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venerdì, gennaio 16, 2015

Disoccupazione giovanile al 43,9%, mai così alta. Più di un giovane su dieci è senza lavoro



Gli ultimi dati provvisori Istat restituiscono un quadro sempre più allarmante per quanto riguarda la situazione dell’occupazione in Italia. A novembre 2014, il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni è arrivato al 43,9%, il livello più elevato da quando esistono le serie storiche (1997). Il tasso di disoccupazione generale ha raggiunto il 13,4%: i senza lavoro sono 3 milioni e 457 mila. Cala il numero di occupati (22 milioni e 310 mila, - 48 mila rispetto al mese precedente) e il tasso di occupazione, pari al 55,5%.
Sale, sale, sale. E sembra che non ci sia nulla in grado di fermarlo. Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è aumentato ancora. A novembre 2014 ha raggiunto il 43,9%, 0,6 punti percentuali in più rispetto al mese precedente e 2,4 punti in più rispetto al novembre 2013.  A rilevarlo è l’Istat nelle stime provvisorie. Si tratta della percentuale di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni più alta dall’inizio delle serie storiche, cioè dal 1977, e da quello delle serie mensili (2004).
È un contesto in cui anche la disoccupazione generale fa registrare dati allarmanti. Il numero di disoccupati è pari a 3 milioni e 457 mila, l'1,2% rispetto al mese precedente (40 mila unità in più) e l’8,3% in più rispetto al novembre 2013 (264 mila in più). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,4% (+0,2% rispetto a ottobre e +0,9% su base annua).

In questo quadro, gli under 25 che non riescono a trovare lavoro sono 729 mila, con un’incidenza del 12,2% rispetto alla loro fascia d’età, in lieve aumento rispetto al mese precedente (+0,3%) e in crescita di 1,1 punti percentuali sui dodici mesi.

Un giovane su dieci è disoccupato, quindi. Come precisa l’Istat, il tasso di disoccupazione giovanile è calcolato come la quota di giovani senza lavoro sul totale di chi lavora o è in cerca (gli attivi). Non è corretto pertanto dire, come spesso accade, che due under 25 su cinque sono disoccupati.
Il numero di giovani inattivi è pari a 4 milioni 304 mila, in calo dello 0,5% rispetto al mese precedente (-22 mila) e del 2,1% nei dodici mesi (-93 mila). Il tasso di inattività della fascia 15-24 anni è pari al 72,1%, diminuisce di 0,3 punti percentuali nell’ultimo mese e di 1,1 punti rispetto al 2013.

Se invece si fa riferimento agli inattivi tra i 15 e i 64 anni, il numero cala dello 0,1 rispetto a ottobre e del 2,2% rispetto a dodici mesi prima. Il tasso di inattività, pari al 35,7%, rimane invariato rispetto al mese precedente e scende di 0,7 punti su base annua.
La situazione non è serena neanche per quanto riguarda il tasso di occupazione, che è pari al 55,5%, scende di 0,1% rispetto al mese precedente e resta invariato rispetto a dodici mesi prima. A novembre gli occupati erano 22 milioni 310 mila, 48 mila in meno rispetto a ottobre (-0,2%) e 42 mila rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-0,2%).

Le cifre diventano sempre più marcate. Così nette che a volte rischiano di non fare neanche effetto su chi le osserva. Di mese in mese, salvo alcune eccezioni, il quadro peggiora anziché migliorare. A volte, per trovare delle statistiche incoraggianti, è necessario forzare la lettura dei numeri mettendo in evidenza solo i dati positivi. In questo caso, nessun gioco di prestigio. Nessuna illusione ottica. La situazione del lavoro in Italia sembra la più cupa degli ultimi anni.

lunedì, dicembre 22, 2014

Daverio (giuslavorista, studio legale Daverio&Florio): «Il demansionamento introdotto dal Jobs Act? Funziona solo se lascia margini di libertà all’impresa. Anche di proporre al dipendente un compenso più basso»



Nella legge delega sul mercato del lavoro approvata dal Parlamento è previsto che sia più facile per l’imprenditore cambiare le mansioni a un lavoratore in casi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Ma c’è il rischio di abusi? Può essere efficace se obbliga l’azienda a non modificare il compenso? Alle domande di Synforma risponde l’avvocato Fabrizio Daverio, esperto di diritto del lavoro: «Se il cambio di mansione serve solo a evitare un licenziamento, allora la giurisprudenza attuale è già sufficiente. Non servono modifiche»


Nel Jobs Act è prevista un modifica delle norme relative al demansionamento dei lavoratori. Il Parlamento ha delegato il governo a regolamentare in modo nuovo questa materia permettendo ai datori di lavoro, nei casi di «riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale», di “abbassare” le mansioni dei propri dipendenti nell’ottica di un «utile impiego del personale».

Allo stesso tempo, la modifica dell’inquadramento di chi lavora deve avvenire – si legge nel testo della delega – nell’«interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche».

In sostanza, la riforma del mercato del lavoro dell’esecutivo consente alle aziende di ricorrere con più facilità al demansionamento come alternativa al licenziamento. Ma al contempo la legge sembra stabilire che la decisione deve essere presa senza danno economico per il lavoratore, ovvero mantenendo inalterato il compenso.

In attesa di sapere come verrà attuata la norma attraverso i decreti delegati, questa modifica ha suscitato non pochi dubbi. Da una parte, c’è chi teme che le aziende possano abusare di questa opzione per ridimensionare il costo del personale. Dall’altra, c’è chi sostiene che un intervento del genere non ha senso se si impone al datore di lavoro di mantenere inalterato il trattamento economico del lavoratore. Anche perché già è possibile, in determinati casi, ricorrere a questa possibilità per scongiurare l’interruzione di un rapporto di lavoro.

Abbiamo chiesto un parere sull’argomento all’avvocato Fabrizio Daverio, giuslavorista e socio fondatore dello studio legale Daverio&Florio.

Avvocato, cosa cambia con le nuove norme sul demansionamento?
È importante fare una premessa: il Jobs Act è una legge delega che attribuisce al governo la possibilità di emanare norme dettagliate sulla base di principi generali. Quindi, ogni considerazione puntuale può essere fatta solo davanti ai decreti legislativi che saranno emanati. Detto ciò, l’indicazione che dà la legge delega è molto generica. L’idea è di consentire un più flessibile cambio di mansioni in presenza di motivazioni particolari. In Italia, la norma sulla dequalificazione – l’articolo 2103 del codice civile – è troppo rigida: non si può cambiare di mansione un lavoratore se non dandogli un’altra di pari valore. La delega va invece in un’altra direzione: quella di consentire, in casi di riorganizzazione aziendale o in altre situazioni delicate, la modifica delle mansioni per scongiurare l’ipotesi peggiore, ovvero la risoluzione del rapporto di lavoro.

Però anche prima di questa norma si poteva derogare al divieto di demansionamento.
La norma vigente è rigorosissima e non consente alcuna deroga. È stata la giurisprudenza ad ammettere la deroga solo nei casi in cui si trattava di salvare il posto di lavoro. E  a condizione che il lavoratore fosse d’accordo.

A suo parere c’è il rischio che questa norma generi abusi da parte delle imprese?
Molto dipenderà dalla norma dettagliata emanata dal governo. Senza dubbio la norma potrebbe dare maggiore elasticità e flessibilità al datore di lavoro. Potrebbe consentire un cambio di mansione anche al di là del limite dell’equivalenza.

Però pare che sarà a parità di stipendio. Nel testo si legge «tutela delle condizioni di vita ed economiche»…
Faccio un esempio volutamente estremo. Se per esempio la posizione lavorativa di un quadro non fosse più disponibile per necessità organizzative e fosse disponibile solo la posizione di operaio, non avrebbe senso un quadro retribuito con il compenso da quadro ,a con una posizione da operaia. Il rischio che la norma perda di efficacia c’è. Secondo me bisogna lasciare la possibilità di negoziare il compenso al libero accordo delle parti, magari davanti alla direzione del lavoro o in sede sindacale. 


In sintesi, sempre basandosi sul testo della legge delega, la trova una novità positiva?
Se verrà applicata solo ai casi in cui si tratta di salvare i posti di lavoro allora è gia sufficiente la giurisprudenza che abbiamo. L’elemento di novità sarebbe molto scarso. Se invece consentirà anche maggiore flessibilità, a prescindere dai casi in cui si evita il licenziamento, e darà ampia liberta alle parti di modulare le intese a seconda dei casi senza escludere la rivisitazione del trattamento economico, allora sarà un ulteriore contributo di ammodernamento della normativa vigente.

venerdì, dicembre 05, 2014

L’intervista. Oscar Giannino: «Il Jobs Act contiene alcuni sforzi apprezzabili ma le risorse sul tavolo sono poche e molto dipende da come si concretizzerà nei decreti»


Intervista al giornalista di Radio24 e de Il Messaggero sulla riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi e approvata, finora, alla Camera. «Mi piace l’energia del premier nel prevedere verifiche nel tempo e nello sfidare i sindacati. Ma l’abolizione del reintegro giudiziale nei licenziamenti economici potrebbe essere depotenziato dalle fattispecie dei disciplinari. E ci sono tematiche assenti o a cui si è prestata poca attenzione: le politiche attive per il lavoro, l’apprendistato, il Sud e il lavoro autonomo»

Giannino, cosa trova convincente del Jobs Act?

Mi è piaciuta l’energia con cui il presidente del Consiglio ha dichiarato che la riforma del mercato del lavoro è un cantiere che andrà avanti con puntuali verifiche nel tempo delle novità introdotte. E il controllo comincerà con la definizione dei decreti. D’altronde, a mio parere è sempre mancata una strumentazione pubblica che permettesse di verificare gli effetti dei pur frequentissimi interventi di innovazione legislativa. È necessario per permettere a tutti, e soprattutto alla politica, di capire che cosa ha determinato che cos’altro, che cosa ha fallito e che cosa si può cambiare senza fare innovazioni legislative. Se si arriva davvero a un codice unico semplificato del lavoro, allora questa riforma sarà davvero un’occasione colta.

Su LeoniBlog, parla però di “bicchiere mezzo vuoto”. Su quali aspetti ha i maggiori dubbi?
La mia non è una critica pregiudiziale: mi rendo conto delle difficoltà e do atto al premier di aver operato una sana rottura politica su diversi aspetti. Tuttavia, nel merito, ciò che vedo mi lascia motivatamente aperto alla necessità di giudizi successivi. Partiamo per esempio dall’intervento sull’articolo 18. Non ho mai pensato che fosse la leva per l’occupabilità. Non mi sfugge la dimensione mitico-politica e capisco l’energia del governo nel mettervi mano. Ma potrò capire che efficacia avrà quando ci sarà una determinazione specifica delle fattispecie del licenziamento discriminatorio. Maggiore è il dettaglio, più elevato è il rischio che un consulente dica “è discriminatorio: andiamo dal giudice”. Il passo avanti rispetto alla riforma Fornero di prevedere il solo indennizzo per il licenziamento economico individuale verrebbe in qualche modo depotenziato. Si rischia di far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Anche riguardo all’indennizzo ho delle riserve: finché non si vede come si calcola, sopra e sotto i 15 dipendenti, non sono in grado di capire fino a che punto è una misura utile.

Sono sufficienti le risorse messe sul tavolo?   
La questione delle risorse è uno dei principali punti aperti. Per esempio, un aspetto molto importante è il superamento della cassa integrazione attraverso l’Aspi. Ma finché l’Aspi continuerà ad avere meno risorse della cassa, imprese e sindacati continueranno a tenersi quella. Si parlava di risorse aggiuntive per questo ammortizzatore ma al momento, nel passaggio parlamentare, sembrano sparite.

E i tre miliardi di decontribuzione previsti per i primi tre anni per chi assume con il contratto unico a tutele crescenti?
Io ho sempre pensato che per ottenere una maggiore occupabilità in tempi brevi-medi le risorse vanno concentrate su occupazione aggiuntiva e non vanno date a tutti i nuovi contratti, compresi quelli che sostituiscono il tempo determinato con l’indeterminato. In genere, gli incentivi hanno più effetto se non dati a pioggia. Questi tre miliardi, quindi, li avrei visti meglio se fossero stati previsti solo per le nuove assunzioni. Anche dal punto di vista fiscale, sarebbe più sostenibile concentrare le risorse sull’occupazione aggiuntiva.

Come agisce a suo parere la riforma sulle politiche attive per il lavoro?
La questione delle politiche attive è fondamentale per l’occupabilità. È necessario passare da troppe politiche passive a più politiche attive. Ma in questa riforma ci sono grandi punti interrogativi. Per esempio, questa Agenzia nazionale per l’occupazione, rischia di essere null’altro che la somma degli uffici provinciali per il lavoro. Se resta tutto nelle mani del pubblico, si tratterà di un fallimento conclamato. Bisognerebbe fare qualcosa di analogo a ciò che si è fatto in Germania. L’agenzia centrale dovrebbe limitarsi a gestire l’accreditamento dei privati, soprattutto grandi soggetti e multinazionali, più bravi nell’intermediare la domanda e l’offerta di lavoro. D’altronde, l’esperienza finora fallimentare di Garanzia Giovani è una colossale riprova dell’impossibilita della macchina pubblica di gestire le politiche attive.  Inoltre, servirebbe anche che il Jobs Act sia accompagnato da una riforma della scuola, secondaria e terziaria, e con un’accelerazione sull’apprendistato. Il contratto di inserimento triennale funzionerà solo con un sistema scolastico più professionalizzante e lasciando intatti un cospicuo numero di contratti a termine: è un paradosso che i dipendenti dei call center invochino il mantenimento del contratto a progetto per poter conservare il proprio lavoro.

Ci sono dei grandi assenti in questa riforma?
Oltre agli aspetti che ho già descritto – politiche attive, apprendistato – ce ne sono diversi. Io, che pure sono stato molto critico sulle politiche differenziate per il Sud, vista la disparità pazzesca in ambito lavorativo - 600 mila posti di lavoro persi al Mezzogiorno su un milione, circa 37% di disoccupati nelle costruzioni… - avrei sperimentato cose diverse, proponendo per esempio incentivi diversificati per il Mezzogiorno. Poi, poteva essere un’occasione per parificare lavoro privato e pubblico e – cosa importantissima – per aprirsi alla possibilità di estendere i dirititi di una parte dei lavoratori autonomi verso cui regna una totale indifferenza. Penso agli iscritti alla gestione separata Inps, che versano contributi altissimi senza avere nessuna ombra di tutela.

giovedì, dicembre 04, 2014

Jobs Act e Garanzia Giovani: quali saranno i veri cambiamenti


La riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi convince, ma non del tutto. La Youth Guarantee è un’opportunità ancora da sfruttare. Sono questi i temi di cui si è discusso il 28 novembre a Milano durante il convegno “Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani?”, organizzato da Synergie Italia e Adapt. Tra i relatori Giuseppe Garesio (ad di Synergie Italia), Oscar Giannino ed Emmanuele Massagli (presidente Adapt)

La riforma del mercato del lavoro targata Renzi riuscirà ad avere un impatto positivo sull’occupazione? Il governo e le Regioni saranno capaci di non sprecare l’opportunità della Youth Guarantee? Se ne è discusso il 28 novembre nella sede di Assolombarda a Milano durante il convegno “Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani?”, organizzato da Synergie Italia e Adapt, associazione di studi sul lavoro fondata da Marco Biagi. L’iniziativa faceva parte dei progetti per celebrare i 15 anni di attività di Synergie Italia.

«Il Jobs Act? Luci e ombre», ha commentato Oscar Giannino, giornalista ed ex leader del movimento Fare per fermare il declino. «È il quinto intervento sul mercato del lavoro in cinque anni: così le imprese non ci capiscono nulla. Ma i pregi ci sono, a cominciare dall’abolizione della compresenza tra reintegro e indennizzo in caso di licenziamento economico».

Ma la riforma sarà in grado di risolvere i problemi del mercato del lavoro? Secondo il giornalista, che aveva il compito di moderare il dibattito, molto dipenderà dai decreti attuativi. «Bisognerà capire come verranno tipizzati i licenziamenti disciplinari riguardo al reintegro e cosa si stabilirà sul calcolo degli indennizzi. Inoltre, se l’introduzione del contratto a tutele crescenti è apparentemente molto ragionevole sarà necessario capire come sarà effettuato lo sfoltimento degli altri contratti a termine: i call center, per esempio, già temono che l’abolizione del contratto a progetto potrebbe equivalere per loro alla disoccupazione».

Anche Giannino, poi, si unisce al coro delle critiche – provenute da varie parti, sia politiche che sociali – secondo cui il Jobs Act ha posto poca attenzione all’apprendistato («che invece andrebbe rafforzato») e al lavoro autonomo. «In questo momento – ha concluso – è difficile quindi elaborare l’effetto sull’occupabilità».

Per fare analisi è necessario partire da dati condivisi. Invece, proprio il 28 si è assistito alla “guerra di numeri” tra il Ministero del Lavoro (più di 400 mila nuovi “posti fissi” in base alle comunicazioni obbligatorie relative al lavoro dipendente e parasubordinato nel terzo trimestre del 2014) e l’Istat (disoccupati a quota 3,41 milioni in base alle rilevazioni mensili e trimestrali).

A ridare un senso alle cifre ci ha pensato Emmanuele Massagli, presidente di Adapt. «Osservando le comunicazioni obbligatorie, notiamo che gli avviamenti di rapporti di lavoro sono stati nel terzo trimestre 2,47 milioni, il 2,4% in più rispetto allo stesso periodo 2013», ha detto Massagli. «Allo stesso tempo, le cessazioni sono state 2,41 milioni. La maggior parte dei rapporti di lavoro sono quelli a tempo determinato, visto che il Ministero comunica che sono il 70% circa dei nuovi contratti. Questa prevalenza è anche una conseguenza della riforma Fornero, che aveva irrigidito più o meno tutte le altre forme contrattuali tranne il tempo determinato».

Un elemento rilevante, secondo il presidente Adapt, riguarda l’apprendistato. «Dalle comunicazioni obbligatorie emerge che è cresciuto del 3%: è poco, ma è un dato interessante». Sezionando invece i numeri dell’Istat, Massagli ha evidenziato che il numero dei disoccupati in Italia (3 milioni e 410 mila) è aumentato, così come il tasso di disoccupazione (arrivato a 13,2%). «Ma le statistiche ci dicono anche che la quantità di over 50 al lavoro è aumentato: è un dato in controtendenza, che segnala la voglia di tornare a lavorare».

Per Massagli, alcune delle misure previste dal Jobs Act, come il contratto a tutele crescenti e la decontribuzione, sono in grado di incidere positivamente sul lavoro degli adulti. «Le imprese si trovano così a pagare di meno per avere personale preparato. Ma per i giovani, come ha dimostrato la bassa efficacia degli interventi degli ultimi governi, la decontribuzione non funziona». Una novità del Jobs Act è definire il contratto a tempo indeterminato come la forma “comune” di rapporto di lavoro. «È in grado questo contratto di leggere il mercato del lavoro del futuro? Ho i miei dubbi».

Un’altra incognita è rappresentata dall’abolizione del contratto a progetto. «Attenzione – ha avvertito lo studioso –. Se questa misura non sarà realizzata in modo graduale, centinaia di migliaia di lavoratori rischierebbero di rimanere senza impiego». Infine, una nota sull’introduzione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione. «A parte l’infelice scelta dell’acronimo, mi chiedo: a che serve un’agenzia del genere se poi non si è capaci di far conoscere uno strumento importante come la Garanzia Giovani?».


I più chiamati in causa sono naturalmente i politici. E il parlamentare presente, Stefano Lepri, senatore Pd componente della commissione Lavoro, ha difeso gli intenti della riforma approvata alla Camera (e in via di approvazione al Senato) sottolineando i potenziali punti di forza. «Il contratto unico, assimilando in termini di flessibilità in uscita le imprese sotto i quindici dipendenti con quelle che ne hanno di più, è una misura potente per centinaia di migliaia di imprese: il fatto che ci siano pochissime aziende tra i 15 e i 20 dipendenti è la prova che al momento la legislazione è troppo rigida».

Quanto alle politiche attive per il lavoro, l’auspicio di Lepri è che si arrivi a una situazione in cui le agenzie private si occupano del matching tra domanda e offerta di lavoro mentre i centri per l’impiego supervisionano altre questioni di carattere organizzativo e burocratico.

Un no secco al Jobs Act, eccetto qualche eccezione, arriva da Valentina Aprea, assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro della Regione Lombardia. «È una delega in bianco al governo, a spesa pubblica sostanzialmente invariata, che difficilmente creerà nuova occupazione e che crea carrozzoni pubblici come l’Agenzia nazionale per l’occupazione», tuona l’assessore. «La strada giusta per creare posti di lavoro è la detassazione del lavoro per le imprese».

Come amministratrice, Aprea si concentra sull’applicazione di Garanzia Giovani che in Lombardia, caso raro, sta producendo risultati piuttosto soddisfacenti. «Il governo non ha lavorato bene su questo strumento. Ma è troppo presto per dire che la Youth Guarantee è fallita. Se sta cominciando a funzionare da noi in Lombardia, può succedere anche altrove».

Non si tirano fuori dal dibattito anche le imprese, che per bocca di Alessandro Maggioni, presidente dei Giovani imprenditori Confindustria Monza e Brianza, dicono: «Gli incentivi della Garanzia Giovani e dei bonus occupazionali sono poco chiari: ci abbiamo capito poco. In ogni caso, per quanto le riforme possano costituire un buon terreno per creare più occupazione, i “contadini” che assumono sono gli imprenditori e possono farlo solo se ci sono le condizioni giuste nell’economia. Ecco perché prima ancora del Jobs Act, serve una politica industriale efficace». Il Jobs Act può funzionare, spiega l’imprenditore. Ma è importante che, riguardo alla nuova disciplina dei licenziamenti economici, sia ben chiaro l’indennizzo da corrispondere al lavoratore.

Se il parere dei sindacati è generalmente contrario alla riforma made in Renzi, la Cisl è la voce fuori dal coro. Roberto Benaglia, segretario confederale Cisl Lombardia con delega al mercato del lavoro, fa notare che il suo sindacato non partecipa allo sciopero generale indetto dalla Cgil il 12 dicembre e approva le linee di fondo del Jobs Act. «Riduce il dualismo tra i lavoratori con contratto a tempo indeterminato o che lavorano in imprese con più di 15 dipendenti e chi lavora senza un rapporto a tempo indeterminato e in piccole aziende».

Un elemento determinante, per il sindacalista, è l’attenzione che la riforma del mercato del lavoro pone sulla tutela dei periodi di disoccupazione. «Puntare più risorse sugli ammortizzatori per la disoccupazione è positivo. Fa in modo che la cassa integrazione torni a essere uno strumento per fronteggiare brevi periodi di crisi».

Un soggetto che, in questo contesto, può svolgere un ruolo determinante sono le agenzie per il lavoro. Come ha spiegato Giuseppe Garesio, amministratore delegato di Synergie Italia. «Come Synergie Italia, festeggiamo i 15 anni di attività. Siamo partiti nel 1999, quando la legge Treu ha introdotto, con trent’anni di ritardo rispetto al resto d’Europa, il lavoro interinale. E ora, nel 2014, così come tutte le agenzie per il lavoro, possiamo essere protagonisti di questo cambiamento che il Jobs Act può generare, in quanto siamo una porta di ingresso gratuita per il lavoro permanente: non a caso, moltissimi lavoratori trovano un impiego stabile dopo una missione svolta attraverso un’agenzia per il lavoro. Questo ruolo delle agenzie va riconosciuto. E si può davvero fare in modo che pubblico e privato progettino insieme le politiche attive per il lavoro. Questa riforma ha molti tratti positivi, tra cui il passaggio verso processi “europei” di flexicurity. È una grandissima occasione di voltare pagina e non dobbiamo perderla».

L’incontro è stato chiuso da un’altra voce imprenditoriale: Michele Angelo Verna, direttore generale di Assolombarda. «Il Jobs Act? Sembra una riforma buona. È positivo per esempio che il tempo indeterminato venga definito la forma normale per i rapporti di lavoro. Il testo di legge, inoltre, sottolinea che i contratti devono essere “più convenienti” per le imprese: è un buon segno. Sono previsti sgravi per i primi tre anni: bene, vediamo se diventa una misura strutturale. O ancora, il demansionamento: può essere un’alternativa al licenziamento che prima non era prevista».

Semaforo verde, quindi. Ma purché al momento dei decreti, quando si deciderà concretamente come far funzionare la riforma, il governo non si muova in solitaria. «Il ministro Poletti ha parlato volutamente di “delega alta”. Al momento buono bisognerà discutere e confrontarsi con tutti: imprese, sindacati, esperti e media».