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lunedì, novembre 10, 2014

Tiraboschi (Adapt): «Il disallineamento tra domanda e offerta? Crea una situazione in cui le aziende non hanno personale che le aiuti a generare nuovo lavoro»


Lo skill mismatch, ovvero lo squilibrio tra domanda e offerta di lavoro, riguarda tra il 25 e il 45% della forza lavoro in Europa. Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione per gli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi Adapt, spiega perché è un problema anche in Italia e cosa si dovrebbe fare per colmarlo

Lo chiamano skill mismatch. In italiano, disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Si verifica quando un lavoratore è sovra o sotto qualificato rispetto al lavoro che svolge. Stando a una ricerca dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, in Europa tra il 25 e il 45% della forza lavoro ha troppe o troppo poche competenze rispetto a quelle richieste dai datori di lavoro.

Secondo Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore dell’associazione per gli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi Adapt, il disallineamento tra domanda e offerta è una delle cause dell’alta disoccupazione, soprattutto giovanile, in Italia. Gli abbiamo chiesto perché.

Professore, si parla spesso di disallineamento tra domanda e offerta di lavoro: qual è lo scenario in Italia?
Manca un sistema di incontro. Le nostre università costruiscono percorsi non allineati ai fabbisogni del mercato e non in funzione dell’evoluzione delle tecnologie. Così, i giovani, anche se prendono bei voti, non riescono a trovare un’occupazione. Il mercato continua chiedere figure professionali scientifiche e tecniche, mentre il nostro sistema di orientamento, comprese le famiglie, spinge i nostri ragazzi verso i licei e verso i percorsi umanistici come se fossero l’unica strada per realizzarsi.

Lei ha affermato che, in un contesto dove la disoccupazione giovanile è al di sopra del 40%, chi fa percorsi tecnici e professionali il lavoro lo trova. C’è un problema di sovraqualificazione?
Studi internazionali recentissimi evidenziano che in Europa tra il 25 e il 50% della forza lavoro è sovraqualificata, ovvero ha titoli che non corrispondono a ciò che si fa. È appunto l’effetto del mismatch. Se il sistema crea professionisti di cui il mercato non ha bisogno poi è normale che i giovani siano obbligati a fare lavori diversi da quelle che erano le loro aspettative al momento dell’iscrizione all’università.

Ma non sarà che, al di là di tutto, le aziende non assumono perché non c’è abbastanza lavoro e non perché la forza lavoro non è formata adeguatamente?
È vero che le aziende oggi non hanno grandi prospettive di crescita e occupazionali. Ma è un circolo vizioso. Se le imprese potessero avvalersi di forza lavoro adeguata sarebbero più produttive e quindi avrebbero più spazio per assumere. Pensiamo alla Germania: l’occupaizone di giovani continua a crescere perché sono dotati di diversi strumenti che funzionano: alternanza scuola-lavoro, sistema duale, apprendistato. Lì le imprese sono competitive perché collaborano con il sistema scolastico, hanno una forza lavoro professionalizzata e creano sviluppo e lavoro: è un percorso virtuoso. Qui c’è poco spazio per assumere perché le aziende sono poco creative, non dotate di forza lavoro attrezzata per dare loro linfa vitale e creare nuove opportunità.

Realisticamente, come se ne esce?
Noi stiamo discutendo la riforma del lavoro ma stiamo dimenticando la questione dei tirocini, che sono tra gli strumenti più importanti per combattere il disallineamento. Bisogna aumentare le esperienze di tirocinio curriculari. Se sono sganciati da un percorso formativo, diventano contratti di inserimento. Occorre pensare a un’alternanza scuola-lavoro con tirocini più intensi, strutturati, duraturi. E poi, alla fine del percorso di studio-lavoro, puntare sull’apprendistato. Inoltre, per correggere gli errori di sistema, uno strumento utile potrebbe essere la messa a regime di Garanzia Giovani. Insomma, è necessario poter disporre di canali solidi di accompagnamento dalla scuola al mercato del lavoro.

È anche importante l’orientamento?
Orientamento è la parola chiave: è fondamentale aiutare a fare la giusta scelta dopo le scuole superiori. Università o lavoro? Occorre invitare i ragazzi a intraprendere dei percorsi coerenti alle loro attitudini e ai loro ma tenendo conto delle possibilità reali. C’è chi ha davvero la vocazione per discipline non tecniche e va giustamente guidato verso un percorso universitario adeguato. Ma ci sono altri ragazzi che, pur avendo potenzialmente l’inclinazione verso un lavoro manuale, non vengono incoraggiati. Si bloccano perché non c’è nessuno che spiega loro come muoversi.

Perché in Italia non funziona?
Non funziona per vari motivi di tipo organizzativo, legati al modo in cui funzionano le istituzioni pubbliche. Ma è un problema anche di tipo valoriale, culturale. Scontiamo ancora un pregiudizio, da parte delle famiglie e dei giovani, verso il lavoro manuale, tecnico. Mentre è facile vedere che nel Nord Europa a 16 anni si cominciano già percorsi tecnici professionali, man mano che si scende c’è la rincorsa al pezzo di carta. Gli stessi ragazzi che vanno agli ITIS purtroppo qui si considerano di serie B perché è cosi che la società li dipinge.

La riabilitazione dell’immagine dell’artigianato e del lavoro manuale non è ancora riuscita del tutto?
C’è un po’ meno pregiudizio verso questi settori. Se ne parla, ma il genitore continua a sperare per il figlio una carriera universitaria. Lo prova il fatto che gli artigiani e i commercianti cercano forza lavoro che sappiano fare cose manuali ma non la trovano. Se non ci fosse forza lavoro extracomunitaria difficilmente troverebbero personale.

venerdì, ottobre 31, 2014

Garanzia Giovani, ecco il sondaggio per capire come sta procedendo davvero il programma Ue contro la disoccupazione giovanile


La testata online Repubblica degli Stagisti e l’associazione Adapt hanno lanciato il “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”, una rilevazione aperta in cui gli iscritti alla Youth Guarantee possono raccontare in forma anonima la propria esperienza. Eleonora Voltolina, la direttrice del portale dedicato al lavoro e ai giovani, ci racconta come è nata l’iniziativa e quali sono i primi riscontri arrivati dai ragazzi

Per capire a che punto siamo con la Garanzia Giovani non bastano né i report del Ministero del Lavoro né le statistiche fornite dalle Regioni. I numeri non sono sufficienti a spiegare i dubbi, le frustrazioni e – perché no – le esperienze positive che gli iscritti al programma stanno vivendo. Senza ascoltare le testimonianze dirette è difficile avere un quadro completo della situazione.

Ecco perché la Repubblica degli Stagisti, testata giornalistica online che si concentra su giovani e lavoro, e Adapt, l’associazione per gli studi e le ricerche sul lavoro fondata da Marco Biagi, hanno lanciato online l’iniziativa del “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”.

Si tratta di un sondaggio in cui i ragazzi che partecipano al programma co-finanziato dall’Ue per combattere la disoccupazione giovanile possono riportare in forma anonima attraverso un questionario la propria esperienza e mettere in risalto i pro e i contro del progetto. I link al monitoraggio si trovano su entrambi i siti: Repubblica degli Stagisti (http://www.repubblicadeglistagisti.it/pages/monitoraggio-informale-garanzia-giovani/ ) e Adapt (http://www.bollettinoadapt.it/monitoraggio-informale-garanzia-giovani/). Abbiamo chiesto a Eleonora Voltolina, direttrice di Repubblica degli Stagisti, di spiegarci l’iniziativa e di raccontarci cosa emerge dalle prime risposte arrivate dagli iscritti.

Voltolina, come è nato il progetto del “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”?
È nato dal fatto che noi, come Repubblica degli Stagisti, e Adapt, con professionalità e punti di vista diversi, siamo due tra i soggetti più attenti a monitorare la Garanzia Giovani. Stiamo seguendo da più di un anno le tappe e gli intoppi dell’iter di questo progetto. Entrambi stavamo svolgendo una ricognizione e abbiamo sentito, quasi contemporaneamente, l’esigenza di unire le forze. L’idea è di andare al di là dei report ministeriali, importanti ma asettici, e di farci raccontare direttamente dai ragazzi come stanno vivendo quest’esperienza.

Che riscontri avete avuto finora?
Siamo partiti giovedì 16 ottobre e in dieci giorni abbiamo ricevuto oltre 600 questionari compilati: un buon risultato per un progetto senza pubblicità. Stiamo costruendo intorno a noi una rete di partnership e facciamo appello a tutte le realtà che hanno un contatto diretto con i giovani: sindacati, associazioni giovanili, università, siti internet con mailing list. Ci diano supporto per mandare il giro il link del sondaggio e farlo conoscere. Il primo ente che ci ha voluto dare una mano è l’Università di Catania: ha parlato del monitoraggio nella newsletter inviata ai suoi laureati. Tra l’altro, è anche un modo per promuovere la Garanzia Giovani: alcuni ragazzi non sanno neanche cosa sia.



Come avete impostato il monitoraggio?
Innanzitutto abbiamo pensato che un sondaggio limitato nel tempo non è uno strumento indicativo. Perciò abbiamo deciso di ricontattare tutti quelli che fanno il sondaggio dopo due mesi e una terza volta dopo altri due mesi, in modo di coprire i quattro mesi che rappresentano il tempo entro il quale il sistema della Garanzia Giovani si impegna a offrire un’opportunità a chi si registra. Alla fine, entro marzo-aprile del prossimo anno potremo delineare un quadro molto dettagliato.


Che tipo di domande contiene il questionario?
Segue un percorso logico. Si parte dalla domanda d’obbligo – chi sei? – in cui ognuno scrive la propria età, il titolo di studio e la condizione lavorativa. Poi chiediamo agli iscritti se stanno cercando attivamente lavoro e se si sentono dei Neet (Not in education, employment or training, le persone che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione, ndr). Quindi, c’è una parte specifica sull’iniziativa. Ci sono domande del tipo: come hai conosciuto la Garanzia Giovani? Quando ti sei iscritto? Quanto tempo è passato dall’iscrizione al momento in cui sei stato contattato? Ti è stato fissato un incontro di persona? Cosa ti è successo quando ti sei presentato al primo colloquio? Cosa ti è stato spiegato al centro per l’impiego? Cosa ti hanno proposto? Infine, c’è anche la domanda aperta: raccontaci a parole tue come è andata.


Quali sono le risposte più frequenti?
La maggior parte dei ragazzi, finora, restano neutrali, anche se non nascondono un po’ di delusione per il fatto che i primi incontri con il personale dei centri per l’impiego sono stati spesso superficiali. Sono in pochi finora a raccontare di essere stati davvero contenti dell’esperienza.


Quali sono gli aspetti più negativi che i ragazzi hanno raccontato finora nei questionari?
Ce ne sono vari. Alcuni raccontano di colloqui di gruppo. In pratica, convocano nello stesso giorno un certo numero di iscritti tutti insieme. A quel punto, l’addetto spiega la parte generale a tutti e poi intrattiene un contatto a tu per tu con i singoli che dura pochissimo: si limita allo scambio di documenti e alla presa in carico del singolo iscritto. Un altro elemento negativo ricorrente è che spesso i ragazzi percepiscono la persone che hanno di fronte come non abbastanza preparate. Ci sono alcuni che dicono agli iscritti: se vuoi saperne di più, vai sul sito. Infine, molti sono preoccupati, ovviamente, della scarsa adesione delle aziende.


Ma ci sono cose che funzionano? I ragazzi raccontano anche aspetti positivi?
In alcune testimonianze non manca chi afferma di apprezzare le situazioni in cui si trovano di fronte un interlocutore preparato che non li illude. In pratica, sono più contenti quando incontrano addetti competenti che non promettono la luna: vogliono verità, non realtà abbellite.

Voltolina, ma lei che impressione ha della Garanzia Giovani? Cosa non sta funzionando bene?
Il primo limite di questa iniziativa è la scarsità di opportunità in tutti i campi, soprattutto quello aziendale. Pare che i fondi non facciano abbastanza gola alle imprese. E c’è il problema che in alcune regioni le agevolazioni si cannibalizzano l’una con l’altra. Ci sono cioè regioni che hanno lanciato progetti per l’occupazione giovanile che prevedono incentivi più convenienti per le aziende. E ovviamente non si tratta di incentivi cumulabili. Alle poche offerte si aggiunge l’inadeguatezza del canale di erogazione, e in particolare dei centri per l’impiego. Tanti ragazzi ci raccontano che quando sono andati al colloquio hanno trovato sistemi bloccati, attese lunghe e personale poco preparata. I centri per l’impiego sono subissati dalla burocrazia, non hanno abbastanza personale, hanno talvolta addetti poco competenti e non riescono a gestire una rete efficace di rapporti con il territorio. Parliamoci chiaro: manca l’infrastruttura umana per gestire questo fiume di persone. Basta pensare che gli iscritti sono più di 250 mila, ma solo 60 mila sono stati presi in carico.

Cosa si potrebbe fare in concreto per migliorare la situazione?
Occorre agire il prima possibile sui due problemi che ho appena focalizzato: la mancanza di offerte e l’inadeguatezza dei canali di erogazione del servizio. Per risolvere, almeno in parte, questo secondo punto si può pensare di dotare queste strutture, per l’anno 2015, di esperti di recruiting assunti a progetto che si concentrino solo su Garanzia Giovani.  Un reclutamento eccezionale, per un anno, per fare in modo che questo miliardo e mezzo di euro a disposizione non vada sprecato.

venerdì, ottobre 24, 2014

Il caso Virgin, l’azienda che ha eliminato gli orari di lavoro



Richard Branson, il 64enne britannico che ha fondato il gruppo che spazia in settori che vanno dalla musica ai viaggi, ha deciso che i suoi dipendenti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti non devono sottostare ad alcun orario di lavoro purché portino a termine i progetti a loro assegnati. La filosofia è simile a quella che ha ispirato negli scorsi anni altre aziende come Google e Netflix. È necessario che i lavoratori abbiano “più tempo per la famiglia e per coltivare i loro interessi”, ha detto l’imprenditore. Anche perché – parole sue - “una persona felice, lavora meglio”.

Quanto è produttiva una persona che lavora freneticamente? Quanto conta un’ora passata in più o in meno in ufficio sui risultati di un’azienda? Se un lavoratore svolge bene il suo compito può organizzarsi la giornata di lavoro in modo autonomo? Fino a pochi anni fa era quasi proibito mettere in discussione l’organizzazione oraria dell’attività lavorativa.

Invece, grazie all’esempio di alcune aziende innovative, il paradigma è cambiato: in molti casi, la qualità del lavoro è diventata molto più determinante rispetto alla quantità di lavoro svolto. L’ultima grande compagnia che ha messo in pratica questa rivoluzione è la Virgin: il suo fondatore e numero uno, Richard Branson, ha deciso che i suoi dipendenti non devono più sottostare ad alcun orario di lavoro.

La regola di fondo che ha ispirato l’istrionico e multimiliardario imprenditore britannico 64enne, messa nero su bianco sul suo blog (www.virgin.com/richard-branson) e nel libro The Virgin Way: Everything I Know About Leadership, è una: “contano i risultati, non le ore che passi in ufficio”.

Così, lo staff del suo impero, che spazia nei settori più svariati (aerei, palestre, musica e radio solo per citarne alcuni) ora potrà organizzare il proprio tempo lavorativo diversamente e concentrarsi più sui compiti da svolgere che sul momento in cui timbrare il cartellino.

Certo, la svolta non vale esattamente per tutti i dipendenti Virgin, probabilmente anche per le diverse legislazioni vigenti nei vari Paesi del mondo nell’ambito del lavoro. Ma di sicuro, il personale di Gran Bretagna e Stati Uniti potrà seguire questa nuova politica. In cosa consiste nello specifico? A patto che ciascuno esegua gli incarichi che gli sono stati affidati e porti a termine i progetti assegnati, ci sarà libertà di assentarsi dall’ufficio per “un’ora al giorno, una settimana o un mese, senza che nessuno faccia domande”, ha detto Branson.

È necessario che i lavoratori abbiano “più tempo per la famiglia e per coltivare i loro interessi”. Perché chi è sereno, è più produttivo. Parola dello stesso imprenditore: “Una persona felice, lavora meglio”.

Tra l’altro, il fondatore del gruppo Virgin ha anche annunciato che sarà sua premura incoraggiare anche le aziende controllate affinché fermino il conteggio dei giorni di vacanza. Oppure, per dirla con le parole dello stesso supermanager, “i dipendenti decideranno di andare in vacanza solo quando capiranno che la loro assenza non danneggerà le entrate dell’azienda, un altro collega o la loro stessa carriera”.

Insomma, sentirsi liberi di entrare e uscire quando si vuole – vacanze comprese – ma dedicarsi anima e corpo all’azienda. Che poi, a ben vedere, è una filosofia molto simile a quella seguita in questi anni da Google, forse non a caso una delle maggiori aziende del mondo.
Ma Virgin e Google sono solo la punta dell’iceberg. Anzi, sembra che proprio gli esempi provenienti da società più piccole (ma non meno conosciute) abbiano ispirato le nuove politiche del boss della multinazionale britannica. In questo caso il punto di riferimento è stata Netflix, la piattaforma Usa di streaming video, che non tiene conto dei giorni di vacanza che si prendono i propri dipendenti. E a suggerire a Branson il caso sarebbe stata la figlia.


martedì, ottobre 21, 2014

La ricerca di lavoro? Social, ma non troppo


Più della metà delle attività di recruiting si svolge, a livello mondiale, su piattaforme come Linkedin, Facebook e Twitter. A fine 2014 la percentuale arriverà al 61%. Eppure, secondo un’indagine condotta su 1.500 recruiter di 24 Paesi e 17 mila persone in cerca di impiego soltanto il 7% dei candidati riesce a trovare un’occupazione affidandosi ai social media. Incide anche la scarsa attenzione posta sulla web reputation: il 25,5% dei selezionatori ammette di aver scartato alcuni profili solo perché sulle loro pagine social personali comparivano foto imbarazzanti o commenti fuori luogo


Trovare lavoro attraverso i social network è più facile? Se si prendono in considerazione i risultati di una ricerca svolta a livello internazionale su 1.500 recruiter di 24 Paesi (di cui 269 italiani) e 17 mila persone in cerca di impiego, la risposta sembra inequivocabile: no.

In buona sostanza, secondo lo studio, il social recruiting è una prassi molto diffusa tra i selezionatori ma alla fine è meno efficace del previsto per quanto riguarda la possibilità di far incontrare domanda e offerta di lavoro.

Nel 2014, soltanto sette candidati su cento hanno infatti reperito un posto grazie a Linkedin, Facebook, Twitter e simili. Certo, nel 2013 non andava meglio, dal momento che solo il 2% di chi andava alla ricerca di un’occupazione ci riusciva utilizzando le piattaforme sociali.

Eppure, stando ai dati del rapporto, curato da una multinazionale del settore HR e Università Cattolica di Milano, più della metà delle attività di selezione del personale (il 53%) si concentra ormai sulla rete e, in particolare, sui social media. E tanto per avere un’idea del trend, la percentuale del recruiting compiuto su Linkedin e co. sarà entro fine anno del 61%. Per esempio, chi si rivolge ai centri per l’impiego è dunque una minoranza.

La fiducia nel potere di Internet è quindi alta. In Italia, quest’anno, su un campione di 7.600 interpellati a caccia di un’occupazione, due su tre (il 67%) hanno affermato di utilizzare i social media come canale prioritario per la ricerca (rispetto al 2013 si registra una crescita del 14%) e il 56% ha anche pubblicato su queste piattaforme il proprio curriculum vitae (l’anno scorso la percentuale era del 30%).

Il luogo privilegiato per il collocamento, a prescindere dai risultati, sta diventando quindi la socialsfera. La piattaforma preferita per la ricerca professionale? Linkedin, scelto come prima risorsa online da quattro candidati su dieci (41%). Al secondo posto c’è un social più personale come Facebook, che raccoglie il 23% delle preferenze.

Le categorie che si affidano di più al web per individuare i profili più adatti sono quelli più legati al rapporto con i clienti: nelle vendite, il 54,2% delle professionalità vengono cercate così; nel marketing siamo al 40,8%. Altro settore che punta sui social per fare reclutamento è quello relativo ad amministrazione e finanza (45,8%). I servizi, insomma, vanno per la maggiore.

Ma, come abbiamo detto, solo il 7% delle persone che cercano un’occupazione riescono a trovarla grazie ai social. A cosa sono dovute queste percentuali così basse? Un elemento che incide è la cosiddetta web reputation, ovvero la reputazione che gli utenti si costruiscono sui social in base ai contenuti che diffondono.

Soprattutto su Facebook, che si presta particolarmente bene al racconto di fatti e opinioni personali, basta una frase fuori luogo, un commento sgradevole o un’esplicitazione delle proprie inclinazioni politiche a condizionare i selezionatori più di quanto possano fare mille curricula.

Le esperienze professionali e la carriera formativa contano, certamente. Ma più del 25% di chi si occupa di recruiting dichiara di aver cestinato cv e messo una x su un candidato solo per fotografie e prese di posizione pubblicate sulle pagine social personali.

A ogni fotografia goliardica in più, magari con una bottiglia di vino in mano, corrisponde una chance in meno di essere assunti. Il tutto, con buona pace dei responsabili delle risorse umane delle aziende: scartare i candidati per questi motivi non lascia spazio ad alcun senso di colpa.





venerdì, ottobre 17, 2014

E io me ne vado all’estero per lavoro: i numeri dell’emigrazione italiana 2.0





Giovane, istruito, celibe, residente al Nord e diretto a Londra. Ecco il profilo dell’emigrante italiano negli anni della crisi. Le cifre dell’esodo, contenute nel rapporto Migrantes, diventano sempre più rilevanti: nel 2013 sono stati quasi 95 mila i connazionali che si sono trasferiti oltre confine, 15 mila in più rispetto all’anno precedente. L’emorragia riguarda soprattutto la fascia d’età tra i 18 e i 34 anni (36,2%). A sorpresa, la regione in cui si registrano più partenze (più di 16 mila) è la Lombardia. E la destinazione più gettonata è la Gran Bretagna, seguita da Germania, Svizzera e Francia.

Via. In cerca di un lavoro e di una vita diversa. Nel 2013 sono stati quasi 95 mila gli italiani che si sono trasferiti all’estero. Come se l’intera popolazione di una città grande quanto Udine avesse traslocato oltre confine. I numeri che certificano la ripresa dell’emigrazione dall’Italia sono forniti dal Rapporto “Italiani nel Mondo” 2014 della Fondazione Migrantes.

L’emorragia diventa più forte anno dopo anno. Nel 2012 gli espatriati erano circa 80 mila (78.941), ovvero oltre 15 mila “fuggitivi” in meno. E a ben vedere, non sono nemmeno tutti, perché la ricerca ha preso in considerazione soltanto chi si è registrato all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) per espatrio e non i moltissimi connazionali che non si sono iscritti al registro perché fanno ancora i “pendolari” con l’Italia oppure perché non ne sentono l’esigenza o se ne sono dimenticati.

L’identikit dell’emigrante made in Italy di questi anni è ben diverso da quello che ha caratterizzato i fenomeni migratori del Novecento. È di solito un giovane under 35 celibe residente al Nord con un buon livello di istruzione e in viaggio verso il Regno Unito. 

Tradotto in cifre, più della metà (56,3%) dei 94.126 che hanno lasciato il Paese nel 2013 sono uomini non sposati (nel 60% dei casi). Più di un terzo (36,2%) degli expat ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni. Seguono gli over 35, fino a 49 anni, che rappresentano un quarto (26,8%) della popolazione andata via.

Il fatto che queste due fasce d’età siano prevalenti dimostra un dato difficilmente contestabile: chi parte è spinto soprattutto dalla crisi, dalla disoccupazione o dal desiderio di trovare un’occupazione e una condizione esistenziale meno instabili. Dicono arrivederci (addio?) anche molte coppie, dal momento che la percentuale di minori che hanno preso la residenza all’estero è pari al 18,8% del totale degli espatriati.

La meta preferita dagli emigranti 2.0, scelta da oltre il 70% delle persone che vanno via, è la Gran Bretagna, con 12.933 nuovi registrati all’Aire. Londra, nonostante la sterlina e il costo della vita elevato, viene percepita quindi come la capitale europea delle opportunità. Al secondo posto c’è la Germania (11.731 nuove iscrizioni), seguita da due Paesi confinanti: la Svizzera (10.300) e la Francia (8.402).

Se città come Londra, Berlino e Parigi sono le destinazioni più gettonate, stupisce che il principale punto di partenza è la Lombardia: 16.418 persone (il 17,6% sul totale) si mettono in viaggio dalla regione più ricca d’Italia. Al secondo posto, ancora Nord: dal Veneto, infatti, le partenze sono state 8.743. Certo, tra questi ci sono anche persone che negli anni passati erano emigrate dal Sud. Ma è innegabile che non basta trovarsi nelle aree più produttive del Paese per scampare alle difficoltà e alla necessità di espatriare.
L’Italia fuori confine, insomma, cresce. Nel mondo sono 4.482.115 i cittadini italiani residenti all’estero iscritti all’Aire. Se fossero tutti nello stesso territorio sarebbero la sesta regione italiana con più abitanti, un gradino sopra l’Emilia Romagna. A questi ritmi, quanto passerà prima che la colonia di expat diventi la più popolosa di tutte?