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venerdì, dicembre 05, 2014

L’intervista. Oscar Giannino: «Il Jobs Act contiene alcuni sforzi apprezzabili ma le risorse sul tavolo sono poche e molto dipende da come si concretizzerà nei decreti»


Intervista al giornalista di Radio24 e de Il Messaggero sulla riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi e approvata, finora, alla Camera. «Mi piace l’energia del premier nel prevedere verifiche nel tempo e nello sfidare i sindacati. Ma l’abolizione del reintegro giudiziale nei licenziamenti economici potrebbe essere depotenziato dalle fattispecie dei disciplinari. E ci sono tematiche assenti o a cui si è prestata poca attenzione: le politiche attive per il lavoro, l’apprendistato, il Sud e il lavoro autonomo»

Giannino, cosa trova convincente del Jobs Act?

Mi è piaciuta l’energia con cui il presidente del Consiglio ha dichiarato che la riforma del mercato del lavoro è un cantiere che andrà avanti con puntuali verifiche nel tempo delle novità introdotte. E il controllo comincerà con la definizione dei decreti. D’altronde, a mio parere è sempre mancata una strumentazione pubblica che permettesse di verificare gli effetti dei pur frequentissimi interventi di innovazione legislativa. È necessario per permettere a tutti, e soprattutto alla politica, di capire che cosa ha determinato che cos’altro, che cosa ha fallito e che cosa si può cambiare senza fare innovazioni legislative. Se si arriva davvero a un codice unico semplificato del lavoro, allora questa riforma sarà davvero un’occasione colta.

Su LeoniBlog, parla però di “bicchiere mezzo vuoto”. Su quali aspetti ha i maggiori dubbi?
La mia non è una critica pregiudiziale: mi rendo conto delle difficoltà e do atto al premier di aver operato una sana rottura politica su diversi aspetti. Tuttavia, nel merito, ciò che vedo mi lascia motivatamente aperto alla necessità di giudizi successivi. Partiamo per esempio dall’intervento sull’articolo 18. Non ho mai pensato che fosse la leva per l’occupabilità. Non mi sfugge la dimensione mitico-politica e capisco l’energia del governo nel mettervi mano. Ma potrò capire che efficacia avrà quando ci sarà una determinazione specifica delle fattispecie del licenziamento discriminatorio. Maggiore è il dettaglio, più elevato è il rischio che un consulente dica “è discriminatorio: andiamo dal giudice”. Il passo avanti rispetto alla riforma Fornero di prevedere il solo indennizzo per il licenziamento economico individuale verrebbe in qualche modo depotenziato. Si rischia di far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Anche riguardo all’indennizzo ho delle riserve: finché non si vede come si calcola, sopra e sotto i 15 dipendenti, non sono in grado di capire fino a che punto è una misura utile.

Sono sufficienti le risorse messe sul tavolo?   
La questione delle risorse è uno dei principali punti aperti. Per esempio, un aspetto molto importante è il superamento della cassa integrazione attraverso l’Aspi. Ma finché l’Aspi continuerà ad avere meno risorse della cassa, imprese e sindacati continueranno a tenersi quella. Si parlava di risorse aggiuntive per questo ammortizzatore ma al momento, nel passaggio parlamentare, sembrano sparite.

E i tre miliardi di decontribuzione previsti per i primi tre anni per chi assume con il contratto unico a tutele crescenti?
Io ho sempre pensato che per ottenere una maggiore occupabilità in tempi brevi-medi le risorse vanno concentrate su occupazione aggiuntiva e non vanno date a tutti i nuovi contratti, compresi quelli che sostituiscono il tempo determinato con l’indeterminato. In genere, gli incentivi hanno più effetto se non dati a pioggia. Questi tre miliardi, quindi, li avrei visti meglio se fossero stati previsti solo per le nuove assunzioni. Anche dal punto di vista fiscale, sarebbe più sostenibile concentrare le risorse sull’occupazione aggiuntiva.

Come agisce a suo parere la riforma sulle politiche attive per il lavoro?
La questione delle politiche attive è fondamentale per l’occupabilità. È necessario passare da troppe politiche passive a più politiche attive. Ma in questa riforma ci sono grandi punti interrogativi. Per esempio, questa Agenzia nazionale per l’occupazione, rischia di essere null’altro che la somma degli uffici provinciali per il lavoro. Se resta tutto nelle mani del pubblico, si tratterà di un fallimento conclamato. Bisognerebbe fare qualcosa di analogo a ciò che si è fatto in Germania. L’agenzia centrale dovrebbe limitarsi a gestire l’accreditamento dei privati, soprattutto grandi soggetti e multinazionali, più bravi nell’intermediare la domanda e l’offerta di lavoro. D’altronde, l’esperienza finora fallimentare di Garanzia Giovani è una colossale riprova dell’impossibilita della macchina pubblica di gestire le politiche attive.  Inoltre, servirebbe anche che il Jobs Act sia accompagnato da una riforma della scuola, secondaria e terziaria, e con un’accelerazione sull’apprendistato. Il contratto di inserimento triennale funzionerà solo con un sistema scolastico più professionalizzante e lasciando intatti un cospicuo numero di contratti a termine: è un paradosso che i dipendenti dei call center invochino il mantenimento del contratto a progetto per poter conservare il proprio lavoro.

Ci sono dei grandi assenti in questa riforma?
Oltre agli aspetti che ho già descritto – politiche attive, apprendistato – ce ne sono diversi. Io, che pure sono stato molto critico sulle politiche differenziate per il Sud, vista la disparità pazzesca in ambito lavorativo - 600 mila posti di lavoro persi al Mezzogiorno su un milione, circa 37% di disoccupati nelle costruzioni… - avrei sperimentato cose diverse, proponendo per esempio incentivi diversificati per il Mezzogiorno. Poi, poteva essere un’occasione per parificare lavoro privato e pubblico e – cosa importantissima – per aprirsi alla possibilità di estendere i dirititi di una parte dei lavoratori autonomi verso cui regna una totale indifferenza. Penso agli iscritti alla gestione separata Inps, che versano contributi altissimi senza avere nessuna ombra di tutela.

mercoledì, ottobre 15, 2014

Contratto unico a tutele crescenti: come funzionerà


Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è diventato il pilastro del Jobs Act. In attesa che la legge delega venga approvata in Parlamento e che i decreti delegati ne definiscano i dettagli, alcuni tratti fondamentali della nuova formula sembrano aver trovato un accordo unanime. Il “contratto unico” si applicherà ai neoassunti, darà garanzie che aumentano con il passare del tempo e cancellerà, almeno per i primi tre anni, le tutele previste dall’articolo 18 per i licenziamenti dovuti a motivi economici.

Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è diventato il pilastro della riforma del mercato del lavoro che approderà nel Jobs Act. L’idea alla base è quella di modificare il contratto a tempo indeterminato facendo in modo che le garanzie per chi lavora aumentino in base all’anzianità di servizio.

Ma come funzionerà? Nella legge delega all’esame del Parlamento non ci sono ancora i dettagli, ma alcuni aspetti sembrano mettere d’accordo tutti. La nuova formula si applicherà ai neoassunti e sarà un contratto a tempo indeterminato che permetterà al datore di lavoro, nei primi trentasei mesi, di licenziare il lavoratore in ogni momento per motivi di carattere economico. 

Se l’imprenditore decide di interrompere il rapporto di lavoro durante i primi tre anni ha l’obbligo di corrispondere al lavoratore un’indennità in denaro che aumenta con il passare del tempo. Licenziare un dipendente costerà progressivamente sempre di più. Starà poi alla legge stabilire a quanto debba ammontare la compensazione per il dipendente. Si andrebbe da due a sei mesi di retribuzione. Ma per ora è soltanto un’ipotesi.

Nella fase di inserimento dei primi tre anni, quindi, l’unica tutela è l’indennizzo monetario (a meno che non si tratti di licenziamenti disciplinari e discriminatori). Se invece l’interruzione del rapporto di lavoro è per giusta causa, la compensazione monetaria non va riconosciuta.

Nel periodo di inserimento, il lavoratore viene tutelato dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio  e il licenziamento disciplinare considerato illegittimo (solo in alcuni casi gravi, che verranno definiti dai decreti delegati). In caso di licenziamento per motivi economici, invece, varrebbe soltanto la protezione dell’indennizzo. Al lavoratore verrebbero cioè riconosciuti da due a sei mesi di salario, a seconda del tempo passato in azienda, e non il reintegro sul posto di lavoro.

Ma cosa succederebbe dopo i primi tre anni? Su questo punto non c’è ancora accordo. Le ipotesi in campo però sono sostanzialmente tre. C’è chi vorrebbe fare in modo che, superata la fase di inserimento, anche il contratto unico venga regolato dalla stessa disciplina dei licenziamenti che vige oggi.

In altre parole, passati i tre anni, il lavoratore sarebbe di nuovo tutelato pienamente dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: nelle aziende con più di quindici dipendenti, un licenziamento riconosciuto dal giudice come illegittimo darebbe quindi diritto alla cosiddetta “tutela reale”, ovvero la reintegrazione in azienda.

L’ipotesi “hard” invece è quella che prevede l’abolizione della protezione dell’articolo 18: in caso di licenziamento (tranne quello discriminatorio  e quello disciplinare in alcune forme gravi), il dipendente avrebbe diritto soltanto a un indennizzo che cresce proporzionalmente all’anzianità di servizio. 
La terza possibilità in ballo - una via di mezzo tra le prime due - sarebbe quella di far valere la protezione dell’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (si parla di sei, dodici o quindici) oppure quando il dipendente raggiunge una certa età.

A differenza di altre tipologie contrattuali come l’apprendistato, il contratto unico potrebbe essere applicato a tutti e non solo agli under 30. In questo modo, il reinserimento per categorie come le donne dopo il periodo di maternità o gli over 50 sarebbe più semplice.

giovedì, ottobre 09, 2014

Massagli (Adapt) «La concertazione? Renzi l’ha archiviata definitivamente. Non vuole che i sindacati facciano politica»


Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione degli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi, commenta la scelta del premier di aprire un confronto con le organizzazioni sindacali prima del voto al Senato sul Jobs Act. «Ascoltare per un’ora i sindacati non significa riaprire l’era della concertazione ma semplicemente fare un atto di garbo istituzionale. Il presidente del Consiglio non ha interesse nei sindacati e fa in modo di relegarli alla loro funzione primaria: occuparsi delle questioni di lavoro tra aziende e lavoratori come la contrattazione di secondo livello, su cui il governo punta molto»

Tra Matteo Renzi e i sindacati la scintilla non è mai scoccata. Fin dai primi giorni a Palazzo Chigi, il premier non ha risparmiato frecciate alle organizzazioni sindacali. Le ha accusate di non essere in contatto con la realtà e – peggio ancora – di aver contribuito a creare un vero e proprio apartheid tra lavoratori tutelati e precari. Eppure, il giorno prima della fiducia in Senato sul Jobs Act, il disegno di legge delega che riforma il mercato del lavoro, il presidente del Consiglio ha convocato i sindacati per  un confronto.

Un gesto che equivale a reintrodurre la concertazione all’interno dello scenario politico? Secondo Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione per gli studi sul lavoro Adapt, non è così: l’epoca dei sindacati che fanno politica è finita. Il gesto del capo del governo sarebbe più che altro dovuto all’eleganza istituzionale e alla voglia di mettere tra le priorità il tema della contrattazione di secondo livello.

Il giorno prima della fiducia sul Jobs Act, Renzi ha riaperto la Sala Verde di Palazzo Chigi convocando i sindacati a discutere della riforma del mercato del lavoro. È ripartita la concertazione?
No, non è ripartita. Ed è molto probabile che la concertazione così come l’abbiamo conosciuta, ovvero quel concetto diffuso negli anni ’80 e ’90 in base al quale i sindacati sono legittimati a fare politica, sia definitivamente superato e archiviato. Il premier ha incontrato i sindacati per un’ora e le aziende per meno di un’ora: il tempo era poco. Più che un momento di confronto, è stato un momento informativo doveroso vista la portata degli interventi in approvazione sul lavoro. Ritengo che sia stato un passaggio voluto anche per eleganza istituzionale. E tra l’altro non mi sembra che le parti sociali al momento siano in grado di condizionare l’attività del governo.

Sembra però che nel testo in esame al Parlamento, alcuni temi spinosi come il superamento dell’articolo 18 e la riforma della disciplina dei licenziamenti siano stati “rinviati” ai decreti attuativi. Non sarà che qualche effetto l’incontro con Cgil, Cisl e Uil l’ha avuto?

Su questo tema c’è stata probabilmente confusione. È stato detto che nel maxiemendamento del governo non si parla di licenziamenti. Ma nella delega, di fatto, si fa riferimento all’introduzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e già in principio non era previsto esplicitamente il superamento dell’articolo 18. Le norme sui licenziamenti, nel dettaglio, saranno stabilite con i decreti attuativi. 

Qual è la sua previsione riguardo ai futuri rapporti tra il governo e le organizzazioni sindacali: come si evolveranno?
Francamente credo che il rapporto rimarrà scarso, se non nullo, anche nei prossimi mesi e durante la redazione dei decreti attuativi che concretizzeranno il Jobs Act. Matteo Renzi non ha interesse nei sindacati, non crede al loro impatto, non teme la piazza. Al massimo, teme la sua minoranza in Parlamento. Se non altro perché vota e il Jobs Act deve necessariamente essere approvato nelle due Camere.

Tra i temi all’ordine del giorno c’è stato anche “l’ampliamento della contrattazione decentrata e aziendale”. Perché tanta attenzione sul tema? Quanto è vantaggioso, per le imprese e i lavoratori, potenziare la contrattazione di secondo livello?
Come Adapt abbiamo un’osservatorio sulla contrattazione di secondo livello. A marzo pubblicheremo primo rapporto, in cui intendiamo dimostrare, contratti alla mano, che in Italia di contrattazione aziendale se ne fa già tanta di buona qualità e che è uno strumento che permette di affrontare meglio la crisi. Le aziende che hanno attivato una contrattazione di secondo livello reale sono più capaci di fronteggiare la recessione senza ledere i diritti di nessuno e con modalità intelligenti.

Come si spiega il sostegno che Renzi continua a dare al tema?
Probabilmente deriva dall’intenzione di “relegare” il sindacato nel suo ambito originario: la gestione deille questioni di lavoro. Partendo dalla concezione per cui è tanto più facile rispondere ai bisogni quanto più si è vicini ai bisogni, Renzi non sopporta politicamente che il sindacato parli per tutti e voglia dire la sua sulla politica economica a livello nazionale. L’idea di sostenere il livello aziendale è coerente con questa sua logica. E allo stesso modo lo è il sostegno a una legge sulla rappresentanza e al salario minimo: contribuisce a spostare il sindacato verso una dimensione tecnica, subordinata alla politica, in cui queste organizzazioni diventano fondamentali soltanto per interagire con le aziende e per affrontare le questioni lavorative che si pongono di volta in volta.

Garanzia Giovani: a che punto siamo? La situazione Regione per Regione.


Come sta andando il programma per rilanciare l’occupazione co-finanziato dalla Ue? A giudicare dai primi dati, non decolla ancora. Finora, i ragazzi che si sono registrati sono poco più di 220 mila, quelli convocati dai servizi per il lavoro sono 70 mila e 50 mila hanno ricevuto il primo colloquio di orientamento. Le vacancy, ovvero le occasioni di lavoro inserite dalle aziende direttamente sul portale o tramite le agenzie per il lavoro, sono quasi 16 mila, per un totale di poco più di 22 mila posti disponibili. Il 71,7% delle vacancy è concentrata al Nord, il 14,4% al Centro e il 13,8% al Sud. Ecco lo stato dell'arte della Youth Guarantee e le iniziative delle Regioni per promuoverla.


Doveva essere lo strumento giusto per rilanciare l’occupazione giovanile in Italia. Rendere più fluido l’incontro tra domanda e offerta, aumentare l’occupabilità dei giovani Neet (che non studiano e non lavorano) e migliorare i servizi e le politiche attive per il lavoro. Finora invece, a cinque mesi dal suo esordio (primo maggio), la Garanzia giovani si sta dimostrando una grande incompiuta.

In base agli ultimi dati forniti dal Ministero del Lavoro (2 otoobre), i ragazzi che si sono registrati all’iniziativa sul portale garanziagiovani.gov.it o sui portali regionali sono poco più di 220 mila (223.729) su una platea potenziale di due milioni di inattivi. Di questi, 69.347 (meno di un terzo) sono stati convocati dai servizi per il lavoro e 49.577 (poco più di 1 su 5 degli iscritti) hanno ricevuto il primo colloquio di orientamento.

Il programma, finanziato con 1,5 miliardi di euro, prevede che a ciascun candidato sia offerta un’opportunità di lavoro o di tirocinio entro quattro mesi dalla registrazione. Ma vista la sproporzione tra iscritti e convocati, c’è da supporre che a qualcuno il telefono non sia squillato in tempo. 
Oltre ai possibili ritardi, però, il dato che deve far riflettere è un altro: le vacancy, ovvero le occasioni di lavoro inserite dalle aziende direttamente sul portale o tramite le agenzie per il lavoro, sono al momento solo 15.578, per un totale di 22.270 posti disponibili. Il 71,7% delle vacancy è concentrata al Nord, il 14,4% al Centro e il 13,8% al Sud.

Tra le occasioni, la maggior parte sono offerte di lavoro a tempo determinato (11.669). Naturalmente, che le opportunità di questo tipo fossero molte di più di quelle a tempo indeterminato (2.112) era prevedibile. Fa una certa impressione, invece, notare che le vacancy legate all’apprendistato (295) e al tirocinio (981) siano pochissime, nonostante il programma intenda spingere proprio su queste tipologie contrattuali e di formazione per avvicinare i giovani al mercato del lavoro.

Curioso, inoltre, che tra i lavori messi a disposizione ci siano anche quelli autonomi: ben 251 le vacancy. In pratica, c’è chi usa il canale Youth Guarantee per trovare partite Iva a cui affidare incarichi e “lavoretti” di vario tipo. Probabilmente non è per questo che l’iniziativa è stata lanciata e finanziata.

Le istituzioni a cui spetta concretamente di implementare Youth Guarantee con azioni di politica attiva sono le Regioni, che hanno il compito di gestire tutte le attività decidendo come impiegare i fondi Ue e nazionali a disposizione, di coordinare i servizi per l’impiego e di emanare periodicamente i bandi con gli incentivi a favore delle aziende partecipanti al programma.

Tuttavia, sui portali regionali non si trovano informazioni puntuali su ciò che le Regioni stanno facendo per portare avanti il programma. Gli unici dati disponibili arrivano da alcune notizie presenti sui report settimanali pubblicati dal Ministero del Lavoro e dall’attività di comunicazione delle singole Regioni.

Ma una piccola “mappa” dello stato dell’arte della Garanzia giovani nelle Regioni si può comunque tracciare, partendo dal monitoraggio di alcune situazioni. Intanto, sappiamo che la maggior parte dei candidati iscritti risiede in tre Regioni del Centro-Sud: Sicilia (35.939 unità, il 16% del totale), Campania (30.951, 14%) e Lazio (14.978, 7%).

Queste tre Regioni assorbono anche il maggior numero di adesioni: Sicilia (35.712), Campania (30.014), Lazio (22.795) In altre parole, sono stati i territori più scelti per usufruire dei servizi messi a disposizione dal programma. Davanti a queste cifre, ognuna delle tre Regioni sta facendo le sue mosse, anche in base alla propria quota di risorse a disposizione.

La Sicilia, che ha una dotazione finanziaria di 178,8 milioni di euro ha attivato tutte le misure previste dal programma, tra cui accoglienza, formazione, apprendistato, tirocini. Ha cercato di ampliare la platea dei beneficiari della Garanzia Giovani con il Piano Giovani (anche se un problema alla piattaforma informatica ne ha complicato l’attuazione scatenando vibranti polemiche), al quale ha destinato 19,25 milioni per percorsi di tirocinio per giovani disoccupati/inoccupati, diplomati o in possesso di qualifica professionale, fino a 35 anni. In più, ha lanciato una selezione (programmata per lo scorso 30 settembre) per 1.800 ex lavoratori degli sportelli anche con l’obiettivo di supportare, grazie alla competenze di questi lavoratori, i centri per l’impiego nell’ambito di Youth Guarantee.
La Campania, che può utilizzare oltre 180 milioni di euro, ha fatto in modo che Garanzia giovani si integrasse con altre misure di politica attiva già programmate come “Campania al lavoro” (bonus occupazionale alle imprese). La Regione ha firmato un accordo con la Regione Calabria per la condivisione di strumenti di politiche attive del lavoro, ha siglato un protocollo d'intesa con i Giovani Imprenditori di Confcommercio della Provincia di Napoli per promuovere Garanzia giovani nell'ambito delle aziende del terziario e ha pubblicato un bando per attivare tirocini di sei mesi, retribuiti fino a 500 euro mensili, all'interno delle Pubbliche amministrazioni.

Il Lazio, per cui sono stati stanziati circa 137 milioni di euro, ha puntato in particolare sul bonus occupazionale (oltre 35 milioni) e su misure di accompagnamento (34.5 milioni). Ha firmato diversi protocolli d’intesa con associazioni e organizzazioni, tra cui uno con Miur, Ministero del Lavoro ed Enel che prevede l'assunzione in apprendistato di alta formazione e ricerca per il conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore di alcuni studenti dell'Istituto Tecnico “Guglielmo Marconi” di Civitavecchia.

La Regione che ha ricevuto il maggior numero di adesioni da giovani residenti in altre regioni è la Lombardia, in cui le adesioni “esterne” sono state 8.411, contro le 11.425 interne. La dotazione finanziaria di cui la Lombardia dispone per Garanzia giovani è di 178 milioni di euro, impiegati principalmente per tre misure: bonus occupazionali per le imprese (quasi 53 milioni), tirocini per supportare l'inserimento lavorativo delle persone (oltre 37 milioni), e accompagnamento al lavoro (oltre 40 milioni). Dote Unica Lavoro è lo strumento utilizzato in regione per accedere alle misure di Garanzia Giovani. 
Il Piemonte, che ha ricevuto 17.101 adesioni (12.999 interne e 4.102 esterne), dispone di oltre 97,4 milioni di euro, la maggior parte dei quali “investiti” per formazione e tirocini. La Regione è una di quelle che ha scelto di non attivare tutte le misure previste dal programma. Quelle rimaste fuori sono: apprendistato, autoimprenditorialità, bonus assunzionale per le imprese e mobilità professionale. Tra le attività che si fanno sul territorio per promuovere il piano ci sono i "lunedì giovani", incontri di orientamento e di supporto nella ricerca del lavoro presso i centri per l'impiego per i giovani under 30. A quest’iniziativa, promossa dalla Provincia di Torino, contribuiscono anche gli esperti delle risorse umane di alcune aziende del territorio. Infine,  l'Agenzia Piemonte Lavoro, con l'organizzazione no-profit Fondazione Human+ ha avviato un percorso per sostenere la creazione di imprese tra i giovani che hanno aderito a Garanzia Giovani.