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mercoledì, marzo 25, 2015

Personal branding, ecco perché è importante per trovare lavoro Intervista a Francesca Parviero

Curare e promuovere la propria identità professionale online è fondamentale per mettere in luce le proprie competenze e generare interesse nelle persone che possono interagire con noi. Synforma ne parla con Francesca Parviero, social media HR strategist e official talent partner EMEA di LinkedIn. «È un metodo molto efficace per incontrare opportunità inaspettate»



Il personal branding, ovvero la cura e la promozione della propria identità professionale online (ma anche offline), è diventato uno strumento fondamentale per trovare lavoro, soprattutto nellambito delle professioni creative. Per capire meglio perché è importante abbiamo sentito Francesca Parviero, unesperta di risorse umane molto attenta alle dinamiche dei social media e del mondo digitale.

Francesca lavora come consulente per le aziende che vogliono sviluppare progetti digitali in ambito HR e dal 2012 collabora con LinkedIn come official talent partner.

Francesca, cosa significa personal branding? Qual è la definizione che daresti a questattività?

È quella dinamica, anche implicita, che ciascuno di noi attiva nel proprio target di riferimento quando persuadiamo il nostro pubblico, eticamente, a proposito di ciò che possiamo fare per loro. Si tratta del modo in cui comunichiamo online chi siamo e cosa possiamo fare.

Cosa intendi per eticamente?
Comunicare in modo significa far arrivare a tutti chi sei senza dire bugie e senza virtuosismi da overselling. Le balle, in rete, vengono identificate facilmente.

Come si coltiva il personal branding?

Si possono fare una serie di esercizi, anche offline, in modo da far emergere ciò che si sa fare, capire per chi lo si fa e in che termini si cambia qualcosa nelle persone per cui lo si fa. Il focus del personal branding deve essere sempre quello di far capire ciò che ciascuno può muovere. Si tratti di emozioni, numeri e budget.

Che regole si devono seguire?

Proviamo a identificarne qualcuna. La prima è la chiarezza. La prima domanda che ognuno dovrebbe porsi per curare il proprio personal branding è: se qualcuno mi cerca online riesce a capire chi sono e che tipo di professionalità ho? Ecco perché la chiarezza è importante. Bisogna far comprendere ciò che si sa fare meglio e che impatto ha questa competenza sul proprio potenziale target.

Essere chiari, quindi. E poi?
La seconda regola è differenziarsi, far emergere le proprie caratteristiche. Bisognerebbe chiedersi: perché dovrebbero scegliere me? E a quel punto occorre regolarsi di conseguenza, ma senza inventarsi niente. Bisogna imparare a darsi sostanza. È questo che genera opportunità.


Concretamente come ci si differenzia?
Bisogna mettere in luce le proprie parole chiave, in tutte le informazioni che ci sono online, dalle bio alle descrizioni su Twitter. Anche qui, c’è una domanda da porsi: con quali parole cercherebbero una professionalità come la mia? E a quel punto bisogna inserire quelle keywords in tutte le proprie descrizioni online.



Chiarezza, differenziazione, parole chiave. Cosa si può aggiungere?
C’è un altro aspetto importantissimo. Se si parla di personal branding online, si parla essenzialmente di social media e di reti sociali. E le reti funzionano quando le persone fanno interazioni. Quindi, prima di chiedersi quali opportunità mi sono arrivate dagli altri? bisognerebbe porsi la domanda opposta: quali opportunità ho favorito agli altri?. E cominciare a favorirle. Così come nella vita offline, non puoi chiedere se non hai mai dato a nessuno. Un esempio? Prima di chiedere recommendation su LinkedIn, cominciamo a darle. Solo con un comportamento virtuoso si può generare un comportamento virtuoso. Ma attenzione: non bisogna fare qualcosa aspettandosi subito qualcosa in cambio. Bisogna farlo perché il meccanismo di networking funziona così e solo alimentandolo può portare frutti.

Ma alla fine che importanza ha il personal branding nella ricerca di lavoro?

Parto dalla mia esperienza personale: fare personal branding ha generato molte opportunità di lavoro che non avevo neanche immaginato e che non mi aspettavo. In sintesi: è un modo efficace per incontrare possibilità impreviste. Raccontarsi online non significa raccontare solo una parte di se stessi ma comunicarsi nella propria interezza. Emerge il modo in cui fai le cose, il modo in cui ti differenzi dagli altri. Anche senza porsi un obiettivo preciso, si può generare interesse in molte persone. E da questo interesse scaturiscono contatti e opportunità di lavoro.

Ci fai qualche esempio?
Io stessa, per il semplice fatto che curavo un blog, una volta sono stata accolta in unazienda quasi come una rockstar. Chi lavorava lì mi diceva: qui in ufficio ti seguiamo tutti. Eppure, io non avevo la percezione, come blogger, dellinteresse che potevo creare in alcune persone. Oppure, per fare esempi più noti, posso citare quegli imprenditori che associano il proprio nome allazienda facendo in modo che il proprio brand personale desse risalto a quello aziendale. Un nome? Oscar Farinetti di Eataly. Ha costruito unottima rete di relazioni, non solo online. La utilizza e la spende benissimo. Fa conoscere persone al pubblico, parla bene degli altri. Leggendo i suoi libri si viene a sapere di molte persone che lavorano con lui. È così che si fa rete. Questo è un ottimo modo di fare personal branding.


Tu ti occupi anche di percorsi specifici per donne. C’è un personal branding al femminile?
Per le donne ho pensato a She Factor, un percorso di sviluppo delle proprie competenze legato al personal branding. Non è che le donne abbiano bisogno di fare personal branding in modo specifico. Di fatto, però, è nellindole delle donne parlare di sé dal punto di vista professionale. Noi donne pecchiamo di scarsa valorizzazione delle nostre competenze, tendiamo a restare dietro le quinte. Già le posizioni di vertice e di responsabilità per le donne sono sempre di meno, anche a causa di una cultura che penalizza ancora le donne. Le donne quindi non dovrebbero contribuire a creare questo clima valorizzandosi. Così, è nato questo percorso online, che coinvolge 1.300 donne in tutta Italia, ma anche allestero, in cui si condividono stimoli, riflessioni ed esercizi pratici a partire dal personal branding. È un modo per prendere consapevolezza di sé. Sperando che in un secondo momento si possa fare un percorso comune, con gli uomini, in cui fare progetti insieme e aiutarli a comprendere bene da dove partono le discriminazioni che penalizzano lidentità e la professionalità delle donne.

martedì, ottobre 21, 2014

La ricerca di lavoro? Social, ma non troppo


Più della metà delle attività di recruiting si svolge, a livello mondiale, su piattaforme come Linkedin, Facebook e Twitter. A fine 2014 la percentuale arriverà al 61%. Eppure, secondo un’indagine condotta su 1.500 recruiter di 24 Paesi e 17 mila persone in cerca di impiego soltanto il 7% dei candidati riesce a trovare un’occupazione affidandosi ai social media. Incide anche la scarsa attenzione posta sulla web reputation: il 25,5% dei selezionatori ammette di aver scartato alcuni profili solo perché sulle loro pagine social personali comparivano foto imbarazzanti o commenti fuori luogo


Trovare lavoro attraverso i social network è più facile? Se si prendono in considerazione i risultati di una ricerca svolta a livello internazionale su 1.500 recruiter di 24 Paesi (di cui 269 italiani) e 17 mila persone in cerca di impiego, la risposta sembra inequivocabile: no.

In buona sostanza, secondo lo studio, il social recruiting è una prassi molto diffusa tra i selezionatori ma alla fine è meno efficace del previsto per quanto riguarda la possibilità di far incontrare domanda e offerta di lavoro.

Nel 2014, soltanto sette candidati su cento hanno infatti reperito un posto grazie a Linkedin, Facebook, Twitter e simili. Certo, nel 2013 non andava meglio, dal momento che solo il 2% di chi andava alla ricerca di un’occupazione ci riusciva utilizzando le piattaforme sociali.

Eppure, stando ai dati del rapporto, curato da una multinazionale del settore HR e Università Cattolica di Milano, più della metà delle attività di selezione del personale (il 53%) si concentra ormai sulla rete e, in particolare, sui social media. E tanto per avere un’idea del trend, la percentuale del recruiting compiuto su Linkedin e co. sarà entro fine anno del 61%. Per esempio, chi si rivolge ai centri per l’impiego è dunque una minoranza.

La fiducia nel potere di Internet è quindi alta. In Italia, quest’anno, su un campione di 7.600 interpellati a caccia di un’occupazione, due su tre (il 67%) hanno affermato di utilizzare i social media come canale prioritario per la ricerca (rispetto al 2013 si registra una crescita del 14%) e il 56% ha anche pubblicato su queste piattaforme il proprio curriculum vitae (l’anno scorso la percentuale era del 30%).

Il luogo privilegiato per il collocamento, a prescindere dai risultati, sta diventando quindi la socialsfera. La piattaforma preferita per la ricerca professionale? Linkedin, scelto come prima risorsa online da quattro candidati su dieci (41%). Al secondo posto c’è un social più personale come Facebook, che raccoglie il 23% delle preferenze.

Le categorie che si affidano di più al web per individuare i profili più adatti sono quelli più legati al rapporto con i clienti: nelle vendite, il 54,2% delle professionalità vengono cercate così; nel marketing siamo al 40,8%. Altro settore che punta sui social per fare reclutamento è quello relativo ad amministrazione e finanza (45,8%). I servizi, insomma, vanno per la maggiore.

Ma, come abbiamo detto, solo il 7% delle persone che cercano un’occupazione riescono a trovarla grazie ai social. A cosa sono dovute queste percentuali così basse? Un elemento che incide è la cosiddetta web reputation, ovvero la reputazione che gli utenti si costruiscono sui social in base ai contenuti che diffondono.

Soprattutto su Facebook, che si presta particolarmente bene al racconto di fatti e opinioni personali, basta una frase fuori luogo, un commento sgradevole o un’esplicitazione delle proprie inclinazioni politiche a condizionare i selezionatori più di quanto possano fare mille curricula.

Le esperienze professionali e la carriera formativa contano, certamente. Ma più del 25% di chi si occupa di recruiting dichiara di aver cestinato cv e messo una x su un candidato solo per fotografie e prese di posizione pubblicate sulle pagine social personali.

A ogni fotografia goliardica in più, magari con una bottiglia di vino in mano, corrisponde una chance in meno di essere assunti. Il tutto, con buona pace dei responsabili delle risorse umane delle aziende: scartare i candidati per questi motivi non lascia spazio ad alcun senso di colpa.