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martedì, febbraio 17, 2015

Synergie Italia apre una nuova sede in Toscana, a Porcari (Lucca): ecco i profili più richiesti e i tipi di aziende che sono in cerca di personale



La nuova apertura porta a 8 le filiali in Toscana e a 65 quelle in Italia. La zona scelta è ad alta vocazione industriale e costituirà unopportunità importante per molte persone a caccia di un impiego in vari settori, dallindustria cartaria al calzaturiero. Il Capo Area Toscana, Paolo Mearini:
«Una filiale a pochi passi dalle aziende è un segnale forte: vuol dire rispondere alle esigenze del sistema produttivo in maniera tempestiva offrendo un servizio a chilometro zero”»

Synergie Italia ha aperto il 2 febbraio una nuova filiale a Porcari, in provincia di Lucca. La notizia va sottolineata perché lapertura della nuova sede di unagenzia per il lavoro non riguarda solo i lavoratori e le aziende ma incide anche su tutto il territorio che ne è interessato, dai cittadini alle istituzioni.

Synergie Italia, che arriva così a 8 filiali in Toscana e 65 in Italia, ha scelto questa cittadina nel Lucchese (la popolazione residente è di circa 9 mila persone, ma durante il giorno sale almeno a 15 mila con lafflusso di chi vi arriva per lavoro) perché è il cuore di un polo industriale molto attivo, sede di alcune tra le più importanti industrie cartarie dItalia e dEuropa.

Intorno alle imprese che producono carta ruota un significativo indotto di aziende, soprattutto metalmeccaniche, che comprende, tra le altre, società che producono macchine utensili per le cartiere e ditte che si occupano della manutenzione degli impianti. Il flusso di lavoratori in questa zona è perciò consistente.

Anche in periodo di crisi, infatti, nel sistema produttivo locale ci sono stati anni in cui il numero di occupati è cresciuto. Nel 2012, per esempio, erano 163 mila, contro i 158 mila dellanno precedente. Nel 2013, ultimo dato Istat disponibile, il numero di persone occupate era calato (157 mila) ma a giudicare dal fermento che si osserva in questi anni, è possibile prevedere che il totale delle persone con un impiego torni a salire.

In questo contesto, la filiale Synergie di Porcari può giocare un ruolo importante. «Aver aperto una sede a pochi passi dai cancelli di ingresso delle aziende è un segnale forte: vuol dire rispondere alle esigenze del sistema produttivo in maniera tempestiva offrendo un servizio a chilometro zero con manodopera specializzata flessibile della zona e formata in base ai bisogni delle imprese», dice Paolo Mearini, Capo Area Toscana di Synergie Italia.

La sede di Porcari punterà molto proprio sulla formazione. «Investiremo molte risorse su questo fronte, progettando non solo corsi generici ma anche e soprattutto percorsi specifici. Per esempio, nellambito della metalmeccanica, arrivano sempre più di frequente richieste di lavoratori competenti nelluso di macchine a controllo numerico», aggiunge Mearini.

Ma da dove arriveranno le maggiori opportunità di lavoro? Il team della filiale di Porcari ha cominciato a ricevere richieste per diversi profili, tra cui operai specializzati per macchine ribobinatrici e tubiere, manutentori meccanici, elettricisti, trasfertisti, progettisti meccanici, softwaristi, impiegati commerciali estero.

«Per ogni ruolo è richiesta esperienza, e se in produzione anche la disponibilità a lavorare su turni», spiega Mearini. «Si parte con contratti a tempo determinato che sono sempre più spesso il primo passo verso unassunzione diretta in azienda».

Oltre al settore della carta e alla metalmeccanica, c’è bisogno di personale, sia di produzione che impiegatizio, anche in altri comparti forti in questo territorio, come il calzaturiero.

«A differenza delle industrie cartarie della zona, che hanno dimensioni medio-grandi, i calzaturifici sono molti ma spesso piccoli e quindi non tutti sono abituati a esportare», spiega il Capo Area Toscana di Synergie Italia.

«Ora però il territorio sta vivendo una fase di grande trasformazione, in cui anche le imprese minori vogliono riqualificarsi e puntare a vendere la propria produzione allestero. Ecco perché le richieste di personale qualificato per affrontare queste sfide, a cominciare dalla conoscenza delle lingue, aumentano. E noi di Synergie, a Porcari, lavoriamo proprio per venire incontro a queste necessità».

Non a caso, anche se la filiale ha aperto da pochi giorni, ha già stimolato linteresse di aziende e persone in cerca di impiego. «Siamo in unarea di Porcari che ha grande visibilità. È stato sufficiente accendere linsegna per ricevere grande attenzione da parte dei candidati. E allo stesso tempo, le istituzioni ci hanno accolto a braccia aperte e le imprese che stiamo contattando si stanno mostrano molto ricettive e contente della nostra scelta», afferma Mearini.

«I nostri uffici sono già pieni di persone e abbiamo già dato avvio ad alcune ricerche: nei settori di punta - appunto carta, metalmeccanico e calzaturiero - ma abbiamo ricevuto richieste di altro tipo, a dimostrazione che questo territorio non è affatto monotematico. Tra laltro, non tutto è concentrato su Porcari. Qui siamo tra Lucca e Altopascio, unaltra zona industriale di rilievo. Quindi possiamo soddisfare anche esigenze che arrivano dalle aree limitrofe».

Per informazione scrivere allindirizzo e-mail: lucca1@synergie-italia.it

martedì, febbraio 10, 2015

Lo stress sul lavoro aumenta: la precarietà è la prima causa di tensione per gli italiani



Un’indagine condotta da Regus su 22 mila manager e professionisti in oltre 100 Paesi del mondo ha evidenziato che per più della metà dei lavoratori (oltre il 53%) il livello di stress sul lavoro sia aumentato rispetto a cinque anni fa. Per gli italiani, i motivi sono soprattutto l’instabilità del posto di lavoro, le tecnologie obsolete con cui si lavora, la carenza di collaboratori e la scarsa flessibilità. La maggior parte degli intervistati ritiene che le varie forme di smart working possano contribuire ad attenuare lo stress
Sto lontano dallo stress. Anzi no. I lavoratori sono sempre più stressati. Lo conferma una ricerca condotta da Regus, l’azienda fornitrice di spazi di lavoro flessibili, su un campione di 22 mila manager e professionisti in più di 100 Paesi.

Più della metà degli intervistati a livello globale (oltre il 53%) ritiene che il livello di stress sia aumentato significativamente rispetto a cinque anni fa.

Per gli italiani, a generare stress sono soprattutto l’instabilità del posto di lavoro (30% contro il 15% della media globale), le tecnologie obsolete con cui si lavora (30%), la carenza di personale e collaboratori (27%) e la bassa flessibilità degli orari e dei luoghi di lavoro (15%).

Oltre alle condizioni lavorative e al continuo senso di precarietà, ciò che sembra creare più logorio è il ritardo in termini di innovazione. Lavorare con le stesse modalità routinarie del passato (scrivania fissa, orario fisso, scarso ricorso al telelavoro e alle forme di smart working) non piace ed è un elemento che incrina l’equilibrio tra vita privata e attività lavorativa.

Non a caso, tre quarti degli intervistati (media globale 74%, dato Italia 73%) sono convinti che cambiare lo scenario di lavoro, come ad esempio lavorare in un ambiente diverso da quello solito, possa essere un elemento che attenua lo stress.

Sei italiani su dieci (61%, contro la media globale del 59%) ritengono inoltre che svolgere il proprio lavoro con più flessibilità permetta di arrivare a un work life balance migliore e più soddisfacente.

Infatti, le esperienze di chi lavora già in modo flessibile, come chi opera in part time, lo confermano: il 61% (58% a livello globale) si dice più soddisfatto e meno stressato e anche il 43% (55% media globale) dei lavoratori autonomi e i free lance, grazie alla libertà di gestire il tempo in autonomia, ritiene di godere di un buon equilibrio tra attività lavorativa e tempo libero.

Ma non ci sono solo la scarsa flessibilità e le preoccupazioni relative al futuro a creare tensioni. A livello globale la prima causa di stress è infatti la mancanza di esercizio fisico e di cibi salutari (21%). I nostri connazionali invece indicano questa come la quarta causa di stress, nonostante la percentuale di risposte sia più alta rispetto alla media internazionale: 26%.

"Mentre si registra un aumento dello stress sul posto di lavoro - ha commentato il country manager di Regus per l’Italia, Mauro Mordini -, il mondo del lavoro concorda sul fatto che poter svolgere la propria attività in modo agile e flessibile possa rappresentare una soluzione per migliorare la qualità della vita".

venerdì, febbraio 06, 2015

On demand economy, arriva l’epoca dei “lavoratori alla spina”



Impieghi temporanei, anche di poche ore, con retribuzione definita in anticipo, offerti e richiesti attraverso app disponibili su pc e smartphone e siti di annunci specializzati. Benvenuti nell’era del lavoro on demand. Può essere una soluzione per la disoccupazione giovanile? È presto per dirlo perché i numeri, soprattutto in Italia, sono ancora esigui. Ma di certo è una trasformazione del mercato del lavoro che non può essere sottovalutata e che potrà essere una risorsa utile per creare nuove, anche se brevi, opportunità di lavoro per freelance, studenti-lavoratori e persone in cerca di un’occupazione

Lo chiamano on demand economy, ovvero “economia su richiesta”. E l’immagine che la rappresenta con più efficacia è una recente copertina dell’Economist in cui sono raffigurati dei lavoratori “alla spina” che escono da un rubinetto secondo le esigenze dei committenti.

I lavori on demand sono quegli impieghi temporanei, con retribuzione definita in anticipo, che vengono offerti e richiesti attraverso le nuove tecnologie. Nascono così app per far incontrare domanda e offerta di lavoro in tempo reale, siti di annunci specializzati in lavoretti di poche ore, piattaforme dedicate ai freelance, agli studenti-lavoratori o a tutti quelli in cerca di un secondo lavoro per arrotondare.

Così, persone in cerca di lavoro possono trovare occupazioni temporanee semplicemente consultando il proprio smartphone. Da un’app, per esempio, si può scoprire che un ristorante a pochi isolati da dove si abita ha bisogno di un addetto alle pulizie per un giorno e farsi ingaggiare all’istante per quella giornata. Oppure può succedere che un ufficio abbia bisogno di una traduzione dal cinese per una serie di documenti e uno studente possa essere pagato ad hoc per quel tipo di incarico. O ancora, c’è da sostituire un lavoratore assente in un magazzino, per poche ore, e un disoccupato potrebbe approfittare dell’occasione e rendersi disponibile per la mini-sostituzione.

Anche se le dimensioni del fenomeno sono ancora limitate, la on demand economy rischia di ridefinire l’organizzazione del mercato del lavoro, andando a mettere in competizione le piattaforme che offrono questi minijob e le agenzie per il lavoro. La battaglia, in questo caso, è sul tempo: chi riesce a fornire un’occupazione in minor tempo, per quanto temporanea e con poche garanzie, ha più probabilità di vincere.

Non si tratta di qualcosa di nuovo in sé: il lavoro freelance è sempre esistito. Sono le modalità a cambiare: la on demand economy porta agli estremi questo modo di lavorare, che conta sempre più “addetti”. Negli Usa, per esempio, un lavoratore su tre è freelance. La flessibilità, insomma, spinta ai limiti.
Ma può essere un modo per generare più lavoro per i giovani disoccupati? È quello che si chiede l’Economist alla fine dell’articolo dedicato al tema. In Italia è difficile stabilirlo, innanzitutto perché ci sono ancora poche piattaforme online (secondo la mappatura di Collaboriamo sono tredici) che fanno incontrare domanda e offerta di lavoro per freelance e per lavoratori occasionali.

E quelle che ci sono non fanno i numeri che si osservano in Paesi più abituati a questi modelli organizzativi, tra cui Germania, Inghilterra e Stati Uniti. Per esempio, da noi piattaforme come TaskRabbit, una delle principali nel mondo anglosassone per la domanda e offerta di “lavoretti”, non sono ancora decollate.

In più, non va dimenticato che il nostro Paese non brilla per i compensi offerti ai freelance. Per esempio, sulla piattaforma Elance, dove sono registrati circa 21 mila lavoratori, attivi più che altro negli ambiti creativi e nell’information technology, l’Italia risulta al ventunesimo posto per guadagni complessivi: 22 dollari in media all’ora.
Certo, l’attenzione verso queste nuove modalità di lavoro è alta. Una dimostrazione arriva dal dinamismo delle startup su questo fronte. Nascono nuove imprese come Tabbid, il social network dei lavoretti, Doityo, una app di annunci geolocalizzati per il job right now (“lavoro ora”), Minijob.it, in cui ci si può offrire per piccole riparazioni, lavori da imbianchino, personal trainer mettendo in chiaro da subito le tariffe, e Le cicogne, per trovare babysitter.
Immaginare quali scenari possano nascere da questo nuovo assetto è decisamente complicato, anche perché i numeri sono ancora esigui e non è ancora noto l’impatto di questa on demand economy sull’organizzazione del lavoro nelle aziende più strutturate. Certo è che per ridurre la disoccupazione giovanile sarà necessario guardare anche a questo fenomeno.

mercoledì, febbraio 04, 2015

Il peso dell’istruzione nella ricerca del lavoro. Italia vs Europa



Il rapporto dell’Ocse “Education at a Glance” evidenzia che nel nostro Paese i laureati fanno fatica più di altri a trovare un impiego: il 16% di chi ha concluso un percorso universitario è disoccupato. La media degli altri Paesi è del 5,3%. Inoltre, l’Italia condivide in Europa con Portogallo, Spagna e Turchia le percentuali più alte di adulti (55-64 anni) e giovani (25-34 anni) con basse qualifiche

Quanto è importante avere una laurea per trovare lavoro? In Italia non molto. È quanto emerge dal recente rapporto intermedio dell’Ocse “Education at aGlance. Nel nostro Paese, 16 giovani adulti (25-34 anni) laureati su cento restano senza impiego

Il “pezzo di carta”, insomma, non ha più valore come in passato. Una situazione, questa, completamente diversa rispetto alla media europea: nel Vecchio Continente, solo il 5,3% di chi ha un titolo universitario in mano non riesce a reperire un’occupazione. Nella stessa fascia d’età fanno peggio di noi solo Grecia (33,1%), Spagna (20,8%), Portogallo (18,4%). Subito dopo, Turchia (11,1%) e Slovenia (10,8%).
E nonostante i titoli non aiutino sempre a trovare, in Italia è anche bassa la percentuale di chi li consegue. Nel 2013, un giovane adulto su sei (25-34 anni) era senza un diploma di scuola superiore; uno su quattro non era andato oltre la terza media e meno di uno su cinque era in possesso di una laurea. 

Nei Paesi Ocse, dove tra il 2000 e il 2013 quasi ovunque la percentuale di giovani che hanno conseguito una laurea ha visto un incremento medio del 14% (in Corea, Lussemburgo e Polonia è aumentata del 25%), la media è del 40%.

Che in Italia ci sia un problema con l’istruzione lo confermano anche i dati relativi alle percentuali di persone con qualifiche basse: sono le più alte, in Europa (insieme a Portogallo, Spagna e Turchia), tra i Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. E il primato negativo vale tanto per gli adulti (tra i 55 e i 64 anni) quanto per i giovani (25-34 anni).

Un altro dato allarmante riportato dall’organizzazione che ha sede a Parigi riguarda i cosidetti “Neet” (Not in education, employment or training), sigla che sta a indicare quelle persone, in gran parte giovani, che sono tagliati fuori sia dalla scuola (education) che dal lavoro (employment) e non si mettono neanche a seguire percorsi di formazione (training) per cercare un’occupazione.

Insieme agli altri Paesi della “periferia” dell’Europa (Grecia, Spagna e Turchia), siamo lo Stato che ha la più alta quota di ragazzi Neet della fascia d’età 25-29 anni. Nella fascia 20-24 anni, invece, i giovani che non lavorano, non studiano e non sono inseriti in percorsi formativi sono uno su cinque. 

E se i giovani non riescono a trovare impiego dopo l’università, non ci riescono neanche durante. Se in altri Paesi è piuttosto frequente che i giovani facciano entrambi per inserirsi prima nel mondo del lavoro, in Italia solo cinque studenti su cento lavorano meno di dieci ore a settimana. In Islanda (ma anche, fuori Europa, in Canada e Stati Uniti) gli universitari arrivano a lavorare anche 34 ore settimanali.