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mercoledì, giugno 10, 2015

Lavoro, le dieci cose che rendono felice un dipendente


Ecco qual è, secondo lindagine del Barometro Ipsos 2015, il decalogo degli interventi di welfare aziendale che contribuiscono al benessere psicofisico dei lavoratori. Dalla formazione ai buoni pasto

Essere soddisfatti sul lavoro non è soltanto una questione personale ma la risultante di una serie di condizioni presenti sul luogo di lavoro e di interventi di welfare aziendale.

In base ai dati del Barometro Ipsos 2015, una ricerca annuale condotta (su un campione rappresentativo di dipendenti di 14 Paesi europei) per conto di Edenred, società che gestisce i fondi finalizzati per le imprese, è stato stilato un vero e proprio decalogo del benessere lavorativo. Ovvero, gli elementi che contribuiscono alla felicità di un dipendente.

1. Investimento in formazione
Secondo lamministratore delegato di Edenred Italia, Andrea Keller, «l86% dei lavoratori italiani ritiene che la formazione sia lingrediente principale della competitività personale ed aziendale. Le moderne piattaforme di flexible benefit consentono di scegliere percorsi modulari allinterno di un ampio panel di scuole manageriali, università e centri di formazione»

2. Salute e  prevenzione
Per tutelare il benessere psicofisico dei lavoratori ci possono essere vari strumenti di welfare aziendale come lassistenza sanitaria, le assicurazioni integrative e gli screening per prevenire malattie.

3. Benefit su misura
Sentirsi una persona, con un ruolo e non uno tra tanti. Così come psicologicamente è utile differenziarsi, anche per i benefit servono soluzioni ad hoc che cambiano per single, mamme, junior o senior. Un programma di welfare aziendale che funziona deve essere flessibile.

4. Buoni pasto
Alimentarsi bene è fondamentale. Avere lincentivo del buono pasto induce a mangiare meglio e a curare al meglio la pausa pranzo.

5. Gestione dello stress
Tutto ciò che agevola il work-life balance, lequilibrio tra lavoro e vita privata, serve a ridurre lo stress e a rendere i lavoratori più sereni e produttivi. Alcune misure? La baby sitter a domicilio, il maggiordomo aziendale e il caregiver.

6. Aiuto per i trasporti
Arrivare al lavoro sapendo che il tragitto è costato, oltre che tempo, molto denaro, è un fattore che demoralizza chi lavora. Ecco perché i dipendenti europei sostengono che ricevere un aiuto economico per i trasporti (magari, labbonamento ai mezzi), sarebbe unagevolazione molto apprezzata.

7. Il sostegno per i consumi energetici
Così come i trasporti, anche i consumi energetici pesano molto sul bilancio familiare. Un contributo da parte dellazienda riuscirebbe a rendere più motivato il personale.

8. Lasilo nido
Se ne parla da anni, anche se non se ne fanno mai abbastanza. Per favorire il lavoro femminile ed evitare che tanta professionalità venga sprecata e non utilizzata al meglio è necessario che i genitori, e in particolare le mamme, abbiano la possibilità di poter andare al lavoro sapendo di poter lasciare il proprio figlio in una struttura sicura, meglio ancora se proprio allinterno dellazienda. Contribuire a queste spese sarebbe prioritario per togliere problemi ai lavoratori.

9. Laiuto ai familiari non autosufficienti
Negli ultimi cinquant'anni, nel nostro paese, la famiglia è profondamente cambiata. Il welfare privato - afferma Andrea Keller, lamministratore di Edenred Italia  - oggi può agire concretamente sui bisogni di nuclei familiari che al loro interno ospitano soggetti fragili (anziani, diversamente abili);  una realtà sempre più diffusa e bisognosa di supporto.

10. Aiuto ai familiari per attività sportive e culturali
Se un dipendente vede che la propria azienda si prende cura anche dei propri figli è più motivato a sentirsi parte dellazienda. Pertanto, se lazienda finanzia iniziative culturali e attività sportive, contribuisce al benessere e alla produttività dei lavoratori.

Intanto, però, nel 2015 il mercato del lavoro italiano è risultato tra i più immobili in Europa, con dipendenti sfiduciati in merito alle proprie prospettive professionali. Tanto che, secondo lindagine Ipsos, nel 66% dei casi, hanno rinunciato a ricercare attivamente una nuova posizione.

Dato ancora più allarmante è che gli italiani sono fedeli alla propria azienda soprattutto perché credono di non potersi ricollocare rapidamente (77% del campione) e perché sono tra i più sfiduciati verso il futuro, terzi solo dietro francesi e polacchi.

venerdì, giugno 05, 2015

«Lavorare gratis? All’inizio va bene». Perché le parole di Jovanotti hanno scatenato tante polemiche

La frase in cui Lorenzo racconta agli studenti dellUniversità di Firenze di aver fatto da giovane alcune attività gratuite durante le sagre paesane ha suscitato commenti piccati sulla stampa e sui social network. Un po come accadde qualche anno fa allex ministra del Welfare Elsa Fornero quando parlò di giovani choosy o del lavoro che «non è un diritto». Perché tanta virulenza nelle critiche? Probabilmente perché in un periodo del genere, lItalia non è abbastanza serena per accogliere sportivamente affermazioni sul lavoro che suonano come inusuali

La frase sembrava innocua: «Nei festival in America vedevo tantissimi ragazzi che lavoravano. Erano tutti volontari, non venivano pagati, ma si portano a casa unesperienza. È capitato anche a me. Mi sono ricordato che quando ero ragazzo anche io lavoravo gratis alle sagre e mi divertivo come un pazzo. Imparavo ad essere gentile con le persone, se mi avessero detto non lo fare, vai in colonia, sarebbe stato peggio. Ma per me quel volontariato lì era una festa anche se lavoravo alla sagra della ranocchia Mi dava qualcosa».

Apriti cielo. Per aver pronunciato queste parole davanti agli studenti dellUniversità di Firenze il 4 giugno, Jovanotti è stato bersaglio di critiche e commenti al vetriolo sui social network. Aver osato  affermare che in alcuni casi, per entrare nel mondo del lavoro, o semplicemente come alternativa al non far nulla, si possono svolgere alcune attività gratuite gli è costato per qualche ora letichetta di persona che invita i giovani a farsi sfruttare.

Il tam tam in Rete è cresciuto così in fretta che Lorenzo Cherubini ha sentito la necessità di precisare subito sulla sua pagina Facebook di essere stato probabilmente frainteso: «Ora va bene tutto, ma io di passare come quello che oggi avrebbe detto che è giusto lavorare gratis non ne ho nessuna intenzione, per il semplice fatto che non l'ho detto e non lo penso», ha scritto.

Non basta quindi la popolarità e non è sufficiente essere uno dei cantanti più amati dItalia. Una minima gaffe - posto che quella di Lorenzo lo sia - in tema lavoro non viene perdonata a nessuno. Per avere unidea delle reazioni che la frase è riuscita a scatenare basta raccogliere qualche tweet contrassegnato dallhashtag #Jovanotti.

«"Sì al #lavoro gratis se serve a fare unesperienza" Un'altra voce nel mainstream che abitua i #giovani allo sfruttamento», scrive @AleBezzi. «Non c'è niente di peggio di un milionario che dice a dei morti di fame di andare a lavorare gratis», gli fa eco @cicciogia. «Allora tutti al concerto di #Jovanotti gratis», commenta ironicamente @LisaMarinaro1. Caustico @LughinoViscorto: «#Jovanotti , braccia rubate ai lavori gratis per fare esperienza». E ancora, @LinoMilita: «Dite a #Jovanotti che i giovani in Italia già stanno lavorando gratis». O @Pimpinellas, che assume dei toni quasi rancorosi: «Capisco che è poco pratico di lavoro, non avendolo frequentato molto, ma spiegategli che quello alle sagre è una cosa diversa».

La polemica si è spinta anche sulle pagine dei siti di informazione, che hanno ospitato i commenti di giornalisti e blogger pronti a fare a fette Jovanotti per lesternazione. «Beato lui, che si divertiva, perché noi invece a smazzarci per un tozzo di pane e una pacca sulla spalla non ci divertiamo per niente. E non ci divertiamo per niente a sentirci fare la morale da qualcuno che si fa pagare, e anche molto bene, per il suo lavoro. Lavorare gratis non è etico, è immorale e inaccettabile. E quello che tu, Jovanotti, hai più o meno velatamente sostenuto è che farlo serve per diventare persone migliori. No, no e poi no», scrive Deborah Dirani sullHuffington Post.

Il tono degli interventi è quasi sempre di questo tipo: una persona affermata, che probabilmente non ha problemi nellarrivare alla fine del mese, non dovrebbe permettersi di suggerire ai giovani che esistono circostanze in cui lavorare gratis non è la fine del mondo.

Dalla parte di Jovanotti, solo poche voci. Come quella di Selvaggia Lucarelli, che dal suo profilo Facebook ha difeso il cantante così: «Ha detto una cosa semplice, e cioè che fare piccoli lavori gratis in giovane età può arricchire e perfino piacere, perché è il primo piede nel mondo del lavoro e degli adulti. Parlava della sua felicità nell'andare a portare i panini ai tavoli alla sagra della ranocchia, non a lavorare con la fiamma ossidrica 12 ore al giorno gratis per una multinazionale».

Tra i non detrattori, il giornalista Simone Cosimi che su Wired ha cercato di interpretare il senso profondo delle sue parole: «Il messaggio che Lorenzo voleva far passare ()» è «non certo che lavorare gratis sia giusto (non lo è mai, il lavoro si paga) ma che nella vita può esistere un genere diverso di retribuzione, fatto di esperienze e magari, perché no, contatti e incontri. Se incassata in un periodo specifico della propria esistenza, ovviamente per una fase breve e priva di ogni vincolo, può essere unaggiunta e non un abuso della propria identità. Un arricchimento e non una violazione di chissà quali diritti. Un muovere il culo invece di restarsene sdraiati».

A ben vedere, le polemiche seguite alle parole di Jovanotti non sono nuove. Solo pochi mesi fa, critiche altrettanto infuocate sono arrivate da più parti contro la scelta di Expo di reclutare qualche migliaio di volontari per compiere alcune attività logistiche e di accoglienza durante i sei mesi di esposizione. Anche in quel caso, volontariato e lavoro erano stati messi sullo stesso piano e si era parlato di sfruttamento.

Se invece si torna più indietro nel tempo, la mente non può che andare alle battute, talvolta infelici, di Elsa Fornero, la ministra del Welfare allepoca del governo Monti. «I giovani escono dalla scuola e devono trovare unoccupazione. Devono anche non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi», aveva dichiarato in unoccasione lex titolare del Lavoro. O ancora, in unintervista al Wall Street Journal: «L'attitudine della gente deve cambiare: il lavoro va guadagnato, anche con il sacrificio, non è un diritto».

Probabilmente, le dichiarazioni della Fornero riuscivano a toccare - e anche a urtare - maggiormente la sensibilità dei lavoratori. Ma la sostanza è la stessa: in un periodo in cui la disoccupazione giovanile è ben al di sopra al livello di guardia, la precarietà è ancora la normalità per moltissimi giovani e le retribuzioni medie di chi un lavoro ce lha spesso non sono commisurate al livello di preparazione, in Italia non ci si può permettere leggerezze nellaffrontare il tema del lavoro.

Ogni parola, anche volta a incoraggiare, viene scambiata per provocazione. Affermare che per entrare nel clima del lavoro è accettabile fare qualche esperienza, limitata e leggera, di volontariato  sarebbe accettabilissimo in un periodo di relativa serenità. Ma diventa una bomba in un momento in cui il lavoro è spesso una chimera.

Ogni buon genitore inviterebbe i propri figli a non essere troppo schizzinosi nellavvicinarsi al lavoro per la prima volta e a considerare il lavoro come un diritto, certo, ma per il quale bisogna lottare. Però se a dire queste stesse cose è una docente universitaria da una cattedra ministeriale allora il significato, alle orecchie dei giovani lavoratori e di chi commenta in rete, cambia diametralmente. Diventano fastidiose provocazioni.

In questo momento, lItalia sembra troppo tesa e nervosa per accogliere sportivamente parole inusuali in tema lavoro. Chi ha voglia di dirle, lo tenga presente.

lunedì, giugno 01, 2015

Garanzia Giovani un anno dopo, il bilancio dei primi 12 mesi

Il piano europeo per combattere la disoccupazione giovanile e il fenomeno dei Neet non ha ancora prodotto i risultati sperati: il numero delle registrazioni (circa 600 mila) è ancora distante dalla platea potenziale (2,2 milioni), molti ragazzi non hanno ancora sostenuto il primo colloquio e le offerte di lavoro o tirocinio concrete sono ancora poche. Il ministro Poletti si ritiene comunque soddisfatto per i numeri raggiunti, ma le opinioni degli under 30 raccolte attraverso il monitoraggio informale realizzato da Repubblica degli Stagisti e Adapt non sono sulla stessa lunghezza donda

Garanzia Giovani ha compiuto il suo primo compleanno l’1 maggio. A un anno (e qualche settimana) dal suo esordio, quale bilancio si può trarre del programma finanziato dall’Unione europea per combattere la disoccupazione giovanile e il fenomeno dei Neet?

Al 28 maggio 2015, le registrazioni al programma erano 595 mila (517 mila al netto delle cancellazioni e degli annullamenti da parte dei candidati). Si tratta di una cifra ancora distante da quei 2,2 milioni di ragazzi che, stando a quanto riportato dal governo nel piano di attuazione della Youth Guarantee, ricadono nel bacino dei Neet.

Le prese in carico da parte dei servizi per l’impiego sono circa la metà, 322 mila, e 101 mila sono gli under 30 a cui è stata proposta almeno una misura.


Dal report settimanale pubblicato dal Ministero del Lavoro sappiamo anche che i registrati sono per metà uomini (51%) e per metà donne (49%) e che più della metà dei ragazzi iscritti alla Youth Guarantee appartengono alla fascia d’età 19-24 anni.

Quanto alle opportunità di lavoro, i numeri sono molto meno ampi. Dall’inizio del progetto a oggi sono 56 mila, per un totale di circa 80 mila posti disponibili, di cui risultano attive attualmente 8.801 vacancy (12.147 posti a disposizione).

Dati alla mano, non sembrerebbe finora un successo, soprattutto se si guarda alla sproporzione tra il numero dei registrati e le poche effettive chance lavorative proposte nonostante per le aziende siano previsti bonus occupazionali per le nuove assunzioni e incentivi per l’attivazione di tirocini.

Secondo il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, un anno dopo l’inizio del programma il bilancio non è negativo. “Ci sono ampi margini di miglioramento ma posso ritenermi soddisfatto degli obiettivi raggiunti: avere 550 mila giovani che si sono registrati (il numero al primo maggio 2015, ndr) è un risultato non banale. E il fatto che dopo dodici mesi continuino a registrarsi 10/15 mila giovani al mese è per me una grande soddisfazione”, ha detto.

Tuttavia, a sentire i diretti protagonisti, i punti di vista sono ben diversi. Gli umori dei circa 3 mila ragazzi tra i 15 e i 29 anni che hanno risposto al monitoraggio informale online realizzato, tra l'ottobre 2014 e il marzo 2015, dalla testata giornalistica Repubblicadeglistagisti.it e il centro studi Adapt, non sempre sono positivi. Anzi.

La metà di questo campione (non statisticamente rilevante ma pur sempre rappresentativo delle esperienze e delle opinioni dei ragazzi in merito alla Garanzia Giovani), quando ha compilato il questionario, non era stata contattata per il colloquio da parte dei centri per l’impiego.

Se la risposta delle istituzioni è lenta rischia di generare una doppia frustrazione in quei ragazzi che hanno visto nel programma un motivo di speranza ma verificano sulla loro pelle che non risponde alle loro aspettative.

Tra quelli che hanno effettuato il primo colloquio conoscitivo, solo uno su quattro (il 24%) è stato richiamato per valutare insieme agli operatori dei servizi per l’impiego le proposte concrete a disposizione.

In più, la maggioranza degli under 30 (il 44%) che hanno sostenuto il primo colloquio afferma di aver ricevuto una proposta generica di lavoro o di uno stage futuro mentre il 39% riferisce di non aver ricevuto nessuna proposta concreta.

Se ci si distacca per un attimo dai dati e si passa ad ascoltare le esperienze, emergono alcuni casi poco incoraggianti. Dal ragazzo che racconta che durante il colloquio si è limitato a “inserire i dati del proprio cv allinterno di un computer” alla giovane che afferma che il personale del centro per l’impiego “non ha voluto ascoltare le mie esperienze o chiedermi il campo in cui avrei voluto fare lo stage”.

In base a quanto emerge dai dati e dalle risposte del monitoraggio informale, finora il progetto non ha ancora avuto un coordinamento allaltezza degli obiettivi iniziali. Ogni regione decide autonomamente se affidare le prime fasi del piano a strutture pubbliche o ad agenzie per il lavoro.

Chi è riuscito a ottenere una proposta concreta si è trovato spesso davanti a offerte di stage, con rimborsi di 400 euro mensili, che in alcuni casi non sono stati ancora erogati dall’INPS (l’ente che ha il compito di erogarli) anche dopo la fine del periodo di tirocinio. E, come ha messo in evidenza il programma tv Piazza Pulita, capita di frequente che i ragazzi presi per effettuare stage finiscano a fare mansioni lavorative normali.

Se poi si prende come punto di riferimento la galassia dei Neet, la categoria per cui è stato ideato il piano, allora lesito è ancora meno confortante perché, secondo il monitoraggio Rds-Adapt, solo il 17% di loro si è iscritto al programma.