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giovedì, dicembre 04, 2014

Jobs Act e Garanzia Giovani: quali saranno i veri cambiamenti


La riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi convince, ma non del tutto. La Youth Guarantee è un’opportunità ancora da sfruttare. Sono questi i temi di cui si è discusso il 28 novembre a Milano durante il convegno “Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani?”, organizzato da Synergie Italia e Adapt. Tra i relatori Giuseppe Garesio (ad di Synergie Italia), Oscar Giannino ed Emmanuele Massagli (presidente Adapt)

La riforma del mercato del lavoro targata Renzi riuscirà ad avere un impatto positivo sull’occupazione? Il governo e le Regioni saranno capaci di non sprecare l’opportunità della Youth Guarantee? Se ne è discusso il 28 novembre nella sede di Assolombarda a Milano durante il convegno “Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani?”, organizzato da Synergie Italia e Adapt, associazione di studi sul lavoro fondata da Marco Biagi. L’iniziativa faceva parte dei progetti per celebrare i 15 anni di attività di Synergie Italia.

«Il Jobs Act? Luci e ombre», ha commentato Oscar Giannino, giornalista ed ex leader del movimento Fare per fermare il declino. «È il quinto intervento sul mercato del lavoro in cinque anni: così le imprese non ci capiscono nulla. Ma i pregi ci sono, a cominciare dall’abolizione della compresenza tra reintegro e indennizzo in caso di licenziamento economico».

Ma la riforma sarà in grado di risolvere i problemi del mercato del lavoro? Secondo il giornalista, che aveva il compito di moderare il dibattito, molto dipenderà dai decreti attuativi. «Bisognerà capire come verranno tipizzati i licenziamenti disciplinari riguardo al reintegro e cosa si stabilirà sul calcolo degli indennizzi. Inoltre, se l’introduzione del contratto a tutele crescenti è apparentemente molto ragionevole sarà necessario capire come sarà effettuato lo sfoltimento degli altri contratti a termine: i call center, per esempio, già temono che l’abolizione del contratto a progetto potrebbe equivalere per loro alla disoccupazione».

Anche Giannino, poi, si unisce al coro delle critiche – provenute da varie parti, sia politiche che sociali – secondo cui il Jobs Act ha posto poca attenzione all’apprendistato («che invece andrebbe rafforzato») e al lavoro autonomo. «In questo momento – ha concluso – è difficile quindi elaborare l’effetto sull’occupabilità».

Per fare analisi è necessario partire da dati condivisi. Invece, proprio il 28 si è assistito alla “guerra di numeri” tra il Ministero del Lavoro (più di 400 mila nuovi “posti fissi” in base alle comunicazioni obbligatorie relative al lavoro dipendente e parasubordinato nel terzo trimestre del 2014) e l’Istat (disoccupati a quota 3,41 milioni in base alle rilevazioni mensili e trimestrali).

A ridare un senso alle cifre ci ha pensato Emmanuele Massagli, presidente di Adapt. «Osservando le comunicazioni obbligatorie, notiamo che gli avviamenti di rapporti di lavoro sono stati nel terzo trimestre 2,47 milioni, il 2,4% in più rispetto allo stesso periodo 2013», ha detto Massagli. «Allo stesso tempo, le cessazioni sono state 2,41 milioni. La maggior parte dei rapporti di lavoro sono quelli a tempo determinato, visto che il Ministero comunica che sono il 70% circa dei nuovi contratti. Questa prevalenza è anche una conseguenza della riforma Fornero, che aveva irrigidito più o meno tutte le altre forme contrattuali tranne il tempo determinato».

Un elemento rilevante, secondo il presidente Adapt, riguarda l’apprendistato. «Dalle comunicazioni obbligatorie emerge che è cresciuto del 3%: è poco, ma è un dato interessante». Sezionando invece i numeri dell’Istat, Massagli ha evidenziato che il numero dei disoccupati in Italia (3 milioni e 410 mila) è aumentato, così come il tasso di disoccupazione (arrivato a 13,2%). «Ma le statistiche ci dicono anche che la quantità di over 50 al lavoro è aumentato: è un dato in controtendenza, che segnala la voglia di tornare a lavorare».

Per Massagli, alcune delle misure previste dal Jobs Act, come il contratto a tutele crescenti e la decontribuzione, sono in grado di incidere positivamente sul lavoro degli adulti. «Le imprese si trovano così a pagare di meno per avere personale preparato. Ma per i giovani, come ha dimostrato la bassa efficacia degli interventi degli ultimi governi, la decontribuzione non funziona». Una novità del Jobs Act è definire il contratto a tempo indeterminato come la forma “comune” di rapporto di lavoro. «È in grado questo contratto di leggere il mercato del lavoro del futuro? Ho i miei dubbi».

Un’altra incognita è rappresentata dall’abolizione del contratto a progetto. «Attenzione – ha avvertito lo studioso –. Se questa misura non sarà realizzata in modo graduale, centinaia di migliaia di lavoratori rischierebbero di rimanere senza impiego». Infine, una nota sull’introduzione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione. «A parte l’infelice scelta dell’acronimo, mi chiedo: a che serve un’agenzia del genere se poi non si è capaci di far conoscere uno strumento importante come la Garanzia Giovani?».


I più chiamati in causa sono naturalmente i politici. E il parlamentare presente, Stefano Lepri, senatore Pd componente della commissione Lavoro, ha difeso gli intenti della riforma approvata alla Camera (e in via di approvazione al Senato) sottolineando i potenziali punti di forza. «Il contratto unico, assimilando in termini di flessibilità in uscita le imprese sotto i quindici dipendenti con quelle che ne hanno di più, è una misura potente per centinaia di migliaia di imprese: il fatto che ci siano pochissime aziende tra i 15 e i 20 dipendenti è la prova che al momento la legislazione è troppo rigida».

Quanto alle politiche attive per il lavoro, l’auspicio di Lepri è che si arrivi a una situazione in cui le agenzie private si occupano del matching tra domanda e offerta di lavoro mentre i centri per l’impiego supervisionano altre questioni di carattere organizzativo e burocratico.

Un no secco al Jobs Act, eccetto qualche eccezione, arriva da Valentina Aprea, assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro della Regione Lombardia. «È una delega in bianco al governo, a spesa pubblica sostanzialmente invariata, che difficilmente creerà nuova occupazione e che crea carrozzoni pubblici come l’Agenzia nazionale per l’occupazione», tuona l’assessore. «La strada giusta per creare posti di lavoro è la detassazione del lavoro per le imprese».

Come amministratrice, Aprea si concentra sull’applicazione di Garanzia Giovani che in Lombardia, caso raro, sta producendo risultati piuttosto soddisfacenti. «Il governo non ha lavorato bene su questo strumento. Ma è troppo presto per dire che la Youth Guarantee è fallita. Se sta cominciando a funzionare da noi in Lombardia, può succedere anche altrove».

Non si tirano fuori dal dibattito anche le imprese, che per bocca di Alessandro Maggioni, presidente dei Giovani imprenditori Confindustria Monza e Brianza, dicono: «Gli incentivi della Garanzia Giovani e dei bonus occupazionali sono poco chiari: ci abbiamo capito poco. In ogni caso, per quanto le riforme possano costituire un buon terreno per creare più occupazione, i “contadini” che assumono sono gli imprenditori e possono farlo solo se ci sono le condizioni giuste nell’economia. Ecco perché prima ancora del Jobs Act, serve una politica industriale efficace». Il Jobs Act può funzionare, spiega l’imprenditore. Ma è importante che, riguardo alla nuova disciplina dei licenziamenti economici, sia ben chiaro l’indennizzo da corrispondere al lavoratore.

Se il parere dei sindacati è generalmente contrario alla riforma made in Renzi, la Cisl è la voce fuori dal coro. Roberto Benaglia, segretario confederale Cisl Lombardia con delega al mercato del lavoro, fa notare che il suo sindacato non partecipa allo sciopero generale indetto dalla Cgil il 12 dicembre e approva le linee di fondo del Jobs Act. «Riduce il dualismo tra i lavoratori con contratto a tempo indeterminato o che lavorano in imprese con più di 15 dipendenti e chi lavora senza un rapporto a tempo indeterminato e in piccole aziende».

Un elemento determinante, per il sindacalista, è l’attenzione che la riforma del mercato del lavoro pone sulla tutela dei periodi di disoccupazione. «Puntare più risorse sugli ammortizzatori per la disoccupazione è positivo. Fa in modo che la cassa integrazione torni a essere uno strumento per fronteggiare brevi periodi di crisi».

Un soggetto che, in questo contesto, può svolgere un ruolo determinante sono le agenzie per il lavoro. Come ha spiegato Giuseppe Garesio, amministratore delegato di Synergie Italia. «Come Synergie Italia, festeggiamo i 15 anni di attività. Siamo partiti nel 1999, quando la legge Treu ha introdotto, con trent’anni di ritardo rispetto al resto d’Europa, il lavoro interinale. E ora, nel 2014, così come tutte le agenzie per il lavoro, possiamo essere protagonisti di questo cambiamento che il Jobs Act può generare, in quanto siamo una porta di ingresso gratuita per il lavoro permanente: non a caso, moltissimi lavoratori trovano un impiego stabile dopo una missione svolta attraverso un’agenzia per il lavoro. Questo ruolo delle agenzie va riconosciuto. E si può davvero fare in modo che pubblico e privato progettino insieme le politiche attive per il lavoro. Questa riforma ha molti tratti positivi, tra cui il passaggio verso processi “europei” di flexicurity. È una grandissima occasione di voltare pagina e non dobbiamo perderla».

L’incontro è stato chiuso da un’altra voce imprenditoriale: Michele Angelo Verna, direttore generale di Assolombarda. «Il Jobs Act? Sembra una riforma buona. È positivo per esempio che il tempo indeterminato venga definito la forma normale per i rapporti di lavoro. Il testo di legge, inoltre, sottolinea che i contratti devono essere “più convenienti” per le imprese: è un buon segno. Sono previsti sgravi per i primi tre anni: bene, vediamo se diventa una misura strutturale. O ancora, il demansionamento: può essere un’alternativa al licenziamento che prima non era prevista».

Semaforo verde, quindi. Ma purché al momento dei decreti, quando si deciderà concretamente come far funzionare la riforma, il governo non si muova in solitaria. «Il ministro Poletti ha parlato volutamente di “delega alta”. Al momento buono bisognerà discutere e confrontarsi con tutti: imprese, sindacati, esperti e media».

lunedì, dicembre 01, 2014

Stage: cosa cambia in Europa tra un Paese e l’altro


Un rapporto curato dalla Commissione europea mette a confronto il quadro normativo su stage e tirocini (e, in alcuni casi, apprendistati) nei Paesi membri dell’Unione. I tratti comuni sono molti, a cominciare dal fatto che il numero di stage attivati cresce di continuo e che ci sono almeno cinque tipologie ricorrenti. Altri aspetti piuttosto uniformi sono il basso (o nullo) compenso riservato ai tirocinanti e le degenerazioni presenti in alcuni settori come le agenzie creative e i media. Ma al di là degli elementi negativi c’è ovunque la consapevolezza che si tratti di uno strumento prezioso per avvicinare scuola e lavoro

Stage, tirocini, internship. Come sono in Europa? Cosa cambia tra uno Stato e l’altro? Una possibile risposta a queste domande la fornisce una ricerca della Commissione europea  condotta in tutti i Paesi membri (manca solo la Croazia, ultima arrivata, ma lo studio risale a due anni fa).

L’indagine è stata realizzata dal centro di ricerca britannico Ies, dall’italiano Irs (Istituto per la ricerca sociale) e dal tedesco Bibb e mette a confronto gli ordinamenti sui tirocini dei 27 Stati Ue, dedicando a ciascuno di essi uno specifico approfondimento.

Dalla sintesi iniziale è possibile capire quali siano i trend comuni in Europa riguardo al tema stage, a cominciare dal fatto che l’informazione relativa all’argomento non è omogenea in tutti i Paesi: le fonti, quindi, sono di vario tipo.

Lo studio parte con il catalogare le varie forme di stage reperibili nel Vecchio Continente. Ne individua cinque: stage curriculari, ovvero legati al percorso formativo, universitario e non; tirocini post-laurea finalizzati all’ingresso nel mondo del lavoro; percorsi inseriti all’interno di programmi di politiche attive per il lavoro; quelli necessari per ottenere una qualifica; internship offerti da vari programmi internazionali, tra cui il Leonardo.
Alcuni aspetti valgono in tutti i Paesi membri. Il primo è proprio la proliferazione dei tirocini, a cui è seguita una serie di azioni per disciplinarli, orientarli e dotarli di regole più ferree.  Un altro elemento comune riguarda il compenso, spesso scarso o addirittura assente, per questa tipologia di formazione/lavoro.

Quando ci sono, i fondi a disposizione per finanziare queste forme di accesso al lavoro derivano quasi sempre da fondi europei, nazionali e regionali, borse di studio universitarie, bandi pubblici oppure iniziative di privati e aziende. Altrimenti, il tirocinante è costretto ad autofinanziarsi l’esperienza di stage

Grosse differenze si riscontrano riguardo alle definizioni di stage e di tirocinante. Nella maggior parte degli Stati membri c’è persino una definizione legale e di solito mette in relazione strettissima la formazione e il lavoro. Sintetizzando viene definito come un’esperienza che ha fini educativi/formativi, è legata all’apprendere un mestiere, una professione o una competenza e ha carattere temporaneo.

Così come non esiste una definizione omogenea e condivisa, non si può individuare neanche una normativa comune. E la discrepanza non è solo tra Stati ma anche tra varie forme di stage. Quelle più legate alla formazione o alle politiche attive per il lavoro tendono a essere le tipologie con il quadro normativo più solido. Mentre gli stage attivati liberamente sul mercato sono di solito meno regolati. Le norme relative agli stage si trovano in leggi e regolamenti che afferiscono tanto alla legislazione sul lavoro che a quella sull’istruzione.

Va notato – si sottolinea nell’indagine – che la presenza di leggi e regole non è una garanzia di qualità dello stage. È necessaria una corretta applicazione delle norme e un attento monitoraggio dell’intero processo. Anche se – precisa il rapporto – un dato positivo è costituito dal fatto che nelle varie normative nazionali tendano a essere approvate leggi che migliorano le condizioni degli stagisti.

 I settori in cui è più facile che vengano attivati degli stage sono: quelli in cui è necessario un periodo di tirocinio (o di apprendistato, a seconda dei casi) per accedere alla professione (medicina, legge, insegnamento, architettura), i media, il giornalismo, le agenzie creative, il settore pubblico, il terzo settore, l’ospitalità e i servizi finanziari.

In alcuni di questi comparti – soprattutto agenzie creative, media e giornalismo – gli stage sono generalmente associati a: bassi contenuti di apprendimento, condizioni di lavoro insoddisfacenti, rimborsi/compensi inadeguati, contratti di stage rinnovati di continuo senza un’offerta di lavoro permanente. Inoltre, in questi contesti, non è raro vedere stagisti che vengono “assunti” al posto del personale regolare.

Ma al di là degli elementi negativi e delle distorsioni, c’è una consapevolezza comune, in Europa, secondo cui stage, tirocini (e apprendistati, laddove queste forme vanno a coincidere) sono uno strumento importante per facilitare la transizione dalla scuola al mondo del lavoro.

mercoledì, novembre 26, 2014

5 o 12 dicembre? Il caos scioperi, le mobilitazioni incrociate e la questione del “ponte”


La decisione della Cgil di convocare lo sciopero generale il 5 dicembre ha suscitato molte polemiche. «Il giorno è stato scelto per approfittare del ponte dell’Immacolata», è stata la critica più diffusa. In più, l’Autorità garante per gli scioperi ha definito «parzialmente illegittima» la mobilitazione in quella data. Anche per questi motivi, lo sciopero generale è stato rinviato al 12 dicembre. Ma anche in questo caso, ci sarebbero problemi e sovrapposizioni con altre manifestazioni

Di questo passo potrebbero chiamarlo Scioperogate. È tutta la bagarre di critiche che si è scatenata intorno alla decisione della Cgil – già abbandonata – di convocare per il 5 dicembre lo sciopero generale contro il Jobs Act e il governo Renzi.

La mobilitazione, che ora è stata fissata per il 12 dicembre, aveva scatenato polemiche da più parti per la scelta, giudicata infelice, del giorno. La prima data individuata – il 5 dicembre – poteva infatti dare ai lavoratori quattro giorni di astensione dal lavoro.

Infatti, come sintetizzato su Twitter dal responsabile innovazione e pubblica amministrazione del Partito democratico, Ernesto Carbone: «Il 5 dicembre è un venerdì poi sabato, domenica e lunedì 8 dicembre che è festivo… Il ponte è servito #Coincidence». L’accusa, neanche tanto velata, è di aver fatto cadere inizialmente la scelta sul 5 per approfittare del ponte dell’Immacolata.

La risposta della Cgil, sempre sul sito di microblogging, è stata piccata: «I lavoratori quando scioperano perdono una giornata di paga». E ancora: «Lavoratori, pensionati, disoccupati, precari sono in forti difficoltà economiche e di prospettive. Per questo scioperano», ha scritto il sindacato.

La confusione si è creata anche perché interrompere servizi e trasporti proprio prima di un periodo così lungo avrebbe potuto causare disagi prolungati. Non a caso, la scelta del sindacato guidato da Susanna Camusso è stata criticata anche dall’Autorità garante degli scioperi, secondo la quale la manifestazione sarebbe stata «parzialmente illegittima» in base alle leggi che regolano gli scioperi e le interruzioni dei servizi pubblici. Almeno l’intero settore ferroviario e il trasporto pubblico locale – aveva specificato il garante degli scioperi – avrebbero dovuto garantire il servizio.

Così, lo sciopero generale è stato convocato appunto per il 12 dicembre e ad esso ha aderito anche la Uil. Ma anche in questo caso, secondo quanto riferito da Huffington Post, l’Autorità degli scioperi avrebbe parlato di «parziale irregolarità», perché per il 13 e il 14 dicembre è stato già indetto uno sciopero dei trasporti ferroviari dal sindacato CAT (Coordinamento Autorganizzato Trasporti).

Non si possono, per legge, fare scioperi nello stesso settore a un intervallo inferiore ai dieci giorni: in questo caso, potrebbe quindi trattarsi di una violazione, alla quale potrebbero seguire delle sanzioni irrogate dallo stesso garante degli scioperi. Una piccola baraonda, insomma. Che è resa ancora più agitata dal fatto che l’Ugl, il sindacato ritenuto “di destra”, aveva già fissato uno sciopero generale per la fatidica data del 5 dicembre e ha dovuto anch’esso rinviare al 12.

E allo stesso tempo, la Cisl, pur non partecipando allo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 12 ha fatto sapere che i lavoratori pubblici della sua confederazione incroceranno le braccia l’1 dicembre e a questo sciopero generale del settore pubblico ha aderito anche la Uil. Se partecipasse anche la Cgil, farebbe due scioperi generali, uno del pubblico e uno di tutti i settori, a distanza di un paio di settimane. Più che un autunno caldo sembra un autunno, anzi un inverno, piuttosto caotico.

mercoledì, novembre 19, 2014

Jobs Act, ok al controllo a distanza: e la privacy del lavoratore?


La riforma del mercato del lavoro introduce una norma che ammorbidisce il divieto di controllare i lavoratori a distanza e permette di sorvegliare con telecamere e altre apparecchiature quanto avviene ai macchinari e nei reparti, senza riprendere direttamente il singolo dipendente. Considerate le evoluzioni tecnologiche, non è comunque un rischio per la riservatezza di chi lavora?

Il divieto di sorvegliare a distanza una persona che lavora era sancito già nello Statuto dei lavoratori (legge 300 del 1970). L’articolo è il 4: «È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». L’unica eccezione prevista riguardava gli impianti «richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». L’azienda poteva sì installarli ma soltanto dopo aver stretto un accordo con le rappresentanze sindacali.

In altre parole, la privacy del lavoratore sul posto di lavoro è sacra. E per quanto possa avanzare la tecnologia, non ci deve essere strumento che vada a indagare, in assenza di un supervisore, l’operato di un dipendente.  Ma quello che fino a ieri sembrava un principio intoccabile, oggi è messo in discussione al pari degli altri tabù in materia di lavoro, come l’articolo 18, infranti dagli ultimi esecutivi.

Il governo Renzi, nell’ambito del Jobs Act, intende infatti introdurre dei meccanismi utili a verificare l’operatività e la produttività in azienda dei dipendenti. Per questo, ha in programma di rivedere la disciplina dei controlli a distanza dei lavoratori attraverso strumenti telematici, telecamere e altre apparecchiature.

Il testo iniziale, approvato in Senato il 9 ottobre, conteneva una non meglio specificata «revisione della disciplina dei controlli a distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore».

Per maggiore chiarezza, l’ala del Partito democratico più critica sul Jobs Act ha richiesto di specificare nel prossimo testo che i controlli, in assenza di un accordo sindacale, non possono riguardare i singoli lavoratori ma solo i reparti, gli impianti e i macchinari.

Anche con una formulazione del genere, alcuni dubbi però restano. Un’apparecchiatura audiovisiva in grado di controllare un macchinario non è altrettanto capace di supervisionare, indirettamente, l’attività del dipendente che con quel macchinario ci lavora? La privacy di chi lavora non rischierebbe di essere comunque compromessa?

La disposizione, inoltre, fa riferimento ai reparti. Si potrebbe quindi ipotizzare la presenza di telecamere che riprendono dall’alto l’attività di un’area produttiva. Per quanto l’impianto di videoregistrazione sia posizionato in alto e a distanza dal singolo lavoratore, non è possibile che sia in grado comunque di filmare tutto ciò che un dipendente fa sul posto di lavoro?

lunedì, novembre 17, 2014

Dall’infermiere che picchia il paziente al lavoratore che mostra i genitali Quando il reintegro in base all’articolo 18 è un paradosso



L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevede, stando così le cose, la possibilità di essere reintegrati sul posto del lavoro in caso di licenziamenti considerati illegittimi per motivi discriminatori, disciplinari ed economici. Da forma di tutela per il lavoratore, questo strumento si trasforma in taluni casi in trappola per il datore di lavoro. A dimostrarlo sono alcune storie di reintegrazioni paradossali e controverse ordinate da giudici forse un po’ troppo benevoli verso chi lavora. All’interno del saggio collettivo “Art. 18: la reintegrazione al lavoro”,  il giuslavorista Andrea Del Re ne ha raccolte di particolarmente “gustose”: il lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini, l’ubriaco cronico, il vigile del fuoco rapinatore. Tutti riammessi sul posto del lavoro in nome di un diritto che, in queste circostanze, confligge con un principio altrettanto sano: il dovere di lavorare onestamente


L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è uno dei nodi principali intorno al quale convergono i conflitti tra governo, sindacati e minoranza parlamentare. Il Jobs act targato Renzi, se sarà approvato in entrambe le Camere, dovrebbe abolire la parte che prevede il reintegro dei lavoratori in caso di licenziamenti per motivi economici considerati illegittimi. La possibilità di essere riammessi in azienda resterebbe invece per i licenziamenti discriminatori e quelli legati a determinate questioni disciplinari gravi.

Ma l’istituto del reintegro ha ancora senso nel nostro mercato del lavoro, dove solo 6,5 milioni di lavoratori su 22 sono tutelati dall’articolo 18? La risposta a questo quesito non può che essere diversa a seconda dei punti di vista. Un aspetto che però merita di essere preso in considerazione riguarda la casistica dei reintegri ordinati dai giudici da quando questo strumento esiste. Accanto a quelli sacrosanti, imposti laddove il datore di lavoro aveva licenziato senza giusta causa (o senza giustificato motivo) un dipendente, ce ne sono altri quantomeno discutibili.

Alcuni esempi di reintegri difficili da digerire sono stati raccolti dal giuslavorista Andrea Del Re nel saggio collettivo Art. 18: la reintegrazione al lavoro, curato da Massimo Bornengo e Antonio Orazi (Esculapio, 2012, 120 pagine, 20 euro). Del Re le definisce le “perle” dell’applicazione dell’articolo 18.

A partire dalla vicenda di un infermiere che picchiò un paziente affetto da ritardo mentale ma il giudice (Tribunale di Roma, ottobre 2001) impose alla clinica di riammetterlo nel posto del lavoro perché si era trattato di «un fatto isolato ed eccezionale in relazione a un paziente particolare». La giustificazione diventa ancora più particolare quando il tribunale afferma che «l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni non può giustificare quella che rimane un’estrema ratio». Lo choc della casa di cura, soprattutto in relazione all’immagine presso gli altri pazienti, fu tanto che acconsentì a dare un risarcimento salatissimo all’infermiere pur di non riaverlo alle sue dipendenze.

In Toscana, nel 2003, un tribunale arrivò a giustificare un tentativo di rapina in banca operato da un vigile del fuoco. Secondo il magistrato, evidentemente esperto di cinema, le circostanze in cui era avvenuto il fatto non erano tali da «ricondurre il delitto alla tipologia di quello ideato in Rapina a mano armata, di Stanley Kubrick, risalente al lontano 1956». Nella sentenza si legge poi che è importante «richiamare l’attenzione sulla concreta, differenziata, pericolosità sociale che un delitto, al di là del suo nome, si presta a rivelare, e spesso insufficiente, senza conoscere la storia della persona». Cioè, il tentato furto non era sufficiente per rilevare la complessità della persona che lo ha complesso e comunque non così grave da fargli perdere il posto di lavoro.



Neanche gli atti a sfondo sessuale sono sempre considerati abbastanza gravi da far pendere la bilancia da parte del datore di lavoro. Il pretore di Bolzano nel 1982 ha reintegrato sul posto di lavoro un lavoratore che aveva mostrato due volte i genitali ai colleghi, con l’attenuante che l’atto non era dettato da istinti sessuali e che non era rivolto a persone di sesso femminile.

La discriminante, quindi, è il genere? No, perché un altro esibizionista che si è reso colpevole dello stesso tipo di molestia davanti a una collega è stato “graziato” e reintegrato da un magistrato di Milano nel 1995, che ha ritenuto il fatto sicuramente degno di condanna ma il provvedimento disciplinare connesso – il licenziamento, appunto – sproporzionato alla gravità dell’illecito.

Un caso che ha fatto storia è quello dell’alcolista cronico reintegrato. Il grande giurista Giuseppe Pera la definì la «sentenza dell’ubriaco fisso». La Cassazione – si legge nel saggio di Del Re – arrivò a dire che «nel rapporto di lavoro subordinato, l’assenza dal servizio e l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione della medesima non possono costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento quando son dovute, non già a stati di ubriachezza, bensì ad un danno cerebrale, costituente l’esito  della prolungata assunzione dell’alcol e dei suoi effetti» (Cass. n.1314/1997). Per sintetizzare il paradosso, l’autore esclama: «Insomma, se ti ubriachi una volta e sei assente, puoi rischiare; se di contro ormai sei “ubriaco fisso” (come dice il Pera) sei giustificato».

Di reintegri così controversi il saggio è pieno: dal lavoratore che si presenta al lavoro in pantaloncini corti all’uomo che picchia il collega con un tubo di ferro, dal dipendente che affigge sul muro manifesti contro la sua azienda (giustificati in quanto stampati dal partito politico al quale il lavoratore aderisce) all’impiegato burlone che fa arrivare merce non richiesta a casa del direttore generale della sua azienda mettendo firme false (uno «scherzo goliardico» non punibile con il licenziamento).

Il colmo forse si raggiunge con quello che negli ambienti di lavoro è un malcostume piuttosto diffuso. Cioè, il lavoratore che si assenta per malattia e poi svolge un secondo lavoro. Il pretore di Viareggio reintegrò sul posto di lavoro un uomo che aveva svolto attività lavorativa durante il periodo di malattia perché – recita la sentenza – «nessun danno ha arrecato al datore di lavoro». Il secondo lavoro era anzi perfino necessario «in quanto la suddetta malattia richiedeva oltre che le cure anche la necessità del lavoratore di vivere con familiari e amici e di trovare interesse nell’ambiente esterno, cosicché l’attività svolta era compatibile con lo stato di malattia la cui guarigione non solo non è stata ritardata, ma è stata anche accelerata». Insomma – chiosa ironicamente Del Re – «ammalatevi, lavorate altrove, guarirete prima!».