennizzo anche per licenziamenti collettivi
Lindennizzo monetario varrà anche per i licenziamenti collettivi nel momento in cui lazienda dovesse violare le procedure e i criteri di scelta sui lavoratori da licenziare. Le mensilità da corrispondere, in questo caso, variano da 4 a 24.

Demansionamento
Una delle novità che ha fatto più discutere riguarda il demansionamento. Sarà possibile, in caso di ristrutturazione o di riorganizzazione aziendale oppure in altri casi previsti dai contratti, per le imprese variare le mansioni del lavoratore verso un livello più basso purché il trattamento economico resti lo stesso.

Fine dei contratti a progetto
A partire dal 2016 non potranno più essere stipulati contratti a progetto. Quelli in essere potranno continuare fino a scadenza. Ma dal primo gennaio del prossimo anno, a tutte le collaborazioni ''con contenuto ripetitivo ed etero-organizzate dal datore di lavoro saranno applicate le norme del lavoro subordinato. Niente più co.co.pro e co.co.co, insomma. Se un lavoratore farà effettivamente un lavoro subordinato non potrà avvalersi di forme atipiche. Le collaborazioni regolamentate da accordi collettivi restano comunque permesse.

Nuovo sussidio di disoccupazione.
La riforma Fornero aveva introdotto lAspi come sussidio per la disoccupazione. Ora arriva una nuova assicurazione contro la disoccupazione: la Naspi. Chi perde il proprio impiego e ha versato contributi almeno 13 settimane negli ultimi 4 anni ha diritto a un sussidio pari alla metà delle settimane per cui sono stati versati i contributi. La Naspi è commisurata alla retribuzione ma non può superare i 1.300 euro. Dopo i primi quattro mesi si riduce del 3% al mese. Può durare al massimo 24 mesi ma è soggetta a una condizione: il disoccupato ha lobbligo di partecipare a progetti di riqualificazione professionale, pena la perdita del beneficio. Una novità è lintroduzione di un sussidio di disoccupazione anche per chi ha contratti di collaborazione.

Part time
Il Jobs Act introduce più flessibilità anche per quanto riguarda gli orari di lavoro. Le parti possono infatti stabilire clausole elastiche (che permettono lo spostamento della collocazione dell'orario di lavoro allinterno della giornata) o flessibili (che permettono la variazione in aumento dell'orario di lavoro nel part time verticale o misto).

Il contratto a tempo determinato e gli altri contratti
Chi pensava che il contratto a tempo determinato potesse essere eliminato si sbagliava. Il contratto a termine resta e conserva la sua durata massima di 36 mesi. Per il contratto di somministrazione è invece prevista si prevede un'estensione del campo di applicazione. Anche il job on call, o lavoro a chiamata, è confermato. Capitolo voucher: il tetto dell'importo per il lavoratore viene alzato da 5 a 7 mila euro, facendolo rimanere nei limiti della no tax area.

Congedo parentale: c’è più tempo
Chi vuole prendere il congedo parentale facoltativo (sei mesi in tutto) avrà tempo fino ai dodici anni vita del figlio. Ci sono quindi quattro anni in più, dal momento che a oggi letà massima del bambino è di 8 anni. Per venire incontro alle famiglie, inoltre, aumenta da tre a sei anni l'età entro cui il congedo facoltativo è retribuito parzialmente, cioè al 30%.
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lunedì, novembre 17, 2014

Dall’infermiere che picchia il paziente al lavoratore che mostra i genitali Quando il reintegro in base all’articolo 18 è un paradosso



L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevede, stando così le cose, la possibilità di essere reintegrati sul posto del lavoro in caso di licenziamenti considerati illegittimi per motivi discriminatori, disciplinari ed economici. Da forma di tutela per il lavoratore, questo strumento si trasforma in taluni casi in trappola per il datore di lavoro. A dimostrarlo sono alcune storie di reintegrazioni paradossali e controverse ordinate da giudici forse un po’ troppo benevoli verso chi lavora. All’interno del saggio collettivo “Art. 18: la reintegrazione al lavoro”,  il giuslavorista Andrea Del Re ne ha raccolte di particolarmente “gustose”: il lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini, l’ubriaco cronico, il vigile del fuoco rapinatore. Tutti riammessi sul posto del lavoro in nome di un diritto che, in queste circostanze, confligge con un principio altrettanto sano: il dovere di lavorare onestamente


L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è uno dei nodi principali intorno al quale convergono i conflitti tra governo, sindacati e minoranza parlamentare. Il Jobs act targato Renzi, se sarà approvato in entrambe le Camere, dovrebbe abolire la parte che prevede il reintegro dei lavoratori in caso di licenziamenti per motivi economici considerati illegittimi. La possibilità di essere riammessi in azienda resterebbe invece per i licenziamenti discriminatori e quelli legati a determinate questioni disciplinari gravi.

Ma l’istituto del reintegro ha ancora senso nel nostro mercato del lavoro, dove solo 6,5 milioni di lavoratori su 22 sono tutelati dall’articolo 18? La risposta a questo quesito non può che essere diversa a seconda dei punti di vista. Un aspetto che però merita di essere preso in considerazione riguarda la casistica dei reintegri ordinati dai giudici da quando questo strumento esiste. Accanto a quelli sacrosanti, imposti laddove il datore di lavoro aveva licenziato senza giusta causa (o senza giustificato motivo) un dipendente, ce ne sono altri quantomeno discutibili.

Alcuni esempi di reintegri difficili da digerire sono stati raccolti dal giuslavorista Andrea Del Re nel saggio collettivo Art. 18: la reintegrazione al lavoro, curato da Massimo Bornengo e Antonio Orazi (Esculapio, 2012, 120 pagine, 20 euro). Del Re le definisce le “perle” dell’applicazione dell’articolo 18.

A partire dalla vicenda di un infermiere che picchiò un paziente affetto da ritardo mentale ma il giudice (Tribunale di Roma, ottobre 2001) impose alla clinica di riammetterlo nel posto del lavoro perché si era trattato di «un fatto isolato ed eccezionale in relazione a un paziente particolare». La giustificazione diventa ancora più particolare quando il tribunale afferma che «l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni non può giustificare quella che rimane un’estrema ratio». Lo choc della casa di cura, soprattutto in relazione all’immagine presso gli altri pazienti, fu tanto che acconsentì a dare un risarcimento salatissimo all’infermiere pur di non riaverlo alle sue dipendenze.

In Toscana, nel 2003, un tribunale arrivò a giustificare un tentativo di rapina in banca operato da un vigile del fuoco. Secondo il magistrato, evidentemente esperto di cinema, le circostanze in cui era avvenuto il fatto non erano tali da «ricondurre il delitto alla tipologia di quello ideato in Rapina a mano armata, di Stanley Kubrick, risalente al lontano 1956». Nella sentenza si legge poi che è importante «richiamare l’attenzione sulla concreta, differenziata, pericolosità sociale che un delitto, al di là del suo nome, si presta a rivelare, e spesso insufficiente, senza conoscere la storia della persona». Cioè, il tentato furto non era sufficiente per rilevare la complessità della persona che lo ha complesso e comunque non così grave da fargli perdere il posto di lavoro.



Neanche gli atti a sfondo sessuale sono sempre considerati abbastanza gravi da far pendere la bilancia da parte del datore di lavoro. Il pretore di Bolzano nel 1982 ha reintegrato sul posto di lavoro un lavoratore che aveva mostrato due volte i genitali ai colleghi, con l’attenuante che l’atto non era dettato da istinti sessuali e che non era rivolto a persone di sesso femminile.

La discriminante, quindi, è il genere? No, perché un altro esibizionista che si è reso colpevole dello stesso tipo di molestia davanti a una collega è stato “graziato” e reintegrato da un magistrato di Milano nel 1995, che ha ritenuto il fatto sicuramente degno di condanna ma il provvedimento disciplinare connesso – il licenziamento, appunto – sproporzionato alla gravità dell’illecito.

Un caso che ha fatto storia è quello dell’alcolista cronico reintegrato. Il grande giurista Giuseppe Pera la definì la «sentenza dell’ubriaco fisso». La Cassazione – si legge nel saggio di Del Re – arrivò a dire che «nel rapporto di lavoro subordinato, l’assenza dal servizio e l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione della medesima non possono costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento quando son dovute, non già a stati di ubriachezza, bensì ad un danno cerebrale, costituente l’esito  della prolungata assunzione dell’alcol e dei suoi effetti» (Cass. n.1314/1997). Per sintetizzare il paradosso, l’autore esclama: «Insomma, se ti ubriachi una volta e sei assente, puoi rischiare; se di contro ormai sei “ubriaco fisso” (come dice il Pera) sei giustificato».

Di reintegri così controversi il saggio è pieno: dal lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini corti all’uomo che picchia il collega con un tubo di ferro, dal dipendente che affigge sul muro manifesti contro la sua azienda (giustificati in quanto stampati dal partito politico al quale il lavoratore aderisce) all’impiegato burlone che fa arrivare merce non richiesta a casa del direttore generale della sua azienda mettendo firme false (uno «scherzo goliardico» non punibile con il licenziamento).

Il colmo forse si raggiunge con quello che negli ambienti di lavoro è un malcostume piuttosto diffuso. Cioè, il lavoratore che si assenta per malattia e poi svolge un secondo lavoro. Il pretore di Viareggio reintegrò sul posto di lavoro un uomo che aveva svolto attività lavorativa durante il periodo di malattia perché – recita la sentenza – «nessun danno ha arrecato al datore di lavoro». Il secondo lavoro era anzi perfino necessario «in quanto la suddetta malattia richiedeva oltre che le cure anche la necessità del lavoratore di vivere con familiari e amici e di trovare interesse nell’ambiente esterno, cosicché l’attività svolta era compatibile con lo stato di malattia la cui guarigione non solo non è stata ritardata, ma è stata anche accelerata». Insomma – chiosa ironicamente Del Re – «ammalatevi, lavorate altrove, guarirete prima!».

mercoledì, ottobre 15, 2014

Contratto unico a tutele crescenti: come funzionerà


Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è diventato il pilastro del Jobs Act. In attesa che la legge delega venga approvata in Parlamento e che i decreti delegati ne definiscano i dettagli, alcuni tratti fondamentali della nuova formula sembrano aver trovato un accordo unanime. Il “contratto unico” si applicherà ai neoassunti, darà garanzie che aumentano con il passare del tempo e cancellerà, almeno per i primi tre anni, le tutele previste dall’articolo 18 per i licenziamenti dovuti a motivi economici.

Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è diventato il pilastro della riforma del mercato del lavoro che approderà nel Jobs Act. L’idea alla base è quella di modificare il contratto a tempo indeterminato facendo in modo che le garanzie per chi lavora aumentino in base all’anzianità di servizio.

Ma come funzionerà? Nella legge delega all’esame del Parlamento non ci sono ancora i dettagli, ma alcuni aspetti sembrano mettere d’accordo tutti. La nuova formula si applicherà ai neoassunti e sarà un contratto a tempo indeterminato che permetterà al datore di lavoro, nei primi trentasei mesi, di licenziare il lavoratore in ogni momento per motivi di carattere economico. 

Se l’imprenditore decide di interrompere il rapporto di lavoro durante i primi tre anni ha l’obbligo di corrispondere al lavoratore un’indennità in denaro che aumenta con il passare del tempo. Licenziare un dipendente costerà progressivamente sempre di più. Starà poi alla legge stabilire a quanto debba ammontare la compensazione per il dipendente. Si andrebbe da due a sei mesi di retribuzione. Ma per ora è soltanto un’ipotesi.

Nella fase di inserimento dei primi tre anni, quindi, l’unica tutela è l’indennizzo monetario (a meno che non si tratti di licenziamenti disciplinari e discriminatori). Se invece l’interruzione del rapporto di lavoro è per giusta causa, la compensazione monetaria non va riconosciuta.

Nel periodo di inserimento, il lavoratore viene tutelato dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio  e il licenziamento disciplinare considerato illegittimo (solo in alcuni casi gravi, che verranno definiti dai decreti delegati). In caso di licenziamento per motivi economici, invece, varrebbe soltanto la protezione dell’indennizzo. Al lavoratore verrebbero cioè riconosciuti da due a sei mesi di salario, a seconda del tempo passato in azienda, e non il reintegro sul posto di lavoro.

Ma cosa succederebbe dopo i primi tre anni? Su questo punto non c’è ancora accordo. Le ipotesi in campo però sono sostanzialmente tre. C’è chi vorrebbe fare in modo che, superata la fase di inserimento, anche il contratto unico venga regolato dalla stessa disciplina dei licenziamenti che vige oggi.

In altre parole, passati i tre anni, il lavoratore sarebbe di nuovo tutelato pienamente dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: nelle aziende con più di quindici dipendenti, un licenziamento riconosciuto dal giudice come illegittimo darebbe quindi diritto alla cosiddetta “tutela reale”, ovvero la reintegrazione in azienda.

L’ipotesi “hard” invece è quella che prevede l’abolizione della protezione dell’articolo 18: in caso di licenziamento (tranne quello discriminatorio  e quello disciplinare in alcune forme gravi), il dipendente avrebbe diritto soltanto a un indennizzo che cresce proporzionalmente all’anzianità di servizio. 
La terza possibilità in ballo - una via di mezzo tra le prime due - sarebbe quella di far valere la protezione dell’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (si parla di sei, dodici o quindici) oppure quando il dipendente raggiunge una certa età.

A differenza di altre tipologie contrattuali come l’apprendistato, il contratto unico potrebbe essere applicato a tutti e non solo agli under 30. In questo modo, il reinserimento per categorie come le donne dopo il periodo di maternità o gli over 50 sarebbe più semplice.