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venerdì, gennaio 16, 2015

Disoccupazione giovanile al 43,9%, mai così alta. Più di un giovane su dieci è senza lavoro



Gli ultimi dati provvisori Istat restituiscono un quadro sempre più allarmante per quanto riguarda la situazione dell’occupazione in Italia. A novembre 2014, il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni è arrivato al 43,9%, il livello più elevato da quando esistono le serie storiche (1997). Il tasso di disoccupazione generale ha raggiunto il 13,4%: i senza lavoro sono 3 milioni e 457 mila. Cala il numero di occupati (22 milioni e 310 mila, - 48 mila rispetto al mese precedente) e il tasso di occupazione, pari al 55,5%.
Sale, sale, sale. E sembra che non ci sia nulla in grado di fermarlo. Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è aumentato ancora. A novembre 2014 ha raggiunto il 43,9%, 0,6 punti percentuali in più rispetto al mese precedente e 2,4 punti in più rispetto al novembre 2013.  A rilevarlo è l’Istat nelle stime provvisorie. Si tratta della percentuale di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni più alta dall’inizio delle serie storiche, cioè dal 1977, e da quello delle serie mensili (2004).
È un contesto in cui anche la disoccupazione generale fa registrare dati allarmanti. Il numero di disoccupati è pari a 3 milioni e 457 mila, l'1,2% rispetto al mese precedente (40 mila unità in più) e l’8,3% in più rispetto al novembre 2013 (264 mila in più). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,4% (+0,2% rispetto a ottobre e +0,9% su base annua).

In questo quadro, gli under 25 che non riescono a trovare lavoro sono 729 mila, con un’incidenza del 12,2% rispetto alla loro fascia d’età, in lieve aumento rispetto al mese precedente (+0,3%) e in crescita di 1,1 punti percentuali sui dodici mesi.

Un giovane su dieci è disoccupato, quindi. Come precisa l’Istat, il tasso di disoccupazione giovanile è calcolato come la quota di giovani senza lavoro sul totale di chi lavora o è in cerca (gli attivi). Non è corretto pertanto dire, come spesso accade, che due under 25 su cinque sono disoccupati.
Il numero di giovani inattivi è pari a 4 milioni 304 mila, in calo dello 0,5% rispetto al mese precedente (-22 mila) e del 2,1% nei dodici mesi (-93 mila). Il tasso di inattività della fascia 15-24 anni è pari al 72,1%, diminuisce di 0,3 punti percentuali nell’ultimo mese e di 1,1 punti rispetto al 2013.

Se invece si fa riferimento agli inattivi tra i 15 e i 64 anni, il numero cala dello 0,1 rispetto a ottobre e del 2,2% rispetto a dodici mesi prima. Il tasso di inattività, pari al 35,7%, rimane invariato rispetto al mese precedente e scende di 0,7 punti su base annua.
La situazione non è serena neanche per quanto riguarda il tasso di occupazione, che è pari al 55,5%, scende di 0,1% rispetto al mese precedente e resta invariato rispetto a dodici mesi prima. A novembre gli occupati erano 22 milioni 310 mila, 48 mila in meno rispetto a ottobre (-0,2%) e 42 mila rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-0,2%).

Le cifre diventano sempre più marcate. Così nette che a volte rischiano di non fare neanche effetto su chi le osserva. Di mese in mese, salvo alcune eccezioni, il quadro peggiora anziché migliorare. A volte, per trovare delle statistiche incoraggianti, è necessario forzare la lettura dei numeri mettendo in evidenza solo i dati positivi. In questo caso, nessun gioco di prestigio. Nessuna illusione ottica. La situazione del lavoro in Italia sembra la più cupa degli ultimi anni.

lunedì, gennaio 12, 2015

Annunci di lavori ben pagati in Francia targati Synergie? Occhio alla truffa



Nel mese di dicembre Synergie Italia ha ricevuto centinaia di segnalazioni di annunci di lavoro online sul portale bakeca.it in cui venivano offerte posizioni lavorative in Francia. Agli annunci seguivano mail in cui si chiedeva ai candidati di inviare somme di denaro tra 90 e 150 euro a una persona che si autodefiniva collaboratore di Synergie per andare a Parigi e sostenere un colloquio preliminare. Si trattava di un’operazione di cui Synergie era totalmente all’oscuro e che ha raggirato una decina di persone che hanno effettuato il pagamento richiesto. Se queste offerte dovessero ripresentarsi, segnalatecele e non cadete nella trappola

A leggerli, sembravano normali annunci di lavoro online. Offrivano posizioni nell’ambito dei servizi. Prevedevano un luogo di lavoro identificabile. E promettevano anche ottimi compensi. Peccato che si trattava di una serie di potenziali truffe che ha avuto come destinatari centinaia di candidati italiani e che ha coinvolto il nome di Synergie, soggetto completamente estraneo a questa vicenda.

Vediamo più nel dettaglio in cosa è consistito il raggiro per evitare che altri possano cascare nella trappola.
Dai primi giorni del mese di dicembre 2014 fino alla vigilia di Natale, Synergie Italia ha ricevuto un centinaio di segnalazioni da parte di persone che avevano letto alcuni annunci di lavoro pubblicati sul sito bakeca.it che riguardavano impieghi di vario genere, soprattutto nel settore dei servizi (autotrasportatori, guardie armate, addetti agli skipass, addetti alla logistica). Il luogo di lavoro, per tutte le posizioni offerte, era la Francia.

Gli annunci erano sostanzialmente anonimi. Non erano indicati cioè nomi o indirizzi mail da contattare. L’unica possibilità di comunicare con chi aveva pubblicato le offerte era quella di candidarsi, compilando con i propri dati un modulo presente sulla piattaforma online.

Le persone che hanno sottoposto la propria candidatura hanno ricevuto nel giro di qualche giorno una lunga e-mail che spiegava meglio in cosa consisteva la posizione offerta. Il mittente era tale signor Falbo, a suo dire collaboratore di Synergie S.A. (la casa madre di Synergie, in Francia), e nel testo dell’e-mail garantiva lauti stipendi per ciascuno degli impieghi proposti, menzionava diverse filiali di Synergie, e utilizzava parti intere delle presentazioni presenti sul sito internet di Synergie.

Era incluso anche un numero telefonico francese da chiamare per ulteriori informazioni. Fin qui, a una lettura disattenta poteva effettivamente sembrare il messaggio di una persona che lavorava nel ramo delle risorse umane.

L’ultima parte dell’e-mail però lasciava spazio a sospetti: era a questo punto del testo che si poteva fiutare la probabile truffa. Il mittente chiedeva infatti il pagamento di una cifra variabile tra 90 e 150 euro, da versare tramite bonifico con Western Union, per far fronte a non meglio precisate pratiche burocratiche.

Davanti alle segnalazioni di persone insospettite, alcuni membri del team di Synergie Italia si sono finti candidati per capire meglio il funzionamento del meccanismo. Una volta verificato che si trattava di un’operazione di cui Synergie – lo ripetiamo – era totalmente all’oscuro, hanno risposto tempestivamente alle richieste di informazioni dissuadendo tutti dal versare denaro. In più, hanno avvertito sulle pagine social e sul sito aziendale (www.synergie-italia.it/notizie/138-probabile-truffa) dell’esistenza di un possibile raggiro.

Chi non ha letto l’avviso e ha effettuato il pagamento – una decina di persone – ha ricevuto un contratto fasullo e un falso biglietto aereo per raggiungere Parigi in data 5 gennaio 2015 e sostenere un incontro preliminare all’avvio dell’attività lavorativa.

Il luogo fissato per i colloqui era una filiale Synergie di Parigi, dove gli impiegati non sapevano nulla delle posizioni offerte negli annunci ma erano stati avvertiti dell’inganno. Nonostante avesse verificato che il biglietto era finto, un candidato è andato comunque nella capitale francese a proprie spese per partecipare a questo fantomatico incontro. Sono stati proprio gli impiegati parigini a dire del tranello al malcapitato.

Invitiamo chi dovesse imbattersi in annunci di lavoro e in e-mail in cui il nome e il marchio Synergie Italia sono accostati a richieste di denaro e/o a pratiche sospette a non “abboccare” e a segnalare ogni incongruenza all’indirizzo e-mail selezione.web@synergie-italia.it Non fatevi truffare.

lunedì, dicembre 01, 2014

Stage: cosa cambia in Europa tra un Paese e l’altro


Un rapporto curato dalla Commissione europea mette a confronto il quadro normativo su stage e tirocini (e, in alcuni casi, apprendistati) nei Paesi membri dell’Unione. I tratti comuni sono molti, a cominciare dal fatto che il numero di stage attivati cresce di continuo e che ci sono almeno cinque tipologie ricorrenti. Altri aspetti piuttosto uniformi sono il basso (o nullo) compenso riservato ai tirocinanti e le degenerazioni presenti in alcuni settori come le agenzie creative e i media. Ma al di là degli elementi negativi c’è ovunque la consapevolezza che si tratti di uno strumento prezioso per avvicinare scuola e lavoro

Stage, tirocini, internship. Come sono in Europa? Cosa cambia tra uno Stato e l’altro? Una possibile risposta a queste domande la fornisce una ricerca della Commissione europea  condotta in tutti i Paesi membri (manca solo la Croazia, ultima arrivata, ma lo studio risale a due anni fa).

L’indagine è stata realizzata dal centro di ricerca britannico Ies, dall’italiano Irs (Istituto per la ricerca sociale) e dal tedesco Bibb e mette a confronto gli ordinamenti sui tirocini dei 27 Stati Ue, dedicando a ciascuno di essi uno specifico approfondimento.

Dalla sintesi iniziale è possibile capire quali siano i trend comuni in Europa riguardo al tema stage, a cominciare dal fatto che l’informazione relativa all’argomento non è omogenea in tutti i Paesi: le fonti, quindi, sono di vario tipo.

Lo studio parte con il catalogare le varie forme di stage reperibili nel Vecchio Continente. Ne individua cinque: stage curriculari, ovvero legati al percorso formativo, universitario e non; tirocini post-laurea finalizzati all’ingresso nel mondo del lavoro; percorsi inseriti all’interno di programmi di politiche attive per il lavoro; quelli necessari per ottenere una qualifica; internship offerti da vari programmi internazionali, tra cui il Leonardo.
Alcuni aspetti valgono in tutti i Paesi membri. Il primo è proprio la proliferazione dei tirocini, a cui è seguita una serie di azioni per disciplinarli, orientarli e dotarli di regole più ferree.  Un altro elemento comune riguarda il compenso, spesso scarso o addirittura assente, per questa tipologia di formazione/lavoro.

Quando ci sono, i fondi a disposizione per finanziare queste forme di accesso al lavoro derivano quasi sempre da fondi europei, nazionali e regionali, borse di studio universitarie, bandi pubblici oppure iniziative di privati e aziende. Altrimenti, il tirocinante è costretto ad autofinanziarsi l’esperienza di stage

Grosse differenze si riscontrano riguardo alle definizioni di stage e di tirocinante. Nella maggior parte degli Stati membri c’è persino una definizione legale e di solito mette in relazione strettissima la formazione e il lavoro. Sintetizzando viene definito come un’esperienza che ha fini educativi/formativi, è legata all’apprendere un mestiere, una professione o una competenza e ha carattere temporaneo.

Così come non esiste una definizione omogenea e condivisa, non si può individuare neanche una normativa comune. E la discrepanza non è solo tra Stati ma anche tra varie forme di stage. Quelle più legate alla formazione o alle politiche attive per il lavoro tendono a essere le tipologie con il quadro normativo più solido. Mentre gli stage attivati liberamente sul mercato sono di solito meno regolati. Le norme relative agli stage si trovano in leggi e regolamenti che afferiscono tanto alla legislazione sul lavoro che a quella sull’istruzione.

Va notato – si sottolinea nell’indagine – che la presenza di leggi e regole non è una garanzia di qualità dello stage. È necessaria una corretta applicazione delle norme e un attento monitoraggio dell’intero processo. Anche se – precisa il rapporto – un dato positivo è costituito dal fatto che nelle varie normative nazionali tendano a essere approvate leggi che migliorano le condizioni degli stagisti.

 I settori in cui è più facile che vengano attivati degli stage sono: quelli in cui è necessario un periodo di tirocinio (o di apprendistato, a seconda dei casi) per accedere alla professione (medicina, legge, insegnamento, architettura), i media, il giornalismo, le agenzie creative, il settore pubblico, il terzo settore, l’ospitalità e i servizi finanziari.

In alcuni di questi comparti – soprattutto agenzie creative, media e giornalismo – gli stage sono generalmente associati a: bassi contenuti di apprendimento, condizioni di lavoro insoddisfacenti, rimborsi/compensi inadeguati, contratti di stage rinnovati di continuo senza un’offerta di lavoro permanente. Inoltre, in questi contesti, non è raro vedere stagisti che vengono “assunti” al posto del personale regolare.

Ma al di là degli elementi negativi e delle distorsioni, c’è una consapevolezza comune, in Europa, secondo cui stage, tirocini (e apprendistati, laddove queste forme vanno a coincidere) sono uno strumento importante per facilitare la transizione dalla scuola al mondo del lavoro.

mercoledì, novembre 26, 2014

5 o 12 dicembre? Il caos scioperi, le mobilitazioni incrociate e la questione del “ponte”


La decisione della Cgil di convocare lo sciopero generale il 5 dicembre ha suscitato molte polemiche. «Il giorno è stato scelto per approfittare del ponte dell’Immacolata», è stata la critica più diffusa. In più, l’Autorità garante per gli scioperi ha definito «parzialmente illegittima» la mobilitazione in quella data. Anche per questi motivi, lo sciopero generale è stato rinviato al 12 dicembre. Ma anche in questo caso, ci sarebbero problemi e sovrapposizioni con altre manifestazioni

Di questo passo potrebbero chiamarlo Scioperogate. È tutta la bagarre di critiche che si è scatenata intorno alla decisione della Cgil – già abbandonata – di convocare per il 5 dicembre lo sciopero generale contro il Jobs Act e il governo Renzi.

La mobilitazione, che ora è stata fissata per il 12 dicembre, aveva scatenato polemiche da più parti per la scelta, giudicata infelice, del giorno. La prima data individuata – il 5 dicembre – poteva infatti dare ai lavoratori quattro giorni di astensione dal lavoro.

Infatti, come sintetizzato su Twitter dal responsabile innovazione e pubblica amministrazione del Partito democratico, Ernesto Carbone: «Il 5 dicembre è un venerdì poi sabato, domenica e lunedì 8 dicembre che è festivo… Il ponte è servito #Coincidence». L’accusa, neanche tanto velata, è di aver fatto cadere inizialmente la scelta sul 5 per approfittare del ponte dell’Immacolata.

La risposta della Cgil, sempre sul sito di microblogging, è stata piccata: «I lavoratori quando scioperano perdono una giornata di paga». E ancora: «Lavoratori, pensionati, disoccupati, precari sono in forti difficoltà economiche e di prospettive. Per questo scioperano», ha scritto il sindacato.

La confusione si è creata anche perché interrompere servizi e trasporti proprio prima di un periodo così lungo avrebbe potuto causare disagi prolungati. Non a caso, la scelta del sindacato guidato da Susanna Camusso è stata criticata anche dall’Autorità garante degli scioperi, secondo la quale la manifestazione sarebbe stata «parzialmente illegittima» in base alle leggi che regolano gli scioperi e le interruzioni dei servizi pubblici. Almeno l’intero settore ferroviario e il trasporto pubblico locale – aveva specificato il garante degli scioperi – avrebbero dovuto garantire il servizio.

Così, lo sciopero generale è stato convocato appunto per il 12 dicembre e ad esso ha aderito anche la Uil. Ma anche in questo caso, secondo quanto riferito da Huffington Post, l’Autorità degli scioperi avrebbe parlato di «parziale irregolarità», perché per il 13 e il 14 dicembre è stato già indetto uno sciopero dei trasporti ferroviari dal sindacato CAT (Coordinamento Autorganizzato Trasporti).

Non si possono, per legge, fare scioperi nello stesso settore a un intervallo inferiore ai dieci giorni: in questo caso, potrebbe quindi trattarsi di una violazione, alla quale potrebbero seguire delle sanzioni irrogate dallo stesso garante degli scioperi. Una piccola baraonda, insomma. Che è resa ancora più agitata dal fatto che l’Ugl, il sindacato ritenuto “di destra”, aveva già fissato uno sciopero generale per la fatidica data del 5 dicembre e ha dovuto anch’esso rinviare al 12.

E allo stesso tempo, la Cisl, pur non partecipando allo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 12 ha fatto sapere che i lavoratori pubblici della sua confederazione incroceranno le braccia l’1 dicembre e a questo sciopero generale del settore pubblico ha aderito anche la Uil. Se partecipasse anche la Cgil, farebbe due scioperi generali, uno del pubblico e uno di tutti i settori, a distanza di un paio di settimane. Più che un autunno caldo sembra un autunno, anzi un inverno, piuttosto caotico.

lunedì, novembre 17, 2014

Dall’infermiere che picchia il paziente al lavoratore che mostra i genitali Quando il reintegro in base all’articolo 18 è un paradosso



L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevede, stando così le cose, la possibilità di essere reintegrati sul posto del lavoro in caso di licenziamenti considerati illegittimi per motivi discriminatori, disciplinari ed economici. Da forma di tutela per il lavoratore, questo strumento si trasforma in taluni casi in trappola per il datore di lavoro. A dimostrarlo sono alcune storie di reintegrazioni paradossali e controverse ordinate da giudici forse un po’ troppo benevoli verso chi lavora. All’interno del saggio collettivo “Art. 18: la reintegrazione al lavoro”,  il giuslavorista Andrea Del Re ne ha raccolte di particolarmente “gustose”: il lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini, l’ubriaco cronico, il vigile del fuoco rapinatore. Tutti riammessi sul posto del lavoro in nome di un diritto che, in queste circostanze, confligge con un principio altrettanto sano: il dovere di lavorare onestamente


L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è uno dei nodi principali intorno al quale convergono i conflitti tra governo, sindacati e minoranza parlamentare. Il Jobs act targato Renzi, se sarà approvato in entrambe le Camere, dovrebbe abolire la parte che prevede il reintegro dei lavoratori in caso di licenziamenti per motivi economici considerati illegittimi. La possibilità di essere riammessi in azienda resterebbe invece per i licenziamenti discriminatori e quelli legati a determinate questioni disciplinari gravi.

Ma l’istituto del reintegro ha ancora senso nel nostro mercato del lavoro, dove solo 6,5 milioni di lavoratori su 22 sono tutelati dall’articolo 18? La risposta a questo quesito non può che essere diversa a seconda dei punti di vista. Un aspetto che però merita di essere preso in considerazione riguarda la casistica dei reintegri ordinati dai giudici da quando questo strumento esiste. Accanto a quelli sacrosanti, imposti laddove il datore di lavoro aveva licenziato senza giusta causa (o senza giustificato motivo) un dipendente, ce ne sono altri quantomeno discutibili.

Alcuni esempi di reintegri difficili da digerire sono stati raccolti dal giuslavorista Andrea Del Re nel saggio collettivo Art. 18: la reintegrazione al lavoro, curato da Massimo Bornengo e Antonio Orazi (Esculapio, 2012, 120 pagine, 20 euro). Del Re le definisce le “perle” dell’applicazione dell’articolo 18.

A partire dalla vicenda di un infermiere che picchiò un paziente affetto da ritardo mentale ma il giudice (Tribunale di Roma, ottobre 2001) impose alla clinica di riammetterlo nel posto del lavoro perché si era trattato di «un fatto isolato ed eccezionale in relazione a un paziente particolare». La giustificazione diventa ancora più particolare quando il tribunale afferma che «l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni non può giustificare quella che rimane un’estrema ratio». Lo choc della casa di cura, soprattutto in relazione all’immagine presso gli altri pazienti, fu tanto che acconsentì a dare un risarcimento salatissimo all’infermiere pur di non riaverlo alle sue dipendenze.

In Toscana, nel 2003, un tribunale arrivò a giustificare un tentativo di rapina in banca operato da un vigile del fuoco. Secondo il magistrato, evidentemente esperto di cinema, le circostanze in cui era avvenuto il fatto non erano tali da «ricondurre il delitto alla tipologia di quello ideato in Rapina a mano armata, di Stanley Kubrick, risalente al lontano 1956». Nella sentenza si legge poi che è importante «richiamare l’attenzione sulla concreta, differenziata, pericolosità sociale che un delitto, al di là del suo nome, si presta a rivelare, e spesso insufficiente, senza conoscere la storia della persona». Cioè, il tentato furto non era sufficiente per rilevare la complessità della persona che lo ha complesso e comunque non così grave da fargli perdere il posto di lavoro.



Neanche gli atti a sfondo sessuale sono sempre considerati abbastanza gravi da far pendere la bilancia da parte del datore di lavoro. Il pretore di Bolzano nel 1982 ha reintegrato sul posto di lavoro un lavoratore che aveva mostrato due volte i genitali ai colleghi, con l’attenuante che l’atto non era dettato da istinti sessuali e che non era rivolto a persone di sesso femminile.

La discriminante, quindi, è il genere? No, perché un altro esibizionista che si è reso colpevole dello stesso tipo di molestia davanti a una collega è stato “graziato” e reintegrato da un magistrato di Milano nel 1995, che ha ritenuto il fatto sicuramente degno di condanna ma il provvedimento disciplinare connesso – il licenziamento, appunto – sproporzionato alla gravità dell’illecito.

Un caso che ha fatto storia è quello dell’alcolista cronico reintegrato. Il grande giurista Giuseppe Pera la definì la «sentenza dell’ubriaco fisso». La Cassazione – si legge nel saggio di Del Re – arrivò a dire che «nel rapporto di lavoro subordinato, l’assenza dal servizio e l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione della medesima non possono costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento quando son dovute, non già a stati di ubriachezza, bensì ad un danno cerebrale, costituente l’esito  della prolungata assunzione dell’alcol e dei suoi effetti» (Cass. n.1314/1997). Per sintetizzare il paradosso, l’autore esclama: «Insomma, se ti ubriachi una volta e sei assente, puoi rischiare; se di contro ormai sei “ubriaco fisso” (come dice il Pera) sei giustificato».

Di reintegri così controversi il saggio è pieno: dal lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini corti all’uomo che picchia il collega con un tubo di ferro, dal dipendente che affigge sul muro manifesti contro la sua azienda (giustificati in quanto stampati dal partito politico al quale il lavoratore aderisce) all’impiegato burlone che fa arrivare merce non richiesta a casa del direttore generale della sua azienda mettendo firme false (uno «scherzo goliardico» non punibile con il licenziamento).

Il colmo forse si raggiunge con quello che negli ambienti di lavoro è un malcostume piuttosto diffuso. Cioè, il lavoratore che si assenta per malattia e poi svolge un secondo lavoro. Il pretore di Viareggio reintegrò sul posto di lavoro un uomo che aveva svolto attività lavorativa durante il periodo di malattia perché – recita la sentenza – «nessun danno ha arrecato al datore di lavoro». Il secondo lavoro era anzi perfino necessario «in quanto la suddetta malattia richiedeva oltre che le cure anche la necessità del lavoratore di vivere con familiari e amici e di trovare interesse nell’ambiente esterno, cosicché l’attività svolta era compatibile con lo stato di malattia la cui guarigione non solo non è stata ritardata, ma è stata anche accelerata». Insomma – chiosa ironicamente Del Re – «ammalatevi, lavorate altrove, guarirete prima!».