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venerdì, ottobre 17, 2014

E io me ne vado all’estero per lavoro: i numeri dell’emigrazione italiana 2.0





Giovane, istruito, celibe, residente al Nord e diretto a Londra. Ecco il profilo dell’emigrante italiano negli anni della crisi. Le cifre dell’esodo, contenute nel rapporto Migrantes, diventano sempre più rilevanti: nel 2013 sono stati quasi 95 mila i connazionali che si sono trasferiti oltre confine, 15 mila in più rispetto all’anno precedente. L’emorragia riguarda soprattutto la fascia d’età tra i 18 e i 34 anni (36,2%). A sorpresa, la regione in cui si registrano più partenze (più di 16 mila) è la Lombardia. E la destinazione più gettonata è la Gran Bretagna, seguita da Germania, Svizzera e Francia.

Via. In cerca di un lavoro e di una vita diversa. Nel 2013 sono stati quasi 95 mila gli italiani che si sono trasferiti all’estero. Come se l’intera popolazione di una città grande quanto Udine avesse traslocato oltre confine. I numeri che certificano la ripresa dell’emigrazione dall’Italia sono forniti dal Rapporto “Italiani nel Mondo” 2014 della Fondazione Migrantes.

L’emorragia diventa più forte anno dopo anno. Nel 2012 gli espatriati erano circa 80 mila (78.941), ovvero oltre 15 mila “fuggitivi” in meno. E a ben vedere, non sono nemmeno tutti, perché la ricerca ha preso in considerazione soltanto chi si è registrato all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) per espatrio e non i moltissimi connazionali che non si sono iscritti al registro perché fanno ancora i “pendolari” con l’Italia oppure perché non ne sentono l’esigenza o se ne sono dimenticati.

L’identikit dell’emigrante made in Italy di questi anni è ben diverso da quello che ha caratterizzato i fenomeni migratori del Novecento. È di solito un giovane under 35 celibe residente al Nord con un buon livello di istruzione e in viaggio verso il Regno Unito. 

Tradotto in cifre, più della metà (56,3%) dei 94.126 che hanno lasciato il Paese nel 2013 sono uomini non sposati (nel 60% dei casi). Più di un terzo (36,2%) degli expat ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni. Seguono gli over 35, fino a 49 anni, che rappresentano un quarto (26,8%) della popolazione andata via.

Il fatto che queste due fasce d’età siano prevalenti dimostra un dato difficilmente contestabile: chi parte è spinto soprattutto dalla crisi, dalla disoccupazione o dal desiderio di trovare un’occupazione e una condizione esistenziale meno instabili. Dicono arrivederci (addio?) anche molte coppie, dal momento che la percentuale di minori che hanno preso la residenza all’estero è pari al 18,8% del totale degli espatriati.

La meta preferita dagli emigranti 2.0, scelta da oltre il 70% delle persone che vanno via, è la Gran Bretagna, con 12.933 nuovi registrati all’Aire. Londra, nonostante la sterlina e il costo della vita elevato, viene percepita quindi come la capitale europea delle opportunità. Al secondo posto c’è la Germania (11.731 nuove iscrizioni), seguita da due Paesi confinanti: la Svizzera (10.300) e la Francia (8.402).

Se città come Londra, Berlino e Parigi sono le destinazioni più gettonate, stupisce che il principale punto di partenza è la Lombardia: 16.418 persone (il 17,6% sul totale) si mettono in viaggio dalla regione più ricca d’Italia. Al secondo posto, ancora Nord: dal Veneto, infatti, le partenze sono state 8.743. Certo, tra questi ci sono anche persone che negli anni passati erano emigrate dal Sud. Ma è innegabile che non basta trovarsi nelle aree più produttive del Paese per scampare alle difficoltà e alla necessità di espatriare.
L’Italia fuori confine, insomma, cresce. Nel mondo sono 4.482.115 i cittadini italiani residenti all’estero iscritti all’Aire. Se fossero tutti nello stesso territorio sarebbero la sesta regione italiana con più abitanti, un gradino sopra l’Emilia Romagna. A questi ritmi, quanto passerà prima che la colonia di expat diventi la più popolosa di tutte?

mercoledì, ottobre 15, 2014

Contratto unico a tutele crescenti: come funzionerà


Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è diventato il pilastro del Jobs Act. In attesa che la legge delega venga approvata in Parlamento e che i decreti delegati ne definiscano i dettagli, alcuni tratti fondamentali della nuova formula sembrano aver trovato un accordo unanime. Il “contratto unico” si applicherà ai neoassunti, darà garanzie che aumentano con il passare del tempo e cancellerà, almeno per i primi tre anni, le tutele previste dall’articolo 18 per i licenziamenti dovuti a motivi economici.

Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è diventato il pilastro della riforma del mercato del lavoro che approderà nel Jobs Act. L’idea alla base è quella di modificare il contratto a tempo indeterminato facendo in modo che le garanzie per chi lavora aumentino in base all’anzianità di servizio.

Ma come funzionerà? Nella legge delega all’esame del Parlamento non ci sono ancora i dettagli, ma alcuni aspetti sembrano mettere d’accordo tutti. La nuova formula si applicherà ai neoassunti e sarà un contratto a tempo indeterminato che permetterà al datore di lavoro, nei primi trentasei mesi, di licenziare il lavoratore in ogni momento per motivi di carattere economico. 

Se l’imprenditore decide di interrompere il rapporto di lavoro durante i primi tre anni ha l’obbligo di corrispondere al lavoratore un’indennità in denaro che aumenta con il passare del tempo. Licenziare un dipendente costerà progressivamente sempre di più. Starà poi alla legge stabilire a quanto debba ammontare la compensazione per il dipendente. Si andrebbe da due a sei mesi di retribuzione. Ma per ora è soltanto un’ipotesi.

Nella fase di inserimento dei primi tre anni, quindi, l’unica tutela è l’indennizzo monetario (a meno che non si tratti di licenziamenti disciplinari e discriminatori). Se invece l’interruzione del rapporto di lavoro è per giusta causa, la compensazione monetaria non va riconosciuta.

Nel periodo di inserimento, il lavoratore viene tutelato dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio  e il licenziamento disciplinare considerato illegittimo (solo in alcuni casi gravi, che verranno definiti dai decreti delegati). In caso di licenziamento per motivi economici, invece, varrebbe soltanto la protezione dell’indennizzo. Al lavoratore verrebbero cioè riconosciuti da due a sei mesi di salario, a seconda del tempo passato in azienda, e non il reintegro sul posto di lavoro.

Ma cosa succederebbe dopo i primi tre anni? Su questo punto non c’è ancora accordo. Le ipotesi in campo però sono sostanzialmente tre. C’è chi vorrebbe fare in modo che, superata la fase di inserimento, anche il contratto unico venga regolato dalla stessa disciplina dei licenziamenti che vige oggi.

In altre parole, passati i tre anni, il lavoratore sarebbe di nuovo tutelato pienamente dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: nelle aziende con più di quindici dipendenti, un licenziamento riconosciuto dal giudice come illegittimo darebbe quindi diritto alla cosiddetta “tutela reale”, ovvero la reintegrazione in azienda.

L’ipotesi “hard” invece è quella che prevede l’abolizione della protezione dell’articolo 18: in caso di licenziamento (tranne quello discriminatorio  e quello disciplinare in alcune forme gravi), il dipendente avrebbe diritto soltanto a un indennizzo che cresce proporzionalmente all’anzianità di servizio. 
La terza possibilità in ballo - una via di mezzo tra le prime due - sarebbe quella di far valere la protezione dell’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (si parla di sei, dodici o quindici) oppure quando il dipendente raggiunge una certa età.

A differenza di altre tipologie contrattuali come l’apprendistato, il contratto unico potrebbe essere applicato a tutti e non solo agli under 30. In questo modo, il reinserimento per categorie come le donne dopo il periodo di maternità o gli over 50 sarebbe più semplice.

giovedì, ottobre 09, 2014

Massagli (Adapt) «La concertazione? Renzi l’ha archiviata definitivamente. Non vuole che i sindacati facciano politica»


Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione degli studi sul lavoro fondata da Marco Biagi, commenta la scelta del premier di aprire un confronto con le organizzazioni sindacali prima del voto al Senato sul Jobs Act. «Ascoltare per un’ora i sindacati non significa riaprire l’era della concertazione ma semplicemente fare un atto di garbo istituzionale. Il presidente del Consiglio non ha interesse nei sindacati e fa in modo di relegarli alla loro funzione primaria: occuparsi delle questioni di lavoro tra aziende e lavoratori come la contrattazione di secondo livello, su cui il governo punta molto»

Tra Matteo Renzi e i sindacati la scintilla non è mai scoccata. Fin dai primi giorni a Palazzo Chigi, il premier non ha risparmiato frecciate alle organizzazioni sindacali. Le ha accusate di non essere in contatto con la realtà e – peggio ancora – di aver contribuito a creare un vero e proprio apartheid tra lavoratori tutelati e precari. Eppure, il giorno prima della fiducia in Senato sul Jobs Act, il disegno di legge delega che riforma il mercato del lavoro, il presidente del Consiglio ha convocato i sindacati per  un confronto.

Un gesto che equivale a reintrodurre la concertazione all’interno dello scenario politico? Secondo Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione per gli studi sul lavoro Adapt, non è così: l’epoca dei sindacati che fanno politica è finita. Il gesto del capo del governo sarebbe più che altro dovuto all’eleganza istituzionale e alla voglia di mettere tra le priorità il tema della contrattazione di secondo livello.

Il giorno prima della fiducia sul Jobs Act, Renzi ha riaperto la Sala Verde di Palazzo Chigi convocando i sindacati a discutere della riforma del mercato del lavoro. È ripartita la concertazione?
No, non è ripartita. Ed è molto probabile che la concertazione così come l’abbiamo conosciuta, ovvero quel concetto diffuso negli anni ’80 e ’90 in base al quale i sindacati sono legittimati a fare politica, sia definitivamente superato e archiviato. Il premier ha incontrato i sindacati per un’ora e le aziende per meno di un’ora: il tempo era poco. Più che un momento di confronto, è stato un momento informativo doveroso vista la portata degli interventi in approvazione sul lavoro. Ritengo che sia stato un passaggio voluto anche per eleganza istituzionale. E tra l’altro non mi sembra che le parti sociali al momento siano in grado di condizionare l’attività del governo.

Sembra però che nel testo in esame al Parlamento, alcuni temi spinosi come il superamento dell’articolo 18 e la riforma della disciplina dei licenziamenti siano stati “rinviati” ai decreti attuativi. Non sarà che qualche effetto l’incontro con Cgil, Cisl e Uil l’ha avuto?

Su questo tema c’è stata probabilmente confusione. È stato detto che nel maxiemendamento del governo non si parla di licenziamenti. Ma nella delega, di fatto, si fa riferimento all’introduzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e già in principio non era previsto esplicitamente il superamento dell’articolo 18. Le norme sui licenziamenti, nel dettaglio, saranno stabilite con i decreti attuativi. 

Qual è la sua previsione riguardo ai futuri rapporti tra il governo e le organizzazioni sindacali: come si evolveranno?
Francamente credo che il rapporto rimarrà scarso, se non nullo, anche nei prossimi mesi e durante la redazione dei decreti attuativi che concretizzeranno il Jobs Act. Matteo Renzi non ha interesse nei sindacati, non crede al loro impatto, non teme la piazza. Al massimo, teme la sua minoranza in Parlamento. Se non altro perché vota e il Jobs Act deve necessariamente essere approvato nelle due Camere.

Tra i temi all’ordine del giorno c’è stato anche “l’ampliamento della contrattazione decentrata e aziendale”. Perché tanta attenzione sul tema? Quanto è vantaggioso, per le imprese e i lavoratori, potenziare la contrattazione di secondo livello?
Come Adapt abbiamo un’osservatorio sulla contrattazione di secondo livello. A marzo pubblicheremo primo rapporto, in cui intendiamo dimostrare, contratti alla mano, che in Italia di contrattazione aziendale se ne fa già tanta di buona qualità e che è uno strumento che permette di affrontare meglio la crisi. Le aziende che hanno attivato una contrattazione di secondo livello reale sono più capaci di fronteggiare la recessione senza ledere i diritti di nessuno e con modalità intelligenti.

Come si spiega il sostegno che Renzi continua a dare al tema?
Probabilmente deriva dall’intenzione di “relegare” il sindacato nel suo ambito originario: la gestione deille questioni di lavoro. Partendo dalla concezione per cui è tanto più facile rispondere ai bisogni quanto più si è vicini ai bisogni, Renzi non sopporta politicamente che il sindacato parli per tutti e voglia dire la sua sulla politica economica a livello nazionale. L’idea di sostenere il livello aziendale è coerente con questa sua logica. E allo stesso modo lo è il sostegno a una legge sulla rappresentanza e al salario minimo: contribuisce a spostare il sindacato verso una dimensione tecnica, subordinata alla politica, in cui queste organizzazioni diventano fondamentali soltanto per interagire con le aziende e per affrontare le questioni lavorative che si pongono di volta in volta.

Garanzia Giovani: a che punto siamo? La situazione Regione per Regione.


Come sta andando il programma per rilanciare l’occupazione co-finanziato dalla Ue? A giudicare dai primi dati, non decolla ancora. Finora, i ragazzi che si sono registrati sono poco più di 220 mila, quelli convocati dai servizi per il lavoro sono 70 mila e 50 mila hanno ricevuto il primo colloquio di orientamento. Le vacancy, ovvero le occasioni di lavoro inserite dalle aziende direttamente sul portale o tramite le agenzie per il lavoro, sono quasi 16 mila, per un totale di poco più di 22 mila posti disponibili. Il 71,7% delle vacancy è concentrata al Nord, il 14,4% al Centro e il 13,8% al Sud. Ecco lo stato dell'arte della Youth Guarantee e le iniziative delle Regioni per promuoverla.


Doveva essere lo strumento giusto per rilanciare l’occupazione giovanile in Italia. Rendere più fluido l’incontro tra domanda e offerta, aumentare l’occupabilità dei giovani Neet (che non studiano e non lavorano) e migliorare i servizi e le politiche attive per il lavoro. Finora invece, a cinque mesi dal suo esordio (primo maggio), la Garanzia giovani si sta dimostrando una grande incompiuta.

In base agli ultimi dati forniti dal Ministero del Lavoro (2 otoobre), i ragazzi che si sono registrati all’iniziativa sul portale garanziagiovani.gov.it o sui portali regionali sono poco più di 220 mila (223.729) su una platea potenziale di due milioni di inattivi. Di questi, 69.347 (meno di un terzo) sono stati convocati dai servizi per il lavoro e 49.577 (poco più di 1 su 5 degli iscritti) hanno ricevuto il primo colloquio di orientamento.

Il programma, finanziato con 1,5 miliardi di euro, prevede che a ciascun candidato sia offerta un’opportunità di lavoro o di tirocinio entro quattro mesi dalla registrazione. Ma vista la sproporzione tra iscritti e convocati, c’è da supporre che a qualcuno il telefono non sia squillato in tempo. 
Oltre ai possibili ritardi, però, il dato che deve far riflettere è un altro: le vacancy, ovvero le occasioni di lavoro inserite dalle aziende direttamente sul portale o tramite le agenzie per il lavoro, sono al momento solo 15.578, per un totale di 22.270 posti disponibili. Il 71,7% delle vacancy è concentrata al Nord, il 14,4% al Centro e il 13,8% al Sud.

Tra le occasioni, la maggior parte sono offerte di lavoro a tempo determinato (11.669). Naturalmente, che le opportunità di questo tipo fossero molte di più di quelle a tempo indeterminato (2.112) era prevedibile. Fa una certa impressione, invece, notare che le vacancy legate all’apprendistato (295) e al tirocinio (981) siano pochissime, nonostante il programma intenda spingere proprio su queste tipologie contrattuali e di formazione per avvicinare i giovani al mercato del lavoro.

Curioso, inoltre, che tra i lavori messi a disposizione ci siano anche quelli autonomi: ben 251 le vacancy. In pratica, c’è chi usa il canale Youth Guarantee per trovare partite Iva a cui affidare incarichi e “lavoretti” di vario tipo. Probabilmente non è per questo che l’iniziativa è stata lanciata e finanziata.

Le istituzioni a cui spetta concretamente di implementare Youth Guarantee con azioni di politica attiva sono le Regioni, che hanno il compito di gestire tutte le attività decidendo come impiegare i fondi Ue e nazionali a disposizione, di coordinare i servizi per l’impiego e di emanare periodicamente i bandi con gli incentivi a favore delle aziende partecipanti al programma.

Tuttavia, sui portali regionali non si trovano informazioni puntuali su ciò che le Regioni stanno facendo per portare avanti il programma. Gli unici dati disponibili arrivano da alcune notizie presenti sui report settimanali pubblicati dal Ministero del Lavoro e dall’attività di comunicazione delle singole Regioni.

Ma una piccola “mappa” dello stato dell’arte della Garanzia giovani nelle Regioni si può comunque tracciare, partendo dal monitoraggio di alcune situazioni. Intanto, sappiamo che la maggior parte dei candidati iscritti risiede in tre Regioni del Centro-Sud: Sicilia (35.939 unità, il 16% del totale), Campania (30.951, 14%) e Lazio (14.978, 7%).

Queste tre Regioni assorbono anche il maggior numero di adesioni: Sicilia (35.712), Campania (30.014), Lazio (22.795) In altre parole, sono stati i territori più scelti per usufruire dei servizi messi a disposizione dal programma. Davanti a queste cifre, ognuna delle tre Regioni sta facendo le sue mosse, anche in base alla propria quota di risorse a disposizione.

La Sicilia, che ha una dotazione finanziaria di 178,8 milioni di euro ha attivato tutte le misure previste dal programma, tra cui accoglienza, formazione, apprendistato, tirocini. Ha cercato di ampliare la platea dei beneficiari della Garanzia Giovani con il Piano Giovani (anche se un problema alla piattaforma informatica ne ha complicato l’attuazione scatenando vibranti polemiche), al quale ha destinato 19,25 milioni per percorsi di tirocinio per giovani disoccupati/inoccupati, diplomati o in possesso di qualifica professionale, fino a 35 anni. In più, ha lanciato una selezione (programmata per lo scorso 30 settembre) per 1.800 ex lavoratori degli sportelli anche con l’obiettivo di supportare, grazie alla competenze di questi lavoratori, i centri per l’impiego nell’ambito di Youth Guarantee.
La Campania, che può utilizzare oltre 180 milioni di euro, ha fatto in modo che Garanzia giovani si integrasse con altre misure di politica attiva già programmate come “Campania al lavoro” (bonus occupazionale alle imprese). La Regione ha firmato un accordo con la Regione Calabria per la condivisione di strumenti di politiche attive del lavoro, ha siglato un protocollo d'intesa con i Giovani Imprenditori di Confcommercio della Provincia di Napoli per promuovere Garanzia giovani nell'ambito delle aziende del terziario e ha pubblicato un bando per attivare tirocini di sei mesi, retribuiti fino a 500 euro mensili, all'interno delle Pubbliche amministrazioni.

Il Lazio, per cui sono stati stanziati circa 137 milioni di euro, ha puntato in particolare sul bonus occupazionale (oltre 35 milioni) e su misure di accompagnamento (34.5 milioni). Ha firmato diversi protocolli d’intesa con associazioni e organizzazioni, tra cui uno con Miur, Ministero del Lavoro ed Enel che prevede l'assunzione in apprendistato di alta formazione e ricerca per il conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore di alcuni studenti dell'Istituto Tecnico “Guglielmo Marconi” di Civitavecchia.

La Regione che ha ricevuto il maggior numero di adesioni da giovani residenti in altre regioni è la Lombardia, in cui le adesioni “esterne” sono state 8.411, contro le 11.425 interne. La dotazione finanziaria di cui la Lombardia dispone per Garanzia giovani è di 178 milioni di euro, impiegati principalmente per tre misure: bonus occupazionali per le imprese (quasi 53 milioni), tirocini per supportare l'inserimento lavorativo delle persone (oltre 37 milioni), e accompagnamento al lavoro (oltre 40 milioni). Dote Unica Lavoro è lo strumento utilizzato in regione per accedere alle misure di Garanzia Giovani. 
Il Piemonte, che ha ricevuto 17.101 adesioni (12.999 interne e 4.102 esterne), dispone di oltre 97,4 milioni di euro, la maggior parte dei quali “investiti” per formazione e tirocini. La Regione è una di quelle che ha scelto di non attivare tutte le misure previste dal programma. Quelle rimaste fuori sono: apprendistato, autoimprenditorialità, bonus assunzionale per le imprese e mobilità professionale. Tra le attività che si fanno sul territorio per promuovere il piano ci sono i "lunedì giovani", incontri di orientamento e di supporto nella ricerca del lavoro presso i centri per l'impiego per i giovani under 30. A quest’iniziativa, promossa dalla Provincia di Torino, contribuiscono anche gli esperti delle risorse umane di alcune aziende del territorio. Infine,  l'Agenzia Piemonte Lavoro, con l'organizzazione no-profit Fondazione Human+ ha avviato un percorso per sostenere la creazione di imprese tra i giovani che hanno aderito a Garanzia Giovani.