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venerdì, ottobre 31, 2014

Garanzia Giovani, ecco il sondaggio per capire come sta procedendo davvero il programma Ue contro la disoccupazione giovanile


La testata online Repubblica degli Stagisti e l’associazione Adapt hanno lanciato il “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”, una rilevazione aperta in cui gli iscritti alla Youth Guarantee possono raccontare in forma anonima la propria esperienza. Eleonora Voltolina, la direttrice del portale dedicato al lavoro e ai giovani, ci racconta come è nata l’iniziativa e quali sono i primi riscontri arrivati dai ragazzi

Per capire a che punto siamo con la Garanzia Giovani non bastano né i report del Ministero del Lavoro né le statistiche fornite dalle Regioni. I numeri non sono sufficienti a spiegare i dubbi, le frustrazioni e – perché no – le esperienze positive che gli iscritti al programma stanno vivendo. Senza ascoltare le testimonianze dirette è difficile avere un quadro completo della situazione.

Ecco perché la Repubblica degli Stagisti, testata giornalistica online che si concentra su giovani e lavoro, e Adapt, l’associazione per gli studi e le ricerche sul lavoro fondata da Marco Biagi, hanno lanciato online l’iniziativa del “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”.

Si tratta di un sondaggio in cui i ragazzi che partecipano al programma co-finanziato dall’Ue per combattere la disoccupazione giovanile possono riportare in forma anonima attraverso un questionario la propria esperienza e mettere in risalto i pro e i contro del progetto. I link al monitoraggio si trovano su entrambi i siti: Repubblica degli Stagisti (http://www.repubblicadeglistagisti.it/pages/monitoraggio-informale-garanzia-giovani/ ) e Adapt (http://www.bollettinoadapt.it/monitoraggio-informale-garanzia-giovani/). Abbiamo chiesto a Eleonora Voltolina, direttrice di Repubblica degli Stagisti, di spiegarci l’iniziativa e di raccontarci cosa emerge dalle prime risposte arrivate dagli iscritti.

Voltolina, come è nato il progetto del “Monitoraggio informale Garanzia Giovani”?
È nato dal fatto che noi, come Repubblica degli Stagisti, e Adapt, con professionalità e punti di vista diversi, siamo due tra i soggetti più attenti a monitorare la Garanzia Giovani. Stiamo seguendo da più di un anno le tappe e gli intoppi dell’iter di questo progetto. Entrambi stavamo svolgendo una ricognizione e abbiamo sentito, quasi contemporaneamente, l’esigenza di unire le forze. L’idea è di andare al di là dei report ministeriali, importanti ma asettici, e di farci raccontare direttamente dai ragazzi come stanno vivendo quest’esperienza.

Che riscontri avete avuto finora?
Siamo partiti giovedì 16 ottobre e in dieci giorni abbiamo ricevuto oltre 600 questionari compilati: un buon risultato per un progetto senza pubblicità. Stiamo costruendo intorno a noi una rete di partnership e facciamo appello a tutte le realtà che hanno un contatto diretto con i giovani: sindacati, associazioni giovanili, università, siti internet con mailing list. Ci diano supporto per mandare il giro il link del sondaggio e farlo conoscere. Il primo ente che ci ha voluto dare una mano è l’Università di Catania: ha parlato del monitoraggio nella newsletter inviata ai suoi laureati. Tra l’altro, è anche un modo per promuovere la Garanzia Giovani: alcuni ragazzi non sanno neanche cosa sia.



Come avete impostato il monitoraggio?
Innanzitutto abbiamo pensato che un sondaggio limitato nel tempo non è uno strumento indicativo. Perciò abbiamo deciso di ricontattare tutti quelli che fanno il sondaggio dopo due mesi e una terza volta dopo altri due mesi, in modo di coprire i quattro mesi che rappresentano il tempo entro il quale il sistema della Garanzia Giovani si impegna a offrire un’opportunità a chi si registra. Alla fine, entro marzo-aprile del prossimo anno potremo delineare un quadro molto dettagliato.


Che tipo di domande contiene il questionario?
Segue un percorso logico. Si parte dalla domanda d’obbligo – chi sei? – in cui ognuno scrive la propria età, il titolo di studio e la condizione lavorativa. Poi chiediamo agli iscritti se stanno cercando attivamente lavoro e se si sentono dei Neet (Not in education, employment or training, le persone che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione, ndr). Quindi, c’è una parte specifica sull’iniziativa. Ci sono domande del tipo: come hai conosciuto la Garanzia Giovani? Quando ti sei iscritto? Quanto tempo è passato dall’iscrizione al momento in cui sei stato contattato? Ti è stato fissato un incontro di persona? Cosa ti è successo quando ti sei presentato al primo colloquio? Cosa ti è stato spiegato al centro per l’impiego? Cosa ti hanno proposto? Infine, c’è anche la domanda aperta: raccontaci a parole tue come è andata.


Quali sono le risposte più frequenti?
La maggior parte dei ragazzi, finora, restano neutrali, anche se non nascondono un po’ di delusione per il fatto che i primi incontri con il personale dei centri per l’impiego sono stati spesso superficiali. Sono in pochi finora a raccontare di essere stati davvero contenti dell’esperienza.


Quali sono gli aspetti più negativi che i ragazzi hanno raccontato finora nei questionari?
Ce ne sono vari. Alcuni raccontano di colloqui di gruppo. In pratica, convocano nello stesso giorno un certo numero di iscritti tutti insieme. A quel punto, l’addetto spiega la parte generale a tutti e poi intrattiene un contatto a tu per tu con i singoli che dura pochissimo: si limita allo scambio di documenti e alla presa in carico del singolo iscritto. Un altro elemento negativo ricorrente è che spesso i ragazzi percepiscono la persone che hanno di fronte come non abbastanza preparate. Ci sono alcuni che dicono agli iscritti: se vuoi saperne di più, vai sul sito. Infine, molti sono preoccupati, ovviamente, della scarsa adesione delle aziende.


Ma ci sono cose che funzionano? I ragazzi raccontano anche aspetti positivi?
In alcune testimonianze non manca chi afferma di apprezzare le situazioni in cui si trovano di fronte un interlocutore preparato che non li illude. In pratica, sono più contenti quando incontrano addetti competenti che non promettono la luna: vogliono verità, non realtà abbellite.

Voltolina, ma lei che impressione ha della Garanzia Giovani? Cosa non sta funzionando bene?
Il primo limite di questa iniziativa è la scarsità di opportunità in tutti i campi, soprattutto quello aziendale. Pare che i fondi non facciano abbastanza gola alle imprese. E c’è il problema che in alcune regioni le agevolazioni si cannibalizzano l’una con l’altra. Ci sono cioè regioni che hanno lanciato progetti per l’occupazione giovanile che prevedono incentivi più convenienti per le aziende. E ovviamente non si tratta di incentivi cumulabili. Alle poche offerte si aggiunge l’inadeguatezza del canale di erogazione, e in particolare dei centri per l’impiego. Tanti ragazzi ci raccontano che quando sono andati al colloquio hanno trovato sistemi bloccati, attese lunghe e personale poco preparata. I centri per l’impiego sono subissati dalla burocrazia, non hanno abbastanza personale, hanno talvolta addetti poco competenti e non riescono a gestire una rete efficace di rapporti con il territorio. Parliamoci chiaro: manca l’infrastruttura umana per gestire questo fiume di persone. Basta pensare che gli iscritti sono più di 250 mila, ma solo 60 mila sono stati presi in carico.

Cosa si potrebbe fare in concreto per migliorare la situazione?
Occorre agire il prima possibile sui due problemi che ho appena focalizzato: la mancanza di offerte e l’inadeguatezza dei canali di erogazione del servizio. Per risolvere, almeno in parte, questo secondo punto si può pensare di dotare queste strutture, per l’anno 2015, di esperti di recruiting assunti a progetto che si concentrino solo su Garanzia Giovani.  Un reclutamento eccezionale, per un anno, per fare in modo che questo miliardo e mezzo di euro a disposizione non vada sprecato.

martedì, ottobre 28, 2014

TFR in busta paga: quali sono gli effetti sulle imprese? Intervista a Tiziana Vettor (Università Milano-Bicocca)



La manovra di stabilità varata dall’esecutivo Renzi prevede la possibilità, per i lavoratori che ne faranno richiesta, di avere nel cedolino mensile i soldi accantonati per la liquidazione. Che incidenza può avere questo intervento – qualora diventasse legge – sulle aziende? Lo abbiamo chiesto a Tiziana Vettor, docente di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano-Bicocca

La legge di stabilità varata dal governo Renzi prevede che i lavoratori dipendenti del settore privato possano chiedere l’anticipo del Tfr in busta paga. A partire dal primo marzo 2015, su richiesta, il denaro destinato a essere accantonato per la liquidazione potrà finire nel cedolino mensile.

A patto che venga effettivamente approvata dal Parlamento, la misura andrebbe ad aumentare il reddito dei lavoratori che richiedessero l’anticipo e garantirebbe un gettito extra per le casse dello Stato in quanto le somme versate sarebbero tassate.

Ma quale sarebbe l’effetto di questo intervento per le imprese? Le aziende con meno di 50 dipendenti, che gestiscono autonomamente il Tfr dei propri lavoratori, andrebbero incontro a problemi di liquidità: le imprese italiane, soprattutto piccole, che dispongono delle risorse per anticipare le quote. Secondo una stima di Unimpresa, con il passaggio del 50% del trattamento di fine rapporto nella busta paga sono a rischio 5,5 miliardi di euro di liquidità delle Pmi.

Per compensare la liquidità in meno, il governo pensa alla creazione di un fondo, in cui sarebbero coinvolte la Cassa depositi e prestiti e le banche, a cui gli imprenditori possono attingere per anticipare le somme ai dipendenti. E il tasso di interesse a cui questo prestito verrebbe erogato dagli istituti di credito alle imprese sarebbe uguale a quello a cui si rivalutano annualmente le quote della liquidazione.

Ma è tutto così lineare? Lo abbiamo chiesto a Tiziana Vettor, professore di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Che effetti può avere sulle imprese l’anticipo in busta paga del Tfr?
L’anticipo del Tfr in busta paga crea un problema di liquidità per le imprese. E questo potrebbe tradursi in un rischio dal punto di vista della loro stabilità finanziaria.

Il fatto di poter fare affidamento su finanziamenti ad hoc del canale bancario risolve il problema di anticipare le somme? I 5,5 miliardi di liquidità che – secondo alcune stime – sarebbero a rischio non verrebbero compensati da questo strumento?
Per rispondere a questa domanda, intanto occorrerà verificare quanti lavoratori, una volta entrata in vigore la legge di stabilità per l’anno 2015, decideranno di usufruire della possibilità dell’anticipo in busta paga del Tfr. A meno di pensarli tutti interessati a realizzare un maggior incremento retributivo, chi lavora potrebbe avere invece interesse a mantenere una retribuzione indiretta a fine rapporto di lavoro quale forma di risparmio. Quanto alle imprese, il fatto di poter contare su finanziamenti ad hoc del canale bancario costituisce, a oggi, una mera enunciazione. Occorrerà vedere che accordi saranno fatti con le rappresentanze degli istituti bancari e capire che disposizioni ci saranno in merito alle risorse a disposizione: i 100 milioni di euro di cui si parla. Quello che sembra probabile è che le imprese potranno accedere a un prestito a condizioni di favore. Ma per quanto “favorito”, sempre di prestito si tratta. In altre parole, se oggi l’impresa poteva gestire una liquidità decidendo in proprio, domani, su questi aspetti, interverrà un soggetto terzo – le banche – secondo modalità e condizioni al momento tutte da definire.

E se le aziende che chiedono i prestiti versassero in condizioni difficili? Il fondo speciale di garanzia che sarebbe istituito presso la Cassa depositi e prestiti e le banche sarebbe sufficiente?
Sarebbe meglio che le risorse della Cdp fossero stanziate per fare quegli investimenti strutturali che potrebbero rendere dinamica la nostra economia. Invece, in via generale, in queste nuove disposizioni sembra di intravvedere un cambio di prospettiva, che mi sembra il vero elemento di novità: se prima si chiedeva, o si auspicava, l’accesso al credito per realizzare investimenti utili alla crescita, oggi la richiesta di liquidità sembra finalizzata soltanto a compensare situazioni di crisi. 

Nella legge sarebbe previsto che le aziende con meno di 50 dipendenti debbano versare all’Inps comunque un “contributo mensile pari allo 0,2% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali nella stessa percentuale della quota maturanda” che viene liquidata ai dipendenti. Cosa significa? Cosa cambierebbe rispetto alla situazione attuale?
Rispetto a prima, sembrerebbe che le imprese debbano versare all’Inps lo 0,2% della retribuzione imponibile nel caso in cui non intendano corrispondere con risorse proprie la quota maturanda del Tfr ma decidano di accedere a un finanziamento. Tale disposizione parrebbe quindi finalizzata a garantire le risorse economiche in caso di finanziamento assistito. Insomma, il datore di lavoro paga una quota a garanzia per l’anticipo del Tfr in busta paga. Salvo modifiche che potranno intervenire nella discussione parlamentare, è, questo, un punto che apre a dei costi, benché motivati dalla necessità del prestito.

venerdì, ottobre 24, 2014

Il caso Virgin, l’azienda che ha eliminato gli orari di lavoro



Richard Branson, il 64enne britannico che ha fondato il gruppo che spazia in settori che vanno dalla musica ai viaggi, ha deciso che i suoi dipendenti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti non devono sottostare ad alcun orario di lavoro purché portino a termine i progetti a loro assegnati. La filosofia è simile a quella che ha ispirato negli scorsi anni altre aziende come Google e Netflix. È necessario che i lavoratori abbiano “più tempo per la famiglia e per coltivare i loro interessi”, ha detto l’imprenditore. Anche perché – parole sue - “una persona felice, lavora meglio”.

Quanto è produttiva una persona che lavora freneticamente? Quanto conta un’ora passata in più o in meno in ufficio sui risultati di un’azienda? Se un lavoratore svolge bene il suo compito può organizzarsi la giornata di lavoro in modo autonomo? Fino a pochi anni fa era quasi proibito mettere in discussione l’organizzazione oraria dell’attività lavorativa.

Invece, grazie all’esempio di alcune aziende innovative, il paradigma è cambiato: in molti casi, la qualità del lavoro è diventata molto più determinante rispetto alla quantità di lavoro svolto. L’ultima grande compagnia che ha messo in pratica questa rivoluzione è la Virgin: il suo fondatore e numero uno, Richard Branson, ha deciso che i suoi dipendenti non devono più sottostare ad alcun orario di lavoro.

La regola di fondo che ha ispirato l’istrionico e multimiliardario imprenditore britannico 64enne, messa nero su bianco sul suo blog (www.virgin.com/richard-branson) e nel libro The Virgin Way: Everything I Know About Leadership, è una: “contano i risultati, non le ore che passi in ufficio”.

Così, lo staff del suo impero, che spazia nei settori più svariati (aerei, palestre, musica e radio solo per citarne alcuni) ora potrà organizzare il proprio tempo lavorativo diversamente e concentrarsi più sui compiti da svolgere che sul momento in cui timbrare il cartellino.

Certo, la svolta non vale esattamente per tutti i dipendenti Virgin, probabilmente anche per le diverse legislazioni vigenti nei vari Paesi del mondo nell’ambito del lavoro. Ma di sicuro, il personale di Gran Bretagna e Stati Uniti potrà seguire questa nuova politica. In cosa consiste nello specifico? A patto che ciascuno esegua gli incarichi che gli sono stati affidati e porti a termine i progetti assegnati, ci sarà libertà di assentarsi dall’ufficio per “un’ora al giorno, una settimana o un mese, senza che nessuno faccia domande”, ha detto Branson.

È necessario che i lavoratori abbiano “più tempo per la famiglia e per coltivare i loro interessi”. Perché chi è sereno, è più produttivo. Parola dello stesso imprenditore: “Una persona felice, lavora meglio”.

Tra l’altro, il fondatore del gruppo Virgin ha anche annunciato che sarà sua premura incoraggiare anche le aziende controllate affinché fermino il conteggio dei giorni di vacanza. Oppure, per dirla con le parole dello stesso supermanager, “i dipendenti decideranno di andare in vacanza solo quando capiranno che la loro assenza non danneggerà le entrate dell’azienda, un altro collega o la loro stessa carriera”.

Insomma, sentirsi liberi di entrare e uscire quando si vuole – vacanze comprese – ma dedicarsi anima e corpo all’azienda. Che poi, a ben vedere, è una filosofia molto simile a quella seguita in questi anni da Google, forse non a caso una delle maggiori aziende del mondo.
Ma Virgin e Google sono solo la punta dell’iceberg. Anzi, sembra che proprio gli esempi provenienti da società più piccole (ma non meno conosciute) abbiano ispirato le nuove politiche del boss della multinazionale britannica. In questo caso il punto di riferimento è stata Netflix, la piattaforma Usa di streaming video, che non tiene conto dei giorni di vacanza che si prendono i propri dipendenti. E a suggerire a Branson il caso sarebbe stata la figlia.


martedì, ottobre 21, 2014

La ricerca di lavoro? Social, ma non troppo


Più della metà delle attività di recruiting si svolge, a livello mondiale, su piattaforme come Linkedin, Facebook e Twitter. A fine 2014 la percentuale arriverà al 61%. Eppure, secondo un’indagine condotta su 1.500 recruiter di 24 Paesi e 17 mila persone in cerca di impiego soltanto il 7% dei candidati riesce a trovare un’occupazione affidandosi ai social media. Incide anche la scarsa attenzione posta sulla web reputation: il 25,5% dei selezionatori ammette di aver scartato alcuni profili solo perché sulle loro pagine social personali comparivano foto imbarazzanti o commenti fuori luogo


Trovare lavoro attraverso i social network è più facile? Se si prendono in considerazione i risultati di una ricerca svolta a livello internazionale su 1.500 recruiter di 24 Paesi (di cui 269 italiani) e 17 mila persone in cerca di impiego, la risposta sembra inequivocabile: no.

In buona sostanza, secondo lo studio, il social recruiting è una prassi molto diffusa tra i selezionatori ma alla fine è meno efficace del previsto per quanto riguarda la possibilità di far incontrare domanda e offerta di lavoro.

Nel 2014, soltanto sette candidati su cento hanno infatti reperito un posto grazie a Linkedin, Facebook, Twitter e simili. Certo, nel 2013 non andava meglio, dal momento che solo il 2% di chi andava alla ricerca di un’occupazione ci riusciva utilizzando le piattaforme sociali.

Eppure, stando ai dati del rapporto, curato da una multinazionale del settore HR e Università Cattolica di Milano, più della metà delle attività di selezione del personale (il 53%) si concentra ormai sulla rete e, in particolare, sui social media. E tanto per avere un’idea del trend, la percentuale del recruiting compiuto su Linkedin e co. sarà entro fine anno del 61%. Per esempio, chi si rivolge ai centri per l’impiego è dunque una minoranza.

La fiducia nel potere di Internet è quindi alta. In Italia, quest’anno, su un campione di 7.600 interpellati a caccia di un’occupazione, due su tre (il 67%) hanno affermato di utilizzare i social media come canale prioritario per la ricerca (rispetto al 2013 si registra una crescita del 14%) e il 56% ha anche pubblicato su queste piattaforme il proprio curriculum vitae (l’anno scorso la percentuale era del 30%).

Il luogo privilegiato per il collocamento, a prescindere dai risultati, sta diventando quindi la socialsfera. La piattaforma preferita per la ricerca professionale? Linkedin, scelto come prima risorsa online da quattro candidati su dieci (41%). Al secondo posto c’è un social più personale come Facebook, che raccoglie il 23% delle preferenze.

Le categorie che si affidano di più al web per individuare i profili più adatti sono quelli più legati al rapporto con i clienti: nelle vendite, il 54,2% delle professionalità vengono cercate così; nel marketing siamo al 40,8%. Altro settore che punta sui social per fare reclutamento è quello relativo ad amministrazione e finanza (45,8%). I servizi, insomma, vanno per la maggiore.

Ma, come abbiamo detto, solo il 7% delle persone che cercano un’occupazione riescono a trovarla grazie ai social. A cosa sono dovute queste percentuali così basse? Un elemento che incide è la cosiddetta web reputation, ovvero la reputazione che gli utenti si costruiscono sui social in base ai contenuti che diffondono.

Soprattutto su Facebook, che si presta particolarmente bene al racconto di fatti e opinioni personali, basta una frase fuori luogo, un commento sgradevole o un’esplicitazione delle proprie inclinazioni politiche a condizionare i selezionatori più di quanto possano fare mille curricula.

Le esperienze professionali e la carriera formativa contano, certamente. Ma più del 25% di chi si occupa di recruiting dichiara di aver cestinato cv e messo una x su un candidato solo per fotografie e prese di posizione pubblicate sulle pagine social personali.

A ogni fotografia goliardica in più, magari con una bottiglia di vino in mano, corrisponde una chance in meno di essere assunti. Il tutto, con buona pace dei responsabili delle risorse umane delle aziende: scartare i candidati per questi motivi non lascia spazio ad alcun senso di colpa.