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martedì, aprile 14, 2015

Tfr in busta paga: ora si può, ma a chi piace?


Dal 3 aprile è possibile richiedere lanticipo del trattamento di fine rapporto. Ma unindagine SWG-Confesercenti ha rilevato che solo il 17% dei lavoratori ha deciso di aderire, mentre il restante 83% lascerà la somma in azienda. A pesare sulla scelta anche la tassazione ordinaria dellanticipo. Secondo i calcoli della Fondazione studi dei Consulenti del Lavoro, la misura potrà essere davvero conveniente solo per i lavoratori con un reddito fino a 15 mila euro.

Dal 3 aprile si può chiedere lanticipo del Tfr (Trattamento di fine rapporto) in busta paga, così come promesso da Matteo Renzi e dal suo governo. A stabilirlo è stato il decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri pubblicato in Gazzetta ufficiale il 19 marzo scorso. Chiunque abbia almeno sei mesi di anzianità in azienda e sceglie di avvalersi di questa opportunità, può fare la richiesta in qualunque momento ma non può cambiare idea fino al 30 giugno 2018

Lanticipo è definito Quir, quota integrativa della retribuzione, e potrà essere richiesto da tutti i lavoratori dipendenti, fatta eccezione per quelli della Pa. Bisogna presentare un modulo semplice e precompilato.

Una convenzione con lAbi, lassociazione bancaria italiana, stipulata con Ministero dellEconomia, Ministero del Lavoro e Inps, consente anche alle aziende di piccole dimensioni di accedere a prestiti agevolati per far fronte alle richieste di anticipo del Tfr da parte dei dipendenti. Nelle aziende sotto i 50 dipendenti, infatti, il Tfr accantonato non viene consegnato allInps ma gestito autonomamente e costituisce un utile tesoretto di liquidità.

Ma ai lavoratori conviene? E soprattutto, piace? Unindagine SWG-Confesercenti condotta su dipendenti e imprenditori e pubblicata a fiine febbraio 2015 ha rilevato che ladesione a questa formula è ancora scarsa. Solo sei dipendenti su cento lo hanno già chiesto ai propri datori di lavoro e un ulteriore 11% ha intenzione di avvalersi del beneficio entro lanno.


Complessivamente, il 17% di chi lavora preferisce avere subito la liquidità garantita dal trattamento di fine rapporto. Resta però un 83% di lavoratori che preferisce lasciare il Tfr e mantenere la situazione inalterata.

Anche le imprese sono sulla stessa lunghezza donda: l82% non ha ricevuto o prevede di non ricevere richieste di Tfr in busta paga. Se così fosse, sarebbe una buona notizia per molti imprenditori, visto che il 79% delle imprese segnala problemi nellottenere prestiti dalle banche per corrispondere ai dipendenti il Tfr in busta paga.

Chi ha scelto (o sceglierà) di avere il Tfr in busta paga lo fa, secondo lindagine, per avere maggiore liquidità necessaria a saldare debiti pregressi (24%), ad accumulare risorse da destinare alla previdenza integrativa (20%); fare acquisti (19%). Il 35% di quelli che lo hanno richiesto, invece, non sa ancora come impiegare la somma in più.

I motivi di chi non ha aderito sono invece: il desiderio di ottenere tutto il Tfr a fine carriera (58%), il fatto che il Tfr in busta paga è tassato con aliquota ordinaria e non ridotta come accade quando il trattamento viene erogato a fine rapporto di lavoro (30%); lintenzione di non mettere in difficoltà lazienda (10%); il fatto che sul luogo gli è stato sconsigliato apertamente (2%).

Oltre alla volontà di avere un gruzzoletto al termine del proprio percorso di lavoro, molti dipendenti sono stati scoraggiati dalla tassazione ordinaria di questa somma. Stando ai calcoli della Fondazione studi dei Consulenti del Lavoro, il Tfr in busta paga potrà essere davvero conveniente per i lavoratori con un reddito fino a 15 mila euro. Chi ha un reddito superiore a questa soglia, pagherà più tasse. Prendendo il caso di un reddito piuttosto alto, 90 mila euro annui, laggravio sarebbe di 569 euro allanno.

martedì, aprile 07, 2015

Lavoro agile, cos’è e perché può essere vantaggioso

Lo smart working, ovvero la possibilità di lavorare in modo flessibile e autonomo rivoluzionando spazi, orari e strumenti, è un approccio che consente, in certi casi, di risparmiare tempo, denaro ed energia. Anche le aziende possono ridurre le proprie spese e riorganizzare i propri spazi. Se le imprese italiane adottassero questa filosofia in modo convinto, il Paese potrebbe risparmiare 37 miliardi di euro

Lavorare da dipendenti ma come se si fosse lavoratori autonomi. In termini di spazi, orari, strumenti e responsabilità. È quello che i sociologi chiamano smart working e che in italiano è stato definito, con una formula efficace, lavoro agile.

Nello specifico, lavorare secondo la filosofia “agile” significa, per le aziende, gestire il lavoro dei propri dipendenti in modo completamente diverso.


Vuol dire, per esempio, permettere ai propri collaboratori di entrare e uscire dall’ufficio in orari più elastici almeno in alcuni giorni della settimana, di lavorare in remoto, di utilizzare in taluni casi dispositivi propri (il cosiddetto bring your own device: usare pc, smartphone e tablet propri anche in ufficio) e di organizzare giornate e orari lavorativi in base ai risultati e non all’obbligo di “timbrare il cartellino”.

I vantaggi di un approccio del genere sono evidenti. Chi lavora smart guadagna innanzitutto tempo, perché deve muoversi di meno e può dedicarsi di più alla famiglia, ai figli e a se stesso. In questo modo, raggiungere una conciliazione soddisfacente tra vita e lavoro diventa più semplice.

Oltre al tempo, si guadagna - o si risparmia - anche denaro, perché le spese per gli spostamenti casa-lavoro si riducono - con ricadute positive sull’ambiente - e anche le aziende stesse, trovandosi meno dipendenti in sede, possono gestire in modo più intelligente gli spazi e diminuire i costi da sostenere per l’energia. Inoltre, numerose indagini hanno dimostrato che lo smart working aumenta la produttività dei lavoratori.


Salvo casi che hanno fatto notizia - come quando la ceo di Yahoo!, Marissa Mayer, ha stabilito per i dipendenti della Internet company di ridurre la possibilità di ricorrere al telelavoro - di solito le aziende che accettano di rendere più agile il lavoro tendono a conservare il nuovo approccio.

Stando ai dati 2014 forniti dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, quasi 7 imprese italiane su 10 (il 67%) ha scelto di lanciare iniziative di lavoro agile.

Tuttavia, soltanto l’8% ha trasformato radicalmente il proprio approccio adottando modelli di smart working che comprendono anche un cambiamento ad hoc dell’organizzazione aziendale e un adattamento di spazi fisici, regole aziendali e infrastrutture tecnologiche.

Quanto risparmierebbe tutto il Paese se si adottasse il lavoro agile in maniera diffusa? La stima è impressionante: 37 miliardi di euro. In più, il lavoro in remoto e la riduzione degli spostamenti potrebbe generare un risparmio di 4 miliardi di euro e di 1,5 milioni di tonnellate di CO2 emesse nell’atmosfera.

Certo, il lavoro agile può anche avere effetti negativi. Lavorare in remoto può logorare i rapporti con i colleghi e generare situazioni di isolamento per chi lavora. Non a caso, infatti, in molte città stanno nascendo spazi di coworking proprio per limitare le forme di alienazione che possono nascere dal lavorare da soli - discorso che vale soprattutto per i lavoratori autonomi - e creare nuove opportunità di collaborazione e sinergie.


Al di là dei possibili rischi, lo smart working piace agli italiani. Una ricerca di ContactLab commissionata da Citrix Italia per la Giornata del Lavoro Agile (organizzata il 25 marzo scorso a Milano) ha dimostrato che l’81% dei nostri concittadini è interessato a forme di lavoro agile e il 19% lavora da casa o da remoto (il 78% dei quali ritiene che la modalità smart abbia migliorato la propria vita professionale).

Quasi nove persone su dieci (l’87%) sono convinte che il lavoro intelligente faccia guadagnare tempo, sopratutto quello impiegato in spostamenti, e una percentuale simile, l’86%, pensa che sia un ottimo metodo per arrivare a un buon work-life balance.

lunedì, marzo 30, 2015

Naspi: cos’è, chi può richiederla e come si calcola

La nuova prestazione di assicurazione sociale per limpiego introdotta con il Jobs Act va a sostituire i sussidi al momento vigenti (Aspi e mini-Aspi). Ecco come funziona lammortizzatore sociale previsto per i lavoratori dipendenti che si troveranno involontariamente senza lavoro a partire dal primo maggio 2015

Il nome è Nuova prestazione di assicurazione sociale  per limpiego. Acronimo: Naspi. È questo il nuovo sussidio alla disoccupazione per i lavoratori dipendenti introdotto con il Jobs Act che andrà a sostituire, dal primo maggio 2015, quelli attualmente in vigore: Aspi e mini-Aspi.

La nuova indennità è una forma di sostegno al reddito per chi perde involontariamente il lavoro - cioè senza aver presentato dimissioni - a partire dal primo maggio. Viene riconosciuta a chi è disoccupato e può far valere almeno tredici settimane di contribuzione nei quattro anni che precedono il periodo di disoccupazione e almeno trenta giornate di lavoro effettivo negli ultimi dodici mesi. Sono esclusi dal nuovo sussidio i dipendenti a tempo indeterminato della Pa e gli operai agricoli.

La Naspi è erogata ogni mese per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli quattro anni precedenti. Nel calcolo non vengono presi in considerazione i periodi che hanno già previsto lerogazione di prestazioni di disoccupazione. Dal primo gennaio 2017, la disoccupazione è corrisposta per un massimo di 78 settimane.

Il calcolo della Naspi è fatto in rapporto alla retribuzione imponibile a fini previdenziali dei quattro anni precedenti. Se la retribuzione mensile è pari o inferiore - nel 2015 - a 1.195 euro, il sussidio è pari al 75% del salario mensile. Se la retribuzione è invece superiore a 1.195 euro, lindennità è del 75% più il 25% della differenza tra salario mensile e 1.195.

Nel 2015, non può in ogni caso superare il tetto massimo di 1.300 euro lordi, leggermente superiore a quello in vigore oggi per l'Aspi (che arriva sino a un massimo di 1.165 euro lordi). Lassegno diminuisce del 3% ogni mese, ma a partire dalla quinta mensilità. Per i primi quattro mesi, si riceve l'intero sussidio.

Per ottenere il sussidio bisogna presentare domanda in via telematica allInps entro 68 giorni dalla fine dellultimo rapporto di lavoro. Lindennità spetta al lavoratore disoccupato dall'ottavo giorno successivo alla cessazione del lavoro oppure, se la domanda è presentata successivamente, dal giorno dopo alla data della richiesta.

Ma per avere la Naspi non basta fare domanda. Per ricevere lassegno è necessario partecipare regolarmente a iniziative di attivazione lavorativa e a percorsi di riqualificazione professionale.

E se un lavoratore che ha diritto alla Naspi volesse richiedere la liquidazione anticipata del sussidio per reinventarsi come imprenditore? Può ottenerla. Lobbligo è quello di di dare avvio a unattività lavorativa autonoma o a unimpresa individuale oppure di sottoscrivere una quota di capitale sociale di una cooperativa a cui partecipare come socio lavoratore.

Anche in questo caso la domanda va rivolta telematicamente allInps entro trenta giorni dallinizio dellattività in proprio o della sottoscrizione di quota di coop. Se invece comincia un nuovo rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui è riconosciuta la liquidazione anticipata del sussidio, il lavoratore è obbligato a restituire per intero lanticipo ottenuto.

mercoledì, marzo 25, 2015

Personal branding, ecco perché è importante per trovare lavoro Intervista a Francesca Parviero

Curare e promuovere la propria identità professionale online è fondamentale per mettere in luce le proprie competenze e generare interesse nelle persone che possono interagire con noi. Synforma ne parla con Francesca Parviero, social media HR strategist e official talent partner EMEA di LinkedIn. «È un metodo molto efficace per incontrare opportunità inaspettate»



Il personal branding, ovvero la cura e la promozione della propria identità professionale online (ma anche offline), è diventato uno strumento fondamentale per trovare lavoro, soprattutto nellambito delle professioni creative. Per capire meglio perché è importante abbiamo sentito Francesca Parviero, unesperta di risorse umane molto attenta alle dinamiche dei social media e del mondo digitale.

Francesca lavora come consulente per le aziende che vogliono sviluppare progetti digitali in ambito HR e dal 2012 collabora con LinkedIn come official talent partner.

Francesca, cosa significa personal branding? Qual è la definizione che daresti a questattività?

È quella dinamica, anche implicita, che ciascuno di noi attiva nel proprio target di riferimento quando persuadiamo il nostro pubblico, eticamente, a proposito di ciò che possiamo fare per loro. Si tratta del modo in cui comunichiamo online chi siamo e cosa possiamo fare.

Cosa intendi per eticamente?
Comunicare in modo significa far arrivare a tutti chi sei senza dire bugie e senza virtuosismi da overselling. Le balle, in rete, vengono identificate facilmente.

Come si coltiva il personal branding?

Si possono fare una serie di esercizi, anche offline, in modo da far emergere ciò che si sa fare, capire per chi lo si fa e in che termini si cambia qualcosa nelle persone per cui lo si fa. Il focus del personal branding deve essere sempre quello di far capire ciò che ciascuno può muovere. Si tratti di emozioni, numeri e budget.

Che regole si devono seguire?

Proviamo a identificarne qualcuna. La prima è la chiarezza. La prima domanda che ognuno dovrebbe porsi per curare il proprio personal branding è: se qualcuno mi cerca online riesce a capire chi sono e che tipo di professionalità ho? Ecco perché la chiarezza è importante. Bisogna far comprendere ciò che si sa fare meglio e che impatto ha questa competenza sul proprio potenziale target.

Essere chiari, quindi. E poi?
La seconda regola è differenziarsi, far emergere le proprie caratteristiche. Bisognerebbe chiedersi: perché dovrebbero scegliere me? E a quel punto occorre regolarsi di conseguenza, ma senza inventarsi niente. Bisogna imparare a darsi sostanza. È questo che genera opportunità.


Concretamente come ci si differenzia?
Bisogna mettere in luce le proprie parole chiave, in tutte le informazioni che ci sono online, dalle bio alle descrizioni su Twitter. Anche qui, c’è una domanda da porsi: con quali parole cercherebbero una professionalità come la mia? E a quel punto bisogna inserire quelle keywords in tutte le proprie descrizioni online.



Chiarezza, differenziazione, parole chiave. Cosa si può aggiungere?
C’è un altro aspetto importantissimo. Se si parla di personal branding online, si parla essenzialmente di social media e di reti sociali. E le reti funzionano quando le persone fanno interazioni. Quindi, prima di chiedersi quali opportunità mi sono arrivate dagli altri? bisognerebbe porsi la domanda opposta: quali opportunità ho favorito agli altri?. E cominciare a favorirle. Così come nella vita offline, non puoi chiedere se non hai mai dato a nessuno. Un esempio? Prima di chiedere recommendation su LinkedIn, cominciamo a darle. Solo con un comportamento virtuoso si può generare un comportamento virtuoso. Ma attenzione: non bisogna fare qualcosa aspettandosi subito qualcosa in cambio. Bisogna farlo perché il meccanismo di networking funziona così e solo alimentandolo può portare frutti.

Ma alla fine che importanza ha il personal branding nella ricerca di lavoro?

Parto dalla mia esperienza personale: fare personal branding ha generato molte opportunità di lavoro che non avevo neanche immaginato e che non mi aspettavo. In sintesi: è un modo efficace per incontrare possibilità impreviste. Raccontarsi online non significa raccontare solo una parte di se stessi ma comunicarsi nella propria interezza. Emerge il modo in cui fai le cose, il modo in cui ti differenzi dagli altri. Anche senza porsi un obiettivo preciso, si può generare interesse in molte persone. E da questo interesse scaturiscono contatti e opportunità di lavoro.

Ci fai qualche esempio?
Io stessa, per il semplice fatto che curavo un blog, una volta sono stata accolta in unazienda quasi come una rockstar. Chi lavorava lì mi diceva: qui in ufficio ti seguiamo tutti. Eppure, io non avevo la percezione, come blogger, dellinteresse che potevo creare in alcune persone. Oppure, per fare esempi più noti, posso citare quegli imprenditori che associano il proprio nome allazienda facendo in modo che il proprio brand personale desse risalto a quello aziendale. Un nome? Oscar Farinetti di Eataly. Ha costruito unottima rete di relazioni, non solo online. La utilizza e la spende benissimo. Fa conoscere persone al pubblico, parla bene degli altri. Leggendo i suoi libri si viene a sapere di molte persone che lavorano con lui. È così che si fa rete. Questo è un ottimo modo di fare personal branding.


Tu ti occupi anche di percorsi specifici per donne. C’è un personal branding al femminile?
Per le donne ho pensato a She Factor, un percorso di sviluppo delle proprie competenze legato al personal branding. Non è che le donne abbiano bisogno di fare personal branding in modo specifico. Di fatto, però, è nellindole delle donne parlare di sé dal punto di vista professionale. Noi donne pecchiamo di scarsa valorizzazione delle nostre competenze, tendiamo a restare dietro le quinte. Già le posizioni di vertice e di responsabilità per le donne sono sempre di meno, anche a causa di una cultura che penalizza ancora le donne. Le donne quindi non dovrebbero contribuire a creare questo clima valorizzandosi. Così, è nato questo percorso online, che coinvolge 1.300 donne in tutta Italia, ma anche allestero, in cui si condividono stimoli, riflessioni ed esercizi pratici a partire dal personal branding. È un modo per prendere consapevolezza di sé. Sperando che in un secondo momento si possa fare un percorso comune, con gli uomini, in cui fare progetti insieme e aiutarli a comprendere bene da dove partono le discriminazioni che penalizzano lidentità e la professionalità delle donne.

martedì, marzo 17, 2015

Jobs Act, quanto e come risparmiano le aziende



I primi dati sulloccupazione (+5% degli assunti a tempo indeterminato a febbraio 2015) confermano che le misure contenute nella Legge di Stabilità sono uno stimolo per le aziende ad ampliare il personale. Ma il contratto a tutele crescenti, la principale novità della riforma targata Renzi, conviene alle imprese? Secondo alcune simulazioni, sì. E parecchio: più della metà rispetto a quanto avrebbero speso in tasse nel 2013

Dei possibili effetti che il Jobs Act avrà sui lavoratori si è parlato a lungo e ancora si parlerà. Ma alle aziende, la riforma del mercato del lavoro targata Renzi, conviene? Riscontri concreti non ce ne sono ancora. Ma se si tiene conto di alcune stime e dei segnali positivi che arrivano dai numeri sulloccupazione, si può tentare di dare una risposta.

Di certo, Jobs Act o meno, la Legge di Stabilità ha previsto degli incentivi che incoraggeranno le assunzioni a tempo indeterminato nel 2015. Per le aziende che assumono personale con contratto permanente, la finanziaria ha stabilito una decontribuzione per tre anni consecutivi: il risparmio sarà in media di 8.070 euro allanno per ogni neo-assunto.

In questo modo, per esempio, il contratto a tempo indeterminato (che dallentrata in vigore della riforma è a tutele crescenti e dunque prevede il reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente solo per casi di discriminazione o per casi disciplinari che non sussistono) viene a costare di meno dellapprendistato inferiore a due anni e del contratto a tempo determinato.

Inoltre, è prevista una deducibilità ai fini Irap del costo del lavoro che avvantaggerà anche le aziende e non solo i lavoratori.

I primi effetti di queste misure si fanno sentire, dal momento che a febbraio 2015 c’è stata una consistente crescita dei contratti a tempo indeterminato. Secondo l'Osservatorio sul mercato del lavoro della CNA, che monitora le assunzioni su un campione di 20mila imprese, i nuovi contratti sono stati il 37,5% del totale, il 5% in più su febbraio 2014.

Tra le varie stime sui risparmi che avranno le aziende grazie al contratto a tutele crescenti, particolarmente significativa è quella fatta dal quotidiano online QuiFinanza, che ha analizzato diverse situazioni mettendo a confronto il costo sostenuto dalle imprese nel 2013 per unassunzione a tempo indeterminato e una effettuata nel 2015 in base alle nuove norme.


Un caso riguarda un neo-assunto con un inquadramento a tempo indeterminato da 24 mila euro lordi allanno con 13 mensilità e nessun figlio a carico. Due anni fa, questo contratto sarebbe costato allimpresa 2.633 euro, a cui sottrarre 1.325 euro di cuneo fiscale: il netto in busta paga sarebbe stato quindi di 1.308 euro al mese.

Nel 2015, il medesimo contratto costa all
azienda 1.983 euro, con un cuneo fiscale di 500 euro e un netto mensile di 1.483 euro. Il gap tra il cuneo fiscale del 2013 e quello del 2015 è del 64%. Un risparmio molto consistente.

Il secondo caso preso in esame è di un neo-assunto con un contratto a tempo indeterminato da 15 mila euro lordi. Anche in questo caso, le mensilità sono 13 e non ci sono figli a carico. Nel 2013, limpresa avrebbe pagato 1.641 euro al mese. Togliendo 754 euro di cuneo fiscale si sarebbe arrivati a un netto in busta di 887 euro.

Nel 2015 la situazione cambia e il costo, per limpresa, diminuisce fino a quota 1.239 euro. Cala anche il cuneo fiscale: 207 euro. Con il risultato che il lavoratore, in busta paga, si trova 1.032 euro e il risparmio sul cuneo sarebbe del 73%. Più che dimezzato anche in questo caso. Stando a queste simulazioni, quindi, al momento assumere nuovi lavoratori con un contratto a tempo indeterminato conviene.