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venerdì, febbraio 06, 2015

On demand economy, arriva l’epoca dei “lavoratori alla spina”



Impieghi temporanei, anche di poche ore, con retribuzione definita in anticipo, offerti e richiesti attraverso app disponibili su pc e smartphone e siti di annunci specializzati. Benvenuti nell’era del lavoro on demand. Può essere una soluzione per la disoccupazione giovanile? È presto per dirlo perché i numeri, soprattutto in Italia, sono ancora esigui. Ma di certo è una trasformazione del mercato del lavoro che non può essere sottovalutata e che potrà essere una risorsa utile per creare nuove, anche se brevi, opportunità di lavoro per freelance, studenti-lavoratori e persone in cerca di un’occupazione

Lo chiamano on demand economy, ovvero “economia su richiesta”. E l’immagine che la rappresenta con più efficacia è una recente copertina dell’Economist in cui sono raffigurati dei lavoratori “alla spina” che escono da un rubinetto secondo le esigenze dei committenti.

I lavori on demand sono quegli impieghi temporanei, con retribuzione definita in anticipo, che vengono offerti e richiesti attraverso le nuove tecnologie. Nascono così app per far incontrare domanda e offerta di lavoro in tempo reale, siti di annunci specializzati in lavoretti di poche ore, piattaforme dedicate ai freelance, agli studenti-lavoratori o a tutti quelli in cerca di un secondo lavoro per arrotondare.

Così, persone in cerca di lavoro possono trovare occupazioni temporanee semplicemente consultando il proprio smartphone. Da un’app, per esempio, si può scoprire che un ristorante a pochi isolati da dove si abita ha bisogno di un addetto alle pulizie per un giorno e farsi ingaggiare all’istante per quella giornata. Oppure può succedere che un ufficio abbia bisogno di una traduzione dal cinese per una serie di documenti e uno studente possa essere pagato ad hoc per quel tipo di incarico. O ancora, c’è da sostituire un lavoratore assente in un magazzino, per poche ore, e un disoccupato potrebbe approfittare dell’occasione e rendersi disponibile per la mini-sostituzione.

Anche se le dimensioni del fenomeno sono ancora limitate, la on demand economy rischia di ridefinire l’organizzazione del mercato del lavoro, andando a mettere in competizione le piattaforme che offrono questi minijob e le agenzie per il lavoro. La battaglia, in questo caso, è sul tempo: chi riesce a fornire un’occupazione in minor tempo, per quanto temporanea e con poche garanzie, ha più probabilità di vincere.

Non si tratta di qualcosa di nuovo in sé: il lavoro freelance è sempre esistito. Sono le modalità a cambiare: la on demand economy porta agli estremi questo modo di lavorare, che conta sempre più “addetti”. Negli Usa, per esempio, un lavoratore su tre è freelance. La flessibilità, insomma, spinta ai limiti.
Ma può essere un modo per generare più lavoro per i giovani disoccupati? È quello che si chiede l’Economist alla fine dell’articolo dedicato al tema. In Italia è difficile stabilirlo, innanzitutto perché ci sono ancora poche piattaforme online (secondo la mappatura di Collaboriamo sono tredici) che fanno incontrare domanda e offerta di lavoro per freelance e per lavoratori occasionali.

E quelle che ci sono non fanno i numeri che si osservano in Paesi più abituati a questi modelli organizzativi, tra cui Germania, Inghilterra e Stati Uniti. Per esempio, da noi piattaforme come TaskRabbit, una delle principali nel mondo anglosassone per la domanda e offerta di “lavoretti”, non sono ancora decollate.

In più, non va dimenticato che il nostro Paese non brilla per i compensi offerti ai freelance. Per esempio, sulla piattaforma Elance, dove sono registrati circa 21 mila lavoratori, attivi più che altro negli ambiti creativi e nell’information technology, l’Italia risulta al ventunesimo posto per guadagni complessivi: 22 dollari in media all’ora.
Certo, l’attenzione verso queste nuove modalità di lavoro è alta. Una dimostrazione arriva dal dinamismo delle startup su questo fronte. Nascono nuove imprese come Tabbid, il social network dei lavoretti, Doityo, una app di annunci geolocalizzati per il job right now (“lavoro ora”), Minijob.it, in cui ci si può offrire per piccole riparazioni, lavori da imbianchino, personal trainer mettendo in chiaro da subito le tariffe, e Le cicogne, per trovare babysitter.
Immaginare quali scenari possano nascere da questo nuovo assetto è decisamente complicato, anche perché i numeri sono ancora esigui e non è ancora noto l’impatto di questa on demand economy sull’organizzazione del lavoro nelle aziende più strutturate. Certo è che per ridurre la disoccupazione giovanile sarà necessario guardare anche a questo fenomeno.

mercoledì, febbraio 04, 2015

Il peso dell’istruzione nella ricerca del lavoro. Italia vs Europa



Il rapporto dell’Ocse “Education at a Glance” evidenzia che nel nostro Paese i laureati fanno fatica più di altri a trovare un impiego: il 16% di chi ha concluso un percorso universitario è disoccupato. La media degli altri Paesi è del 5,3%. Inoltre, l’Italia condivide in Europa con Portogallo, Spagna e Turchia le percentuali più alte di adulti (55-64 anni) e giovani (25-34 anni) con basse qualifiche

Quanto è importante avere una laurea per trovare lavoro? In Italia non molto. È quanto emerge dal recente rapporto intermedio dell’Ocse “Education at aGlance. Nel nostro Paese, 16 giovani adulti (25-34 anni) laureati su cento restano senza impiego

Il “pezzo di carta”, insomma, non ha più valore come in passato. Una situazione, questa, completamente diversa rispetto alla media europea: nel Vecchio Continente, solo il 5,3% di chi ha un titolo universitario in mano non riesce a reperire un’occupazione. Nella stessa fascia d’età fanno peggio di noi solo Grecia (33,1%), Spagna (20,8%), Portogallo (18,4%). Subito dopo, Turchia (11,1%) e Slovenia (10,8%).
E nonostante i titoli non aiutino sempre a trovare, in Italia è anche bassa la percentuale di chi li consegue. Nel 2013, un giovane adulto su sei (25-34 anni) era senza un diploma di scuola superiore; uno su quattro non era andato oltre la terza media e meno di uno su cinque era in possesso di una laurea. 

Nei Paesi Ocse, dove tra il 2000 e il 2013 quasi ovunque la percentuale di giovani che hanno conseguito una laurea ha visto un incremento medio del 14% (in Corea, Lussemburgo e Polonia è aumentata del 25%), la media è del 40%.

Che in Italia ci sia un problema con l’istruzione lo confermano anche i dati relativi alle percentuali di persone con qualifiche basse: sono le più alte, in Europa (insieme a Portogallo, Spagna e Turchia), tra i Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. E il primato negativo vale tanto per gli adulti (tra i 55 e i 64 anni) quanto per i giovani (25-34 anni).

Un altro dato allarmante riportato dall’organizzazione che ha sede a Parigi riguarda i cosidetti “Neet” (Not in education, employment or training), sigla che sta a indicare quelle persone, in gran parte giovani, che sono tagliati fuori sia dalla scuola (education) che dal lavoro (employment) e non si mettono neanche a seguire percorsi di formazione (training) per cercare un’occupazione.

Insieme agli altri Paesi della “periferia” dell’Europa (Grecia, Spagna e Turchia), siamo lo Stato che ha la più alta quota di ragazzi Neet della fascia d’età 25-29 anni. Nella fascia 20-24 anni, invece, i giovani che non lavorano, non studiano e non sono inseriti in percorsi formativi sono uno su cinque. 

E se i giovani non riescono a trovare impiego dopo l’università, non ci riescono neanche durante. Se in altri Paesi è piuttosto frequente che i giovani facciano entrambi per inserirsi prima nel mondo del lavoro, in Italia solo cinque studenti su cento lavorano meno di dieci ore a settimana. In Islanda (ma anche, fuori Europa, in Canada e Stati Uniti) gli universitari arrivano a lavorare anche 34 ore settimanali.





giovedì, gennaio 29, 2015

Jobs Act, c’è il rischio incostituzionalità?



Carinci: «Non estendere le norme anche al pubblico solleva dubbi, ma la vera contraddizione è che la riforma mantiene inalterate le tutele per chi è già assunto creando una nuova segmentazione del mercato del lavoro»

La scelta di non estendere le nuove norme sul licenziamento anche ai lavoratori pubblici e a chi è già assunto ha suscitato polemiche e dubbi: questo trattamento differenziato viola la Costituzione? Synforma lo ha chiesto a Maria Teresa Carinci, giurista e docente di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano

L’approvazione dei primi decreti legati al Jobs Act ha sollevato perplessità sulla legittimità costituzionale della riforma del mercato del lavoro firmata dal governo Renzi. La scelta di non estendere le nuove norme ai tre milioni e mezzo di dipendenti statali può creare una disparità di trattamento che confligge con il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione (articolo 3)? E ancora, prevedere che il contratto unico a tutele crescenti si applichi solo ai neoassunti rischia di generare un nuovo “apartheid” tra vecchi e giovani? Abbiamo chiesto un parere alla giurista Maria Teresa Carinci, docente di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano.



Professoressa Carinci, c’è chi solleva dubbi sulla legittimità costituzionale del Jobs Act, in particolare del fatto che le nuove norme valgano soltanto per i lavoratori del settore privato. Condivide queste perplessità?
Il primo dato da considerare è che la riforma non parla espressamente di dipendenti pubblici. La legge del 2001 della cosiddetta “privatizzazione del lavoro pubblico” contiene una norma che estende ai lavoratori pubblici le discipline previste per i lavoratori privati, a meno che le leggi e i decreti delegati non specifichino espressamente che le norme si applicano solo ai lavoratori del settore privato.
Però, nel decreto che introduce la nuova disciplina relativa al licenziamento illegittimo, questa distinzione non è espressa. In sintesi, pubblico e privato sono stati sostanzialmente unificati, salvo in casi particolari che richiedono una disciplina specifica, come l’accesso al lavoro attraverso concorso pubblico. Dal momento che questa parificazione è prevista, per quale motivo i dipendenti pubblici devono essere tutelati più dei dipendenti privati? Questo aspetto solleva effettivamente dei dubbi di legittimità costituzionale.
A mio parere ciò che è previsto per i dipendenti privati doveva essere esteso anche a quelli pubblici. I giuristi che invece “difendono” la costituzionalità di questa norma fanno notare che all’articolo 1 del decreto approvato dal governo è scritto che la nuova tutela nel caso di licenziamento si applica ai “lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri” e che questa definizione è un tentativo di escludere i dipendenti pubblici. Infatti al pubblico impiego non è esteso l'articolo 2095 cc che appunto classifica i lavoratori in operai, impiegati e quadri. In ogni caso, è possibile che su questa materia la palla passerà alla magistratura.

C’è chi ha parlato di possibile violazione del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione anche riguardo alla norma che prevede che il contratto a tutele crescenti si applica solo ai nuovi assunti. Qual è la sua posizione in merito?
Prevedere il nuovo regime più leggero solo per i neoassunti non presenta, a mio avviso, problemi di costituzionalità. È evidente che una legge regola solo i nuovi casi. Anche una recente sentenza della Corte costituzionale in materia di responsabilità solidale negli appalti che va in questa direzione. Ma sull’introduzione del contratto a tutele crescenti solleverei comunque un paio di obiezioni, che non hanno a che fare con la legittimità costituzionale.

Quali?
La prima domanda che mi pongo è: qual è la ratio della riforma? Nella legge delega è scritto che l’obiettivo del Jobs Act è rafforzare le opportunità di lavoro di chi è in cerca: se noi facciamo valere le nuove norme solo per i neoassunti e manteniamo uno zoccolo di forza lavoro occupata secondo le regole vigenti - i cosiddetti insider inamobivili - non favoriamo l’ingresso degli outsider. E dato che è escluso che la riforma in sé possa creare posti di lavoro è legittimo avere dubbi sul fatto che questa misura sia conforme alla volontà di fluidificare il mercato del lavoro. C’è chi ha detto che in questo modo una effettiva fluidificazione si possa avere solo nel giro di dieci anni.

Qual è la sua seconda obiezione?

Un altro scopo della riforma è eliminare il dualismo del mercato del lavoro tra chi è occupato a tempo pieno e chi invece va avanti con i contratti precari, in particolare i giovani. Tuttavia, a ben vedere, questa riforma segmenta nuovamente il mercato del lavoro. I nuovi assunti saranno prevalente giovani. Invece di essere assunti con altri contratti, saranno occupati tutti con il contratto a tutele crescenti, che è meno tutelato. La precarietà viene superata solo fino a un certo punto. Si tratta certamente di un contratto a tempo indeterminato ma è più blando, più flessibile.

Secondo lei è possibile che la Corte costituzionale, se venisse sollevata la questione di costituzionalità per alcuni aspetti del Jobs Act, si pronunci contro la riforma e li giudichi incostituzionali?
Credo che nessuno di questi profili verrà accolto dalla Corte: la riforma ha un notevole peso politico, a livello nazionale e a livello europeo. Non credo che la Consulta ne vorrà pregiudicare l'impatto.


venerdì, gennaio 23, 2015

Assenteismo, perché è un guaio da debellare quanto prima



Lo sciopero “sospetto” degli 835 vigili su 1000 a Roma durante la notte di Capodanno ha riacceso la polemica sulla tendenza dei lavoratori del pubblico impiego ad assentarsi indebitamente. A rincarare la dose sono arrivati anche i dati di alcune associazioni imprenditoriali tra cui Confindustria, secondo cui si potrebbero risparmiare 3,7 miliardi di euro se il livello di assenze del settore pubblico raggiungesse quello, più basso, del privato. Ma il vero problema dell’assenteismo nella Pa non risiede tanto nello spreco di denaro quanto nel fatto che questa prassi contribuisce ad alimentare lo sprezzo delle regole tra i cittadini

Il casus belli è nato la notte di Capodanno. A Roma, 835 vigili urbani su 1000 si sono dati malati in massa. Hanno scelto di astenersi dal lavoro nonostante il turno del 31 dicembre fosse pagato quattro volte un turno. Poco prima di segnarsi in malattia, e/o in permesso per donare il sangue, gli agenti hanno tentato di convocare un’assemblea sindacale per questioni contrattuali. 

Che fosse o meno fondato il motivo della assenza-protesta, il risultato è che a vegliare sulla Capitale durante la notte del 31 dicembre 2014 c’erano solo 165 vigili su 1000. Vista così, a tutto si poteva pensare fuorché a un’alternativa allo sciopero. Questo almeno ha percepito l’opinione pubblica, a giudicare dai commenti infuocati che la notizia ha suscitato su online su vari siti di informazione.
Il caso, naturalmente, non è passato inosservato neanche ai rappresentanti delle istituzioni. Il premier Matteo Renzi ha subito annunciato un giro di vite sul settore pubblico: “Nel 2015 cambiamo le regole del pubblico impiego″, ha twittato. 

A ruota il ministro per la Pa, Marianna Madia, che ha sollecitato accertamenti e azioni disciplinari contro eventuali violazioni. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha dato avvio a un’inchiesta interna per verificare possibili “assenze ingiustificate”. Il Garante ha aperto un’indagine per sospetto sciopero selvaggio. L’Inps si è proposta per fare i controlli al posto delle Asl. 

I sindacati, con l’eccezione della Uil locale (“La maggior parte dei vigili ha donato il sangue: per questo erano esentati dal servizio”), hanno condannato l’accaduto, schierandosi, come la Cgil nazionale, “con chi è andato a lavorare”. 

Una storia isolata? Macché. Sempre a Roma, intorno alla mezzanotte, alcune linee metropolitane hanno avuto dei ritardi perché su 24 macchinisti necessari a coprire lo straordinario, solo 7 hanno comunicato la loro disponibilità. E come se l’assenteismo fosse un vero e proprio virus, anche a Napoli, nell’ultima notte dell’anno, 200 netturbini si sono messi in malattia.

A prescindere dalle ragioni che hanno spinto questi lavoratori ad assentarsi, gli episodi sono una conferma indiretta dei dati sull’assenteismo appena diffusi da diverse organizzazioni. Secondo il Centro studi di Confindustria, i lavoratori pubblici hanno fatto registrare 19 giorni di assenze in media all’anno, sei in più dei dipendenti delle aziende private associate all’organizzazione di Viale dell’Astronomia. 

Ma la stima che colpisce di più riguarda il risparmio che si potrebbe ottenere portando il livello dell’assenteismo della Pa al livello di quello del settore privato: oltre 3,7 miliardi di euro. Ci sarebbe minore necessità di personale e questo permetterebbe di spendere meno denaro dei contribuenti. Inoltre, a parità di costi, secondo il Centro studi di Confindustria, “un minore assenteismo aumenterebbe l’efficienza e la qualità dei servizi”.

Un po’ differenti sono i dati forniti dalla Cgia di Mestre negli stessi giorni. L’associazione imprenditoriale veneta è particolarmente abile nel diffondere con frequenza quasi quotidiana numeri sulla crisi che fanno il gioco dei media a caccia di titoli. Quindi, per quanto veritieri, vanno sempre presi con le pinze. 

Fatta questa premessa, passiamo ai dati: secondo la Cgia, i lavoratori del settore privato fanno in media più assenze di quelli del pubblico (18,3 contro 17,1 giorni all’anno, sia nel 2013 che nel 2012). Nel pubblico impiego però ci sono molte più assenze-lampo (quelle cioè che vengono indennizzate): una su quattro dura un giorno solo. Nel privato, invece, sono l’11,9% sul totale. C’è il sospetto che le assenze brevi, in quanto pagate, nascondano forme di assenteismo. Sul banco degli imputati, quindi, tornano i lavoratori del pubblico impiego.

Di riflessioni sull’assenteismo nel pubblico se ne fanno da sempre. C’è chi lo ritiene un prodotto quasi inevitabile delle tutele di cui godono i lavoratori della Pa. Siccome è più complicato licenziare chi lavora per la pubblica amministrazione, i dipendenti tendono ad approfittarne assentandosi con maggiore frequenza. Chi difende con più ostinazione la professionalità – certamente presente a tutti i livelli – di chi lavora per lo Stato e per gli enti pubblici tende a presentare la situazione come un mero cliché o, in ogni caso, come un problema non prioritario. I guai, insomma, sarebbero “ben altri”.

E invece il guaio dell’assenteismo nella Pubblica amministrazione è uno dei più gravi del Paese. Non tanto per i 3,7 miliardi che si possono risparmiare secondo Confindustria. Il motivo per cui andrebbe considerato una piaga da curare prima possibile, anche con le maniere forti, è probabilmente più sottile. Ha a che fare con il modo in cui i cittadini si autorappresentano e con le ragioni che li spingono a infrangere le regole. 

Non ci sono molti metodi per convincere un cittadino ad agire nel rispetto delle norme. Uno dei più efficaci è vedere che l’istituzione che ti chiede di ottemperare a delle leggi – lo Stato – è la prima a rispettarle. Viceversa, se chi introduce le norme non le segue, nei cittadini si innesca un meccanismo autoassolutorio per cui può capitare che anche la corruzione e l’evasione fiscale diventino prassi di cui non sentirsi più di tanto in colpa.

Estremizzando, basta un dipendente pubblico scoperto ad assentarsi in modo fraudolento per far sentire in pace con se stesso un italiano che decide di non pagare le tasse nella misura dovuta. E il circolo vizioso non si chiude mai.