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venerdì, ottobre 24, 2014

Il caso Virgin, l’azienda che ha eliminato gli orari di lavoro



Richard Branson, il 64enne britannico che ha fondato il gruppo che spazia in settori che vanno dalla musica ai viaggi, ha deciso che i suoi dipendenti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti non devono sottostare ad alcun orario di lavoro purché portino a termine i progetti a loro assegnati. La filosofia è simile a quella che ha ispirato negli scorsi anni altre aziende come Google e Netflix. È necessario che i lavoratori abbiano “più tempo per la famiglia e per coltivare i loro interessi”, ha detto l’imprenditore. Anche perché – parole sue - “una persona felice, lavora meglio”.

Quanto è produttiva una persona che lavora freneticamente? Quanto conta un’ora passata in più o in meno in ufficio sui risultati di un’azienda? Se un lavoratore svolge bene il suo compito può organizzarsi la giornata di lavoro in modo autonomo? Fino a pochi anni fa era quasi proibito mettere in discussione l’organizzazione oraria dell’attività lavorativa.

Invece, grazie all’esempio di alcune aziende innovative, il paradigma è cambiato: in molti casi, la qualità del lavoro è diventata molto più determinante rispetto alla quantità di lavoro svolto. L’ultima grande compagnia che ha messo in pratica questa rivoluzione è la Virgin: il suo fondatore e numero uno, Richard Branson, ha deciso che i suoi dipendenti non devono più sottostare ad alcun orario di lavoro.

La regola di fondo che ha ispirato l’istrionico e multimiliardario imprenditore britannico 64enne, messa nero su bianco sul suo blog (www.virgin.com/richard-branson) e nel libro The Virgin Way: Everything I Know About Leadership, è una: “contano i risultati, non le ore che passi in ufficio”.

Così, lo staff del suo impero, che spazia nei settori più svariati (aerei, palestre, musica e radio solo per citarne alcuni) ora potrà organizzare il proprio tempo lavorativo diversamente e concentrarsi più sui compiti da svolgere che sul momento in cui timbrare il cartellino.

Certo, la svolta non vale esattamente per tutti i dipendenti Virgin, probabilmente anche per le diverse legislazioni vigenti nei vari Paesi del mondo nell’ambito del lavoro. Ma di sicuro, il personale di Gran Bretagna e Stati Uniti potrà seguire questa nuova politica. In cosa consiste nello specifico? A patto che ciascuno esegua gli incarichi che gli sono stati affidati e porti a termine i progetti assegnati, ci sarà libertà di assentarsi dall’ufficio per “un’ora al giorno, una settimana o un mese, senza che nessuno faccia domande”, ha detto Branson.

È necessario che i lavoratori abbiano “più tempo per la famiglia e per coltivare i loro interessi”. Perché chi è sereno, è più produttivo. Parola dello stesso imprenditore: “Una persona felice, lavora meglio”.

Tra l’altro, il fondatore del gruppo Virgin ha anche annunciato che sarà sua premura incoraggiare anche le aziende controllate affinché fermino il conteggio dei giorni di vacanza. Oppure, per dirla con le parole dello stesso supermanager, “i dipendenti decideranno di andare in vacanza solo quando capiranno che la loro assenza non danneggerà le entrate dell’azienda, un altro collega o la loro stessa carriera”.

Insomma, sentirsi liberi di entrare e uscire quando si vuole – vacanze comprese – ma dedicarsi anima e corpo all’azienda. Che poi, a ben vedere, è una filosofia molto simile a quella seguita in questi anni da Google, forse non a caso una delle maggiori aziende del mondo.
Ma Virgin e Google sono solo la punta dell’iceberg. Anzi, sembra che proprio gli esempi provenienti da società più piccole (ma non meno conosciute) abbiano ispirato le nuove politiche del boss della multinazionale britannica. In questo caso il punto di riferimento è stata Netflix, la piattaforma Usa di streaming video, che non tiene conto dei giorni di vacanza che si prendono i propri dipendenti. E a suggerire a Branson il caso sarebbe stata la figlia.


martedì, ottobre 21, 2014

La ricerca di lavoro? Social, ma non troppo


Più della metà delle attività di recruiting si svolge, a livello mondiale, su piattaforme come Linkedin, Facebook e Twitter. A fine 2014 la percentuale arriverà al 61%. Eppure, secondo un’indagine condotta su 1.500 recruiter di 24 Paesi e 17 mila persone in cerca di impiego soltanto il 7% dei candidati riesce a trovare un’occupazione affidandosi ai social media. Incide anche la scarsa attenzione posta sulla web reputation: il 25,5% dei selezionatori ammette di aver scartato alcuni profili solo perché sulle loro pagine social personali comparivano foto imbarazzanti o commenti fuori luogo


Trovare lavoro attraverso i social network è più facile? Se si prendono in considerazione i risultati di una ricerca svolta a livello internazionale su 1.500 recruiter di 24 Paesi (di cui 269 italiani) e 17 mila persone in cerca di impiego, la risposta sembra inequivocabile: no.

In buona sostanza, secondo lo studio, il social recruiting è una prassi molto diffusa tra i selezionatori ma alla fine è meno efficace del previsto per quanto riguarda la possibilità di far incontrare domanda e offerta di lavoro.

Nel 2014, soltanto sette candidati su cento hanno infatti reperito un posto grazie a Linkedin, Facebook, Twitter e simili. Certo, nel 2013 non andava meglio, dal momento che solo il 2% di chi andava alla ricerca di un’occupazione ci riusciva utilizzando le piattaforme sociali.

Eppure, stando ai dati del rapporto, curato da una multinazionale del settore HR e Università Cattolica di Milano, più della metà delle attività di selezione del personale (il 53%) si concentra ormai sulla rete e, in particolare, sui social media. E tanto per avere un’idea del trend, la percentuale del recruiting compiuto su Linkedin e co. sarà entro fine anno del 61%. Per esempio, chi si rivolge ai centri per l’impiego è dunque una minoranza.

La fiducia nel potere di Internet è quindi alta. In Italia, quest’anno, su un campione di 7.600 interpellati a caccia di un’occupazione, due su tre (il 67%) hanno affermato di utilizzare i social media come canale prioritario per la ricerca (rispetto al 2013 si registra una crescita del 14%) e il 56% ha anche pubblicato su queste piattaforme il proprio curriculum vitae (l’anno scorso la percentuale era del 30%).

Il luogo privilegiato per il collocamento, a prescindere dai risultati, sta diventando quindi la socialsfera. La piattaforma preferita per la ricerca professionale? Linkedin, scelto come prima risorsa online da quattro candidati su dieci (41%). Al secondo posto c’è un social più personale come Facebook, che raccoglie il 23% delle preferenze.

Le categorie che si affidano di più al web per individuare i profili più adatti sono quelli più legati al rapporto con i clienti: nelle vendite, il 54,2% delle professionalità vengono cercate così; nel marketing siamo al 40,8%. Altro settore che punta sui social per fare reclutamento è quello relativo ad amministrazione e finanza (45,8%). I servizi, insomma, vanno per la maggiore.

Ma, come abbiamo detto, solo il 7% delle persone che cercano un’occupazione riescono a trovarla grazie ai social. A cosa sono dovute queste percentuali così basse? Un elemento che incide è la cosiddetta web reputation, ovvero la reputazione che gli utenti si costruiscono sui social in base ai contenuti che diffondono.

Soprattutto su Facebook, che si presta particolarmente bene al racconto di fatti e opinioni personali, basta una frase fuori luogo, un commento sgradevole o un’esplicitazione delle proprie inclinazioni politiche a condizionare i selezionatori più di quanto possano fare mille curricula.

Le esperienze professionali e la carriera formativa contano, certamente. Ma più del 25% di chi si occupa di recruiting dichiara di aver cestinato cv e messo una x su un candidato solo per fotografie e prese di posizione pubblicate sulle pagine social personali.

A ogni fotografia goliardica in più, magari con una bottiglia di vino in mano, corrisponde una chance in meno di essere assunti. Il tutto, con buona pace dei responsabili delle risorse umane delle aziende: scartare i candidati per questi motivi non lascia spazio ad alcun senso di colpa.





venerdì, ottobre 17, 2014

E io me ne vado all’estero per lavoro: i numeri dell’emigrazione italiana 2.0





Giovane, istruito, celibe, residente al Nord e diretto a Londra. Ecco il profilo dell’emigrante italiano negli anni della crisi. Le cifre dell’esodo, contenute nel rapporto Migrantes, diventano sempre più rilevanti: nel 2013 sono stati quasi 95 mila i connazionali che si sono trasferiti oltre confine, 15 mila in più rispetto all’anno precedente. L’emorragia riguarda soprattutto la fascia d’età tra i 18 e i 34 anni (36,2%). A sorpresa, la regione in cui si registrano più partenze (più di 16 mila) è la Lombardia. E la destinazione più gettonata è la Gran Bretagna, seguita da Germania, Svizzera e Francia.

Via. In cerca di un lavoro e di una vita diversa. Nel 2013 sono stati quasi 95 mila gli italiani che si sono trasferiti all’estero. Come se l’intera popolazione di una città grande quanto Udine avesse traslocato oltre confine. I numeri che certificano la ripresa dell’emigrazione dall’Italia sono forniti dal Rapporto “Italiani nel Mondo” 2014 della Fondazione Migrantes.

L’emorragia diventa più forte anno dopo anno. Nel 2012 gli espatriati erano circa 80 mila (78.941), ovvero oltre 15 mila “fuggitivi” in meno. E a ben vedere, non sono nemmeno tutti, perché la ricerca ha preso in considerazione soltanto chi si è registrato all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) per espatrio e non i moltissimi connazionali che non si sono iscritti al registro perché fanno ancora i “pendolari” con l’Italia oppure perché non ne sentono l’esigenza o se ne sono dimenticati.

L’identikit dell’emigrante made in Italy di questi anni è ben diverso da quello che ha caratterizzato i fenomeni migratori del Novecento. È di solito un giovane under 35 celibe residente al Nord con un buon livello di istruzione e in viaggio verso il Regno Unito. 

Tradotto in cifre, più della metà (56,3%) dei 94.126 che hanno lasciato il Paese nel 2013 sono uomini non sposati (nel 60% dei casi). Più di un terzo (36,2%) degli expat ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni. Seguono gli over 35, fino a 49 anni, che rappresentano un quarto (26,8%) della popolazione andata via.

Il fatto che queste due fasce d’età siano prevalenti dimostra un dato difficilmente contestabile: chi parte è spinto soprattutto dalla crisi, dalla disoccupazione o dal desiderio di trovare un’occupazione e una condizione esistenziale meno instabili. Dicono arrivederci (addio?) anche molte coppie, dal momento che la percentuale di minori che hanno preso la residenza all’estero è pari al 18,8% del totale degli espatriati.

La meta preferita dagli emigranti 2.0, scelta da oltre il 70% delle persone che vanno via, è la Gran Bretagna, con 12.933 nuovi registrati all’Aire. Londra, nonostante la sterlina e il costo della vita elevato, viene percepita quindi come la capitale europea delle opportunità. Al secondo posto c’è la Germania (11.731 nuove iscrizioni), seguita da due Paesi confinanti: la Svizzera (10.300) e la Francia (8.402).

Se città come Londra, Berlino e Parigi sono le destinazioni più gettonate, stupisce che il principale punto di partenza è la Lombardia: 16.418 persone (il 17,6% sul totale) si mettono in viaggio dalla regione più ricca d’Italia. Al secondo posto, ancora Nord: dal Veneto, infatti, le partenze sono state 8.743. Certo, tra questi ci sono anche persone che negli anni passati erano emigrate dal Sud. Ma è innegabile che non basta trovarsi nelle aree più produttive del Paese per scampare alle difficoltà e alla necessità di espatriare.
L’Italia fuori confine, insomma, cresce. Nel mondo sono 4.482.115 i cittadini italiani residenti all’estero iscritti all’Aire. Se fossero tutti nello stesso territorio sarebbero la sesta regione italiana con più abitanti, un gradino sopra l’Emilia Romagna. A questi ritmi, quanto passerà prima che la colonia di expat diventi la più popolosa di tutte?

mercoledì, ottobre 15, 2014

Contratto unico a tutele crescenti: come funzionerà


Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è diventato il pilastro del Jobs Act. In attesa che la legge delega venga approvata in Parlamento e che i decreti delegati ne definiscano i dettagli, alcuni tratti fondamentali della nuova formula sembrano aver trovato un accordo unanime. Il “contratto unico” si applicherà ai neoassunti, darà garanzie che aumentano con il passare del tempo e cancellerà, almeno per i primi tre anni, le tutele previste dall’articolo 18 per i licenziamenti dovuti a motivi economici.

Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è diventato il pilastro della riforma del mercato del lavoro che approderà nel Jobs Act. L’idea alla base è quella di modificare il contratto a tempo indeterminato facendo in modo che le garanzie per chi lavora aumentino in base all’anzianità di servizio.

Ma come funzionerà? Nella legge delega all’esame del Parlamento non ci sono ancora i dettagli, ma alcuni aspetti sembrano mettere d’accordo tutti. La nuova formula si applicherà ai neoassunti e sarà un contratto a tempo indeterminato che permetterà al datore di lavoro, nei primi trentasei mesi, di licenziare il lavoratore in ogni momento per motivi di carattere economico. 

Se l’imprenditore decide di interrompere il rapporto di lavoro durante i primi tre anni ha l’obbligo di corrispondere al lavoratore un’indennità in denaro che aumenta con il passare del tempo. Licenziare un dipendente costerà progressivamente sempre di più. Starà poi alla legge stabilire a quanto debba ammontare la compensazione per il dipendente. Si andrebbe da due a sei mesi di retribuzione. Ma per ora è soltanto un’ipotesi.

Nella fase di inserimento dei primi tre anni, quindi, l’unica tutela è l’indennizzo monetario (a meno che non si tratti di licenziamenti disciplinari e discriminatori). Se invece l’interruzione del rapporto di lavoro è per giusta causa, la compensazione monetaria non va riconosciuta.

Nel periodo di inserimento, il lavoratore viene tutelato dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio  e il licenziamento disciplinare considerato illegittimo (solo in alcuni casi gravi, che verranno definiti dai decreti delegati). In caso di licenziamento per motivi economici, invece, varrebbe soltanto la protezione dell’indennizzo. Al lavoratore verrebbero cioè riconosciuti da due a sei mesi di salario, a seconda del tempo passato in azienda, e non il reintegro sul posto di lavoro.

Ma cosa succederebbe dopo i primi tre anni? Su questo punto non c’è ancora accordo. Le ipotesi in campo però sono sostanzialmente tre. C’è chi vorrebbe fare in modo che, superata la fase di inserimento, anche il contratto unico venga regolato dalla stessa disciplina dei licenziamenti che vige oggi.

In altre parole, passati i tre anni, il lavoratore sarebbe di nuovo tutelato pienamente dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: nelle aziende con più di quindici dipendenti, un licenziamento riconosciuto dal giudice come illegittimo darebbe quindi diritto alla cosiddetta “tutela reale”, ovvero la reintegrazione in azienda.

L’ipotesi “hard” invece è quella che prevede l’abolizione della protezione dell’articolo 18: in caso di licenziamento (tranne quello discriminatorio  e quello disciplinare in alcune forme gravi), il dipendente avrebbe diritto soltanto a un indennizzo che cresce proporzionalmente all’anzianità di servizio. 
La terza possibilità in ballo - una via di mezzo tra le prime due - sarebbe quella di far valere la protezione dell’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (si parla di sei, dodici o quindici) oppure quando il dipendente raggiunge una certa età.

A differenza di altre tipologie contrattuali come l’apprendistato, il contratto unico potrebbe essere applicato a tutti e non solo agli under 30. In questo modo, il reinserimento per categorie come le donne dopo il periodo di maternità o gli over 50 sarebbe più semplice.

giovedì, ottobre 09, 2014

Massagli (Adapt) «La concertazione? Renzi l’ha archiviata definitivamente. Non vuole che i sindacati facciano politica»


Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione degli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi, commenta la scelta del premier di aprire un confronto con le organizzazioni sindacali prima del voto al Senato sul Jobs Act. «Ascoltare per un’ora i sindacati non significa riaprire l’era della concertazione ma semplicemente fare un atto di garbo istituzionale. Il presidente del Consiglio non ha interesse nei sindacati e fa in modo di relegarli alla loro funzione primaria: occuparsi delle questioni di lavoro tra aziende e lavoratori come la contrattazione di secondo livello, su cui il governo punta molto»

Tra Matteo Renzi e i sindacati la scintilla non è mai scoccata. Fin dai primi giorni a Palazzo Chigi, il premier non ha risparmiato frecciate alle organizzazioni sindacali. Le ha accusate di non essere in contatto con la realtà e – peggio ancora – di aver contribuito a creare un vero e proprio apartheid tra lavoratori tutelati e precari. Eppure, il giorno prima della fiducia in Senato sul Jobs Act, il disegno di legge delega che riforma il mercato del lavoro, il presidente del Consiglio ha convocato i sindacati per  un confronto.

Un gesto che equivale a reintrodurre la concertazione all’interno dello scenario politico? Secondo Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione per gli studi sul lavoro Adapt, non è così: l’epoca dei sindacati che fanno politica è finita. Il gesto del capo del governo sarebbe più che altro dovuto all’eleganza istituzionale e alla voglia di mettere tra le priorità il tema della contrattazione di secondo livello.

Il giorno prima della fiducia sul Jobs Act, Renzi ha riaperto la Sala Verde di Palazzo Chigi convocando i sindacati a discutere della riforma del mercato del lavoro. È ripartita la concertazione?
No, non è ripartita. Ed è molto probabile che la concertazione così come l’abbiamo conosciuta, ovvero quel concetto diffuso negli anni ’80 e ’90 in base al quale i sindacati sono legittimati a fare politica, sia definitivamente superato e archiviato. Il premier ha incontrato i sindacati per un’ora e le aziende per meno di un’ora: il tempo era poco. Più che un momento di confronto, è stato un momento informativo doveroso vista la portata degli interventi in approvazione sul lavoro. Ritengo che sia stato un passaggio voluto anche per eleganza istituzionale. E tra l’altro non mi sembra che le parti sociali al momento siano in grado di condizionare l’attività del governo.

Sembra però che nel testo in esame al Parlamento, alcuni temi spinosi come il superamento dell’articolo 18 e la riforma della disciplina dei licenziamenti siano stati “rinviati” ai decreti attuativi. Non sarà che qualche effetto l’incontro con Cgil, Cisl e Uil l’ha avuto?

Su questo tema c’è stata probabilmente confusione. È stato detto che nel maxiemendamento del governo non si parla di licenziamenti. Ma nella delega, di fatto, si fa riferimento all’introduzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e già in principio non era previsto esplicitamente il superamento dell’articolo 18. Le norme sui licenziamenti, nel dettaglio, saranno stabilite con i decreti attuativi. 

Qual è la sua previsione riguardo ai futuri rapporti tra il governo e le organizzazioni sindacali: come si evolveranno?
Francamente credo che il rapporto rimarrà scarso, se non nullo, anche nei prossimi mesi e durante la redazione dei decreti attuativi che concretizzeranno il Jobs Act. Matteo Renzi non ha interesse nei sindacati, non crede al loro impatto, non teme la piazza. Al massimo, teme la sua minoranza in Parlamento. Se non altro perché vota e il Jobs Act deve necessariamente essere approvato nelle due Camere.

Tra i temi all’ordine del giorno c’è stato anche “l’ampliamento della contrattazione decentrata e aziendale”. Perché tanta attenzione sul tema? Quanto è vantaggioso, per le imprese e i lavoratori, potenziare la contrattazione di secondo livello?
Come Adapt abbiamo un’osservatorio sulla contrattazione di secondo livello. A marzo pubblicheremo primo rapporto, in cui intendiamo dimostrare, contratti alla mano, che in Italia di contrattazione aziendale se ne fa già tanta di buona qualità e che è uno strumento che permette di affrontare meglio la crisi. Le aziende che hanno attivato una contrattazione di secondo livello reale sono più capaci di fronteggiare la recessione senza ledere i diritti di nessuno e con modalità intelligenti.

Come si spiega il sostegno che Renzi continua a dare al tema?
Probabilmente deriva dall’intenzione di “relegare” il sindacato nel suo ambito originario: la gestione deille questioni di lavoro. Partendo dalla concezione per cui è tanto più facile rispondere ai bisogni quanto più si è vicini ai bisogni, Renzi non sopporta politicamente che il sindacato parli per tutti e voglia dire la sua sulla politica economica a livello nazionale. L’idea di sostenere il livello aziendale è coerente con questa sua logica. E allo stesso modo lo è il sostegno a una legge sulla rappresentanza e al salario minimo: contribuisce a spostare il sindacato verso una dimensione tecnica, subordinata alla politica, in cui queste organizzazioni diventano fondamentali soltanto per interagire con le aziende e per affrontare le questioni lavorative che si pongono di volta in volta.